sabato 25 gennaio 2020

Il falso mito delle politiche sociali del fascismo.

Continuano a circolare bufale sulla generosità del welfare del ventennio. Al contrario proprio le dannose politiche assistenziali ebbero l'effetto di rallentare la costruzione di uno stato sociale universalistico nel nostro paese.


jacobinitalia.it Samuel Boscarello  
Dopo il 1945 l’etichetta della «destra sociale» è stata il lavacro attraverso cui l’eredità politico-culturale del fascismo è stata filtrata e resa accettabile, anche da un punto di vista meramente comunicativo, all’opinione pubblica italiana. L’attributo «sociale», a partire dalla Repubblica di Salò (non a caso «Repubblica Sociale Italiana»), starebbe a indicare una combinazione tra conservatorismo culturale e un’impostazione solidaristico-comunitaria in ambito economico. 

In effetti, uno dei massimi punti di riferimento culturali del Movimento sociale italiano (riecco l’aggettivo!) era il Manifesto di Verona, ossia il programma politico del regime di Salò nel quale si dichiarava il diritto dei lavoratori alla casa, a un equo salario e persino alla distribuzione dei profitti delle imprese. 
Ora, è superfluo rimarcare che queste promesse rimasero lettera morta e non semplicemente per il fatto che la Repubblica di Salò ebbe vita brevissima: anche durante il ventennio precedente il regime fascista aveva vagheggiato a parole grandi progetti di riforma sociale.
Nel 1927 era stata emanata la Carta del Lavoro, il documento fondamentale che avrebbe dovuto costituire lo scheletro delle relazioni economiche entro lo Stato fascista.
Essa assegnava allo Stato importanti compiti riguardanti la previdenza, il collocamento e l’assistenza sociale.
Gran parte di tutto ciò restò solo sulla carta.
E attenzione, qui non si tratta di smentire il luogo comune dozzinale secondo cui il fascismo «ha fatto anche cose buone».
Non solo il fascismo non fece cose buone, ma perseguì politiche sociali dannose. Alla luce di ciò, l’intera retorica della «destra sociale» non è solo stucchevole, ma addirittura pericolosa.
Andiamo con ordine e partiamo da un presupposto: all’inizio del Novecento le politiche sociali in Italia erano perlopiù ispirate da una logica di sorveglianza dello Stato sugli enti filantropici (le cosiddette «opere pie», progenitrici degli attuali Istituti pubblici di assistenza e beneficenza) e sulle società di mutuo soccorso. Né i primi, né le seconde avevano particolare successo in termini di contrasto effettivo alla povertà: le opere pie erano migliaia di piccoli enti che gestivano le attività più disparate, dagli ospizi ai monti di pietà, secondo principi puramente paternalistici. Le mutue, per quanto ispirate da una diversa logica di solidarietà dal basso, avevano risorse finanziarie piuttosto limitate. Questa situazione di arretratezza non cambiò nemmeno durante l’età giolittiana, quando vennero introdotte embrionali forme di tutela della maternità e della salute dei lavoratori: nel 1915 solo il 4,8% dei lavoratori italiani era protetto da assicurazioni sociali, contro l’11% della Francia, il 36,3% della Gran Bretagna e il 42,8% della Germania. Gli sconvolgimenti della prima guerra mondiale attivarono però un processo riformatore il cui punto più alto fu raggiunto nel 1919 dal governo presieduto da Francesco Saverio Nitti, con il decreto legge che rese obbligatorie le pensioni e le assicurazioni d’invalidità per tutti i lavoratori dipendenti. Ciò faceva parte di una tendenza internazionale più ampia: negli stessi anni anche Gran Bretagna, Francia e i Paesi scandinavi cominciavano a costruire i propri sistemi di welfare recuperando terreno sulla Germania, la nazione più precoce in materia.
Per rendere operativo il decreto del 1919 sarebbe stato necessario un impulso progressista ben diverso da quello della vecchia classe dirigente liberale (che infatti rimandò continuamente l’approvazione definitiva del provvedimento). Tuttavia, nel novembre 1922, poche settimane dopo la marcia su Roma, il Consiglio dei ministri bloccò il progetto di accentrare le assicurazioni sociali nelle mani dello Stato, avviato da Giolitti nel 1912 con la nascita dell’Istituto nazionale assicurazioni e il graduale conferimento di responsabilità a questo ente. Era un’impostazione programmatica tutt’altro che sorprendente, a giudicare dalle parole che Mussolini aveva pronunciato appena due mesi prima in un discorso a Udine:
Noi vogliamo spogliare lo Stato di tutti i suoi attributi economici. Basta con lo Stato ferroviere, con lo Stato postino, con lo Stato assicuratore. Basta con lo Stato esercente a spese di tutti i contribuenti italiani ed aggravante le esauste finanze dello Stato italiano.
Questa appassionata professione di fede liberista, finalizzata a conservare il favore di industriali e agrari, caratterizzò a lungo l’orientamento politico del fascismo. Dal 1925 in poi il regime, preoccupato dalla svalutazione della lira, dovette in parte modificare le sue politiche economiche. Si sbarazzò dell’uomo-simbolo delle riforme liberiste (il ministro delle finanze Alberto de’ Stefani) e si costruì una nuova retorica tutta basata sulla mutua collaborazione delle classi sociali per il fine comune della prosperità nazionale, ma nei fatti le politiche fasciste continuarono a essere smaccatamente filo-padronali. Nel 1923 l’importante riforma del 1919 sulle pensioni venne finalmente convertita in legge ma in misura depotenziata, escludendo mezzadri, coloni e impiegati pubblici dalle categorie tutelate. Non solo quindi è falsa la storia secondo cui fu Mussolini a creare le pensioni, perché si limitò semplicemente a concludere un processo avviato da altri, ma addirittura questi tolse a parte dei lavoratori italiani il diritto che avevano appena guadagnato. Il passo successivo, nell’aprile 1923, fu sciogliere il Ministero del lavoro e della previdenza sociale (che era nato appena tre anni prima) e far confluire le sue competenze nel Ministero dell’economia nazionale, un super-dicastero che avrebbe dovuto occuparsi di industria, commercio, agricoltura e politiche sociali.

