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Carissime compagne e compagni,
Eccomi a voi per un saluto, sia pure da lontano, dal mondo capovolto che da venti giorni mi tiene carcerata.
“Carcerata”, si, non “detenuta”: “detenuta” è un eufemismo che non rende bene la realtà; lo stridere ferrigno delle chiavi che chiudono a doppia mandata il cancello della cella; i colpi di spranga della “battitura” alle inferriate, nelle ore più disparate del giorno e della notte, a prevenire evasioni impossibili; la convivenza forzata, a due a due, in cubicoli di due metri per quattro, il cui fine non è certo favorire la socialità, ma privarci di momenti indispensabili di solitudine, del silenzio buono che rigenera, che ti permette di riordinare i pensieri e i ricordi.
“Carcerata”, si, non “detenuta”: “detenuta” è un eufemismo che non rende bene la realtà; lo stridere ferrigno delle chiavi che chiudono a doppia mandata il cancello della cella; i colpi di spranga della “battitura” alle inferriate, nelle ore più disparate del giorno e della notte, a prevenire evasioni impossibili; la convivenza forzata, a due a due, in cubicoli di due metri per quattro, il cui fine non è certo favorire la socialità, ma privarci di momenti indispensabili di solitudine, del silenzio buono che rigenera, che ti permette di riordinare i pensieri e i ricordi.
Qui siamo come uccellini chiusi in gabbia, in una gabbia
troppo stretta.
In questi luoghi, più che la violenza ceca dello stato che ci reprime (che pure esiste) colpisce la violenza subdola dei divieti immotivati, delle regole ad arbitrio, pesa la perdita della dimensione spazio-temporale e soprattutto, per chi come me è ancora nella sezione delle “nuove aggiunte” in stato di “media osservazione”, la chiusura delle celle diciotto ore su ventiquattro.
In questi luoghi, più che la violenza ceca dello stato che ci reprime (che pure esiste) colpisce la violenza subdola dei divieti immotivati, delle regole ad arbitrio, pesa la perdita della dimensione spazio-temporale e soprattutto, per chi come me è ancora nella sezione delle “nuove aggiunte” in stato di “media osservazione”, la chiusura delle celle diciotto ore su ventiquattro.
Eppure, nonostante tutto, la solidarietà tra recluse, magari un po’
“petrosa”, ma salda e immancabile, riesce a vincere anche la
disumanizzazione del carcere: per tutte da parte di tutte, nei momenti
bui, c’è la mano tesa, la parola che riesce a sdrammatizzare, il cibo
offerto da cella a cella.
Certo, non sono questi i momenti delle grandi lotte per i diritti nelle carceri, eppure non riesce a prevalere la “guerra tra poveri” su cui il sistema fonda da sempre il proprio dominio.
Per questo, care compagne e compagni, sono serena e sperimento di persona, alla scuola del carcere, quanto da sempre andiamo teorizzando: che il carcere non è se non luogo di controllo sociale, di repressione contro gli ultimi, chi non ha voce e chi, individualmente e collettivamente si ribella; dunque da abolire.
Quest’esperienza conferma che le nostre ragioni sono giuste e che la guerra infinita contro gli errori umani e contro la natura non può portare se non alla catastrofe sociale e ambientale.
Contro un sistema irriformabile non serve aspettare dalla delega la salvezza che non verrà: serve allargare il conflitto, senza farsi spaventare da un potere che, più che mai, è un gigante dai piedi d’argilla.
Mentre vi scrivo, si fa sera. La mia finestrella è in ombra, ma fuori i cortili sono inondati dal sole al tramonto. Anche il cemento, gli alberi polverosi addossati ai muri sembrano accarezzati da una precoce primavera. I passeri vanno e vengono dal davanzale oltre sbarre e reti, becchettano le briciole che riesco a spargere per loro.
Mi fanno compagnia i miei libri più cari, che sono riuscita a portare con me, e le centinaia di lettere che mi giungono ogni giorno: le guardo e sono felice perchè vi sento tutte e tutti qui vicini, voi, la mia grande famiglia di lotta.
E sento la profonda, emozionante verità che Rosa ci lascia in una sua lettera dal carcere di Wronke “…Rimanere umani significa gettare con gioia la propria vita nella grande bilancia del destino, quando è necessario farlo, ma nel contempo gioire di ogni giorno di sole e di ogni bella nuvola”.
Questo il mio messaggio di saluto, con tenerezza.
Certo, non sono questi i momenti delle grandi lotte per i diritti nelle carceri, eppure non riesce a prevalere la “guerra tra poveri” su cui il sistema fonda da sempre il proprio dominio.
Per questo, care compagne e compagni, sono serena e sperimento di persona, alla scuola del carcere, quanto da sempre andiamo teorizzando: che il carcere non è se non luogo di controllo sociale, di repressione contro gli ultimi, chi non ha voce e chi, individualmente e collettivamente si ribella; dunque da abolire.
Quest’esperienza conferma che le nostre ragioni sono giuste e che la guerra infinita contro gli errori umani e contro la natura non può portare se non alla catastrofe sociale e ambientale.
Contro un sistema irriformabile non serve aspettare dalla delega la salvezza che non verrà: serve allargare il conflitto, senza farsi spaventare da un potere che, più che mai, è un gigante dai piedi d’argilla.
Mentre vi scrivo, si fa sera. La mia finestrella è in ombra, ma fuori i cortili sono inondati dal sole al tramonto. Anche il cemento, gli alberi polverosi addossati ai muri sembrano accarezzati da una precoce primavera. I passeri vanno e vengono dal davanzale oltre sbarre e reti, becchettano le briciole che riesco a spargere per loro.
Mi fanno compagnia i miei libri più cari, che sono riuscita a portare con me, e le centinaia di lettere che mi giungono ogni giorno: le guardo e sono felice perchè vi sento tutte e tutti qui vicini, voi, la mia grande famiglia di lotta.
E sento la profonda, emozionante verità che Rosa ci lascia in una sua lettera dal carcere di Wronke “…Rimanere umani significa gettare con gioia la propria vita nella grande bilancia del destino, quando è necessario farlo, ma nel contempo gioire di ogni giorno di sole e di ogni bella nuvola”.
Questo il mio messaggio di saluto, con tenerezza.
Nicoletta”
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