sabato 13 luglio 2019

Cosa serve per un Green New Deal .

Non esiste una soluzione «di mercato» ai disastri ambientali. Occorre un rinnovato ruolo pubblico che pianifichi una trasformazione produttiva sostenibile e crei posti di lavoro ecologicamente utili.



I difetti più evidenti della società economica nella quale viviamo sono l’incapacità a provvedere la piena occupazione, la distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi e l’apocalisse ambientale minacciata dal cambiamento climatico.
Se John Maynard Keynes si fosse trovato a scrivere la sua Teoria Generale nel 2019, l’incipit del capitolo conclusivo sarebbe suonato all’incirca così. Naturalmente, i primi due difetti erano già presenti nell’originaria versione del 1936, ma la loro validità non sembra essere venuta meno nel contesto contemporaneo.
Il tasso di disoccupazione ufficiale nell’area euro si attesta al 7,7% (più del doppio rispetto al 3,6% degli Usa e il triplo rispetto al 2,5% del Giappone). All’interno dell’eurozona si registrano inoltre notevoli differenze: dal 3,2% in Germania o 3,5% nei Paesi Bassi all’8,8% in Francia, 10,2% in Italia fino al 14% in Spagna. Tuttavia, se si adottasse la metodologia proposta dal Dipartimento del Lavoro degli Usa, includendo sotto-occupati e inattivi potenzialmente occupabili, il tasso di disoccupazione sarebbe due o tre volte maggiore. Ancora oggi, i sistemi economici capitalistici non sembrano essere in grado di garantire il pieno impiego.

Il permanere di alti livelli di disoccupazione o sotto-occupazione ha contribuito ad accentuare la polarizzazione dei redditi e delle ricchezze. In tutti i paesi sopracitati, negli ultimi trent’anni, si è assistito alla crescita sproporzionata dei redditi più alti e alla stagnazione o diminuzione in termini reali di quelli al di sotto della media. Il tutto rafforzato dalla rimodulazione dei sistemi fiscali: uno spostamento relativo del prelievo sui redditi da capitale verso quelli da lavoro, da imposte dirette a imposte indirette, da un sistema relativamente progressivo a uno maggiormente regressivo (che la proposta di Flat Tax renderebbe ancora più drastico). Senza considerare l’assenza o addirittura l’eliminazione di imposte sulla ricchezza patrimoniale o finanziaria.
Tali dinamiche hanno impoverito una massa crescente di persone e arricchito ulteriormente una ristretta oligarchia sempre più parassitaria. Queste élite economico-finanziarie si ergono a paladine di un modello di capitalismo «scatenato» (per usare la felice definizione dell’economista marxista Andrew Glyn), che sempre di più assomiglia a un apprendista stregone «incapace di controllare le potenze sotterranee da lui stesso evocate». Così anche Marx ed Engels, riscrivendo il loro Manifesto del Partito Comunista, arriverebbero ad annoverare la distruzione dell’ecosistema come risultato inevitabile dei moderni rapporti di proprietà, produzione e scambio.
Questo è il terzo ma forse più pressante difetto dell’odierno capitalismo. Il recente rapporto del prestigioso Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) ha ufficializzato la gravità della situazione: la sopravvivenza della specie umana sarà gravemente compromessa se l’aumento della temperatura globale rispetto ai livelli pre-industriali non sarà contenuto sotto l’1,5°C. Per scongiurare questo scenario apocalittico, concludono gli autori del rapporto, è necessario ridurre del 100% le emissioni globali di CO2 entro il 2030.
La soluzione più ampiamente dibattuta a questo problema, oltre che ai primi due, è conosciuta a livello globale con il nome di Green New Deal. Grazie all’agire politico di figure come Alexandria Ocasio-Cortez e dei movimenti politici come i Dsa, negli Usa si sta tornando a ragionare su come imbrigliare nuovamente il capitalismo, per renderlo un sistema più inclusivo e sostenibile, o forse anche per superarlo tout court. In Italia e in Europa, l’arretratezza del dibattito su questi temi è il risultato dell’attuale contesto politico, caratterizzato da uno scontro tutto interno alla destra economica (di matrice liberal-progressista o reazionaria-xenofoba). Nella speranza che anche da questa sponda dell’Atlantico si manifestino presto le condizioni per l’emergere di una prospettiva politica eco-socialista, quello che si può fare è cercare di discutere gli aspetti teorici e tecnici del «piano verde», nell’ambito nazionale ed europeo. A questo proposito vanno individuati la metodologia del programma d’azione, i possibili attori di riferimento, il livello di intervento e le risorse da mettere a disposizione.