L’assistenza sociale come gestione del consenso

Fino al 1925 il regime si impegnò sistematicamente a depotenziare o addirittura smantellare gli enti assistenziali: nell’aprile 1923, dopo l’uscita dei cattolici dalla maggioranza di governo, venne rafforzato il controllo dei prefetti sulle opere pie (buona parte delle quali di natura ecclesiastica). La Federazione nazionale delle cooperative e mutue, pesantemente indebolita da anni di intimidazioni squadriste, fu sciolta un paio d’anni più tardi. Tramite questa strategia il ceto politico fascista mirava a impossessarsi degli apparati di Stato e, tramite questi ultimi, indebolire sempre più il radicamento sociale delle forze politiche di opposizione.
Ecco che giungiamo alla caratteristica dominante delle politiche sociali fasciste: il fatto che fossero quasi esclusivamente finalizzate alla propaganda e a garantire consenso al regime da parte di vari segmenti sociali, in base alle necessità del momento. Si spiega anche così che durante il ventennio fascista vennero interrotte le inchieste condotte da commissioni di deputati e senatori sulle condizioni sociali del Paese, che erano state abbastanza frequenti in età liberale (la più famosa delle quali è probabilmente quella del 1876 sulla Sicilia, a opera di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino). Il vincolo principale delle misure di assistenza consisteva nel far sì che esse gravassero il meno possibile sull’imprenditoria. Di questa limitazione risentì particolarmente la medicina del lavoro, che individuava nell’ambiente scientifico italiano uno dei punti di riferimento a livello mondiale. Il clima politico scoraggiò ad esempio riflessioni approfondite sugli effetti dell’organizzazione industriale fordista-taylorista sulla salute degli operai e spinse la disciplina a concentrarsi solo sugli aspetti clinici, piuttosto che sulla prevenzione. Non di rado i medici del lavoro (fatta eccezione per i più autorevoli) colpevolizzavano gli operai stessi per le patologie che contraevano, liquidandole come frutto di negligenza e indisciplina sul posto di lavoro.
Questa giustificazione in parte era dovuta al fatto che effettivamente esisteva una diffusa tendenza dei lavoratori a fingere di essersi procurati infortuni più gravi del reale (o addirittura a procurarsi leggeri traumi in maniera autolesionistica) per incassare premi assicurativi un po’ più alti e compensare l’avarizia del sistema previdenziale. In parte tuttavia essa mirava a deresponsabilizzare gli imprenditori per le pessime condizioni sanitarie delle fabbriche. Condizioni che peggiorarono notevolmente dopo lo scoppio della grande crisi economica del 1929, allorché i sindacati di regime accettarono ritmi e ambienti di lavoro più insalubri pur di limitare i licenziamenti. Una parziale spinta in senso opposto provenne dalla pressione internazionale: in primis, tutti i maggiori Paesi stavano sviluppando sistemi di welfare sempre più progrediti. Inoltre dopo la prima guerra mondiale era nata l’Organizzazione internazionale del lavoro, con il proposito di promuovere e omogeneizzare le misure di tutela dei lavoratori tra i vari Stati. Fu proprio per ottemperare a una Convenzione internazionale promossa da questo soggetto che il regime fascista accettò di introdurre nel 1929 l’assicurazione obbligatoria contro alcune delle malattie professionali più diffuse, anche se l’attuazione della legge venne di fatto ritardata al 1934.

In guerra con le pensioni degli italiani

La crisi del 1929 fu uno spartiacque a seguito del quale il regime accentuò il controllo degli enti statali sulla società italiana, nel duplice intento di stabilizzarne l’economia e controllare ancora meglio il consenso della popolazione. Questa logica si riflesse anche sulle politiche sociali: tra marzo e giugno 1933 nacquero l’Istituto nazionale fascista contro gli infortuni sul lavoro e l’Istituto nazionale fascista di previdenza sociale (rispettivamente gli antenati degli attuali Inail e Inps). Il primo accentrava finalmente il sistema assicurativo antinfortunistico in mano statale, vincendo le resistenze degli industriali, mentre il secondo assorbiva la vecchia Cassa nazionale delle assicurazioni sociali (la quale era niente più che un istituto assicurativo pubblico). L’Infail e l’Infps erano le centrali operative di apparati capillarmente dispersi sull’intero territorio italiano, caratterizzati dallo scopo di utilizzare arbitrariamente le risorse degli apparati pubblici per servire le necessità politiche momentanee del regime.
Nel caso delle pensioni questa tendenza fu estremamente evidente. Già a partire dal 1926 i contributi versati nella Cassa furono massicciamente utilizzati per finanziare una grande quantità di opere pubbliche, secondo scelte d’investimento che derivavano da ingerenze politiche sempre più palesi. La nascita dell’Infps servì anche a liquidare le resistenze di quei dirigenti della Cassa (compreso il direttore generale Paolo Meldolaghi) che volevano conservare la propria autonomia. Non casualmente alla guida del neonato ente venne posto il gerarca Giuseppe Bottai, che fino al 1932 era stato Ministro delle corporazioni (sostanzialmente l’erede del Ministro dell’economia nazionale). Bottai strutturò l’Infps come se fosse esso stesso un ministero, rendendolo al tempo stesso più complesso e dipendente dal potere politico affinché il regime potesse continuare indisturbato a usare i contributi pensionistici con estrema disinvoltura, giungendo persino a spenderli per finanziare la spedizione coloniale in Etiopia e sostenere Francisco Franco nella guerra civile spagnola.
Viceversa, in periferia il sistema assistenziale fascista era caratterizzato da un’estrema dispersione delle risorse. Le assicurazioni di malattia erano erogate tramite una fitta ragnatela di circa 2000 casse mutue gestite dai sindacati fascisti, che nel 1938 coprivano 2,6 milioni di lavoratori. Solo alla vigilia della seconda guerra mondiale molte casse vennero accorpate e le assicurazioni estese ai familiari di operai e impiegati industriali, facendo balzare a 12 milioni il numero degli assicurati. Fino ad allora la piccola dimensione delle mutue, unita ai bassi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro, aveva fatto sì che gli importi dei sussidi coprissero a malapena la metà del salario giornaliero. Se tuttavia il sistema era inefficiente da un punto di vista economico, aveva comunque una precisa razionalità politica. Tanto nel caso delle assicurazioni di malattia quanto per le pensioni, il particolarismo permetteva una gestione molto discrezionale dei sussidi: scambi di favori e rapporti clientelari proliferavano ampiamente, costituendo un formidabile veicolo di lealtà al regime.

Un bilancio complessivo

Insomma, è chiaro che l’obiettivo del fascismo fosse la gestione del consenso e non la creazione di un sistema di assistenza sociale ben funzionante. L’assenza di elezioni libere toglieva di torno il problema di guadagnarsi il supporto a breve termine, ma non la necessità di mediare tra interessi e gruppi di pressione in conflitto. La crescita della burocrazia statale servì al tempo stesso a gestire la domanda politica e garantire risorse al Partito nazionale fascista, non senza improvvisazioni e contraddizioni.
Se da una tale organizzazione provenne qualche vantaggio ai lavoratori, ciò fu solo incidentale e in misura molto parziale. Infatti il grado di protezione sociale tra una categoria e l’altra poteva variare anche di molto: per esempio gli agricoltori erano tra i meno tutelati in assoluto. In certi casi poi il regime concedeva con una mano e sottraeva con l’altra. Un chiaro esempio sono gli assegni familiari, istituiti nell’ottobre 1934 per tutti i lavoratori che avessero almeno due figli a carico sotto i 14 anni. Un provvedimento che in parte può certamente essere inquadrato nelle politiche nataliste del fascismo, che già a partire dal 1923 sperimentò anche varie misure di tutela della maternità (salvo togliere, nello stesso anno, il diritto alla reversibilità della pensione per le compagne non sposate dei caduti in guerra: per il fascismo la donna era degna di assistenza solo in quanto madre e moglie). Tuttavia appena due mesi dopo venne anche stabilita la riduzione dell’orario di lavoro da 48 a 40 ore settimanali per combattere la crisi occupazionale, una sorta di «lavorare meno, lavorare tutti» in cui però, oltre al tempo di lavoro, veniva tagliato anche lo stipendio. Gli assegni familiari finirono così per fungere da parziale compensazione per le 8 ore di salario perdute, anziché rappresentare un miglioramento delle condizioni dei lavoratori.
Per certi versi, le politiche sociali fasciste non si discostarono particolarmente dalla logica perseguita anche dalle élite liberali, ossia combinare controllo statale e particolarismo nell’erogazione dei servizi. Ciò che cambiò fu innanzitutto il contesto internazionale, poiché la prima guerra mondiale portò in eredità gravi problemi sociali da risolvere (disoccupazione di massa, un gran numero di invalidi, vedove e orfani cui provvedere) e intensificò la mobilitazione politica delle masse popolari. Lo sviluppo del welfare in Europa fu anche una risposta a queste sfide, che vennero riproposte in termini diversi (ma non meno pressanti) anche dalla crisi del 1929. Ovunque l’esigenza pratica di dare una risposta al bisogno d’assistenza si intrecciò con la volontà di raccogliere consenso politico e stabilizzare la struttura sociale. Tuttavia la peculiarità delle politiche sociali fasciste consistette proprio nell’irreggimentazione delle masse e nell’uso completamente arbitrario delle risorse pubbliche, su cui il ceto politico di regime basò il proprio potere. Tutto ciò avvenne a scapito dell’efficienza complessiva del sistema, che infatti continuò a essere caratterizzato da sussidi molto bassi e strumenti di tutela alquanto limitati. Una realtà che rivela l’assoluta inconsistenza dell’aura solidaristica di cui si ammantava il corporativismo e che è stata riproposta dalla destra post-fascista nella sua auto-rappresentazione.
Piuttosto, l’intreccio di clientelismo e privatismo del ventennio mussoliniano ebbe l’effetto infausto di rallentare notevolmente la costruzione di uno Stato sociale universalistico in Italia. Un difetto al quale, in età repubblicana, è stato posto rimedio solo in maniera tardiva e incompleta: il Servizio sanitario nazionale vide la luce solo nel 1978, mentre in altri ambiti l’uniformità di trattamento tra i cittadini non è mai stata raggiunta (tutt’oggi, ad esempio, non esiste un sussidio unico di disoccupazione). Una carenza gravissima: l’assenza di un welfare universalistico genera forti dualismi tra segmenti sociali più protetti e altri meno tutelati, rendendo più profonde le crepe che separano anziani e giovani, uomini e donne, donne senza figli e madri, lavoratori in proprio e salariati, subordinati e parasubordinati, dipendenti pubblici e privati, cittadini e immigrati. Una linea di continuità ben rappresentata dal fatto che non pochi enti fascisti, Inps e Inail in primis, sopravvissero al regime stesso dopo il 1945 e in parte esistano ancora. Anzi, a giudicare dalla pervicacia con cui i governi degli ultimi anni continuano a erogare bonus e sussidi scoordinati a puro scopo elettoralistico, il fardello di questa eredità è ben lungi dall’estinguersi.
*Samuel Boscarello si occupa di storia del movimento cooperativo. È dottorando alla Scuola Normale Superiore di Pisa e collabora con il programma televisivo di Rai Storia Passato e Presente.

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