Per il Green New Deal serve la pianificazione

Negli ultimi decenni la vulgata economica dominante ci ha raccontato che l’economia capitalistica di mercato si è affermata come il più efficiente e innovativo sistema produttivo mai esistito. Anche laddove si generano frizioni o diseguaglianze, queste andrebbero accettate per il fatto di vivere nel migliore dei mondi possibili. L’ottimo paretiano, astruso concetto della teoria economica, stabilirebbe che è impossibile modificare un elemento del sistema per ottenere risultati che aumentino il benessere sociale complessivo. Ma come si può onestamente definire «efficiente» un mondo che va configurandosi come un incubo distopico di privazioni di massa, epidemie batteriche e catastrofi ambientali di varia natura?
In primo luogo, va riconosciuto che non esiste alcuna soluzione «di mercato» ai difetti lamentati da Keynes, specialmente a quello del cambiamento climatico. Non pochi economisti neoclassici potrebbero speculare sull’esistenza di un prezzo di equilibrio tale da garantire la non estinzione dell’umanità. Per chi avesse la fortuna di non conoscere il triste stato della disciplina economica, va detto che non si tratta di uno scherzo. Le applicazioni di un simile approccio demenziale non mancano. Infatti, gran parte degli schemi di acquisto di emissioni – definiti dalla Commissione europea «la pietra miliare dell’Ue per combattere il cambiamento climatico» – si basano su un impianto teorico non dissimile.
Così come il cinico di Oscar Wilde, che non distingue il valore e il prezzo delle cose, allo stesso modo gli economisti che dominano le università, i dipartimenti ministeriali, le banche centrali e altre burocrazie pubbliche dimenticano che il mondo non è un gigantesco mercato ortofrutticolo, e che non si può attribuire un prezzo all’obiettivo di salvaguardare la specie umana. Esso ha invece un valore incommensurabile, che è altro rispetto alle logiche di mercato e al loro inquadramento in futili giocattolini matematici.
Naturalmente, la transizione verso un mondo libero dai combustibili fossili presenta costi elevati, ma anche grosse opportunità di investimento. Tuttavia, i ritorni monetari sono incerti e fortemente differiti nel tempo: le peggiori condizioni per un settore privato – il sistema finanziario in particolare – oggi fortemente caratterizzato da un’ottica di breve periodo e dall’avidità di ritorni facili e cospicui.
Vi è poi l’argomento idealistico che vede nella consapevole riduzione dei consumi la chiave di volta di una trasformazione sistemica. Tuttavia, basta citare i dati del Rapporto 2017 prodotto dai ricercatori del Carbon Disclosure Project (Cdp), per ridimensionare questa pretesa: negli ultimi trent’anni, un numero circoscritto di 100 grosse aziende è stato responsabile per più del 70% delle emissioni globali di gas a effetto serra. Relativamente a queste evidenze, i tentativi di combattere il cambiamento climatico con il veganesimo di massa o con il boicottaggio dei trasporti aerei e su gomma rischia di diventare velleitario, quando non distraente, riducendo ai pur necessari cambiamenti nei comportamenti individuali un problema intrinsecamente collettivo.
È invece dal lato della produzione che andrebbe riconfigurato il modello economico: produzione di energia in primo luogo, ma anche di beni e servizi.
Il Green New Deal implica l’esistenza di un attore statale nel ruolo di forgiatore di un nuovo «patto» produttivo. Uno Stato imprenditore che affronti l’incertezza di investimenti costosi, potenzialmente fallimentari o non remunerativi nel breve periodo. Ma anche uno Stato pianificatore, che allunghi l’orizzonte temporale delle scelte economiche di tutti gli attori del sistema. In un rapporto ufficiale per la Commissione europea, Mariana Mazzucato ha definito uno schema di moderna pianificazione economica per la risoluzione delle grandi sfide globali, come quelle identificate dagli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Onu. Nel modello di Mazzucato le istituzioni pubbliche definiscono, orientano e guidano l’implementazione delle «missioni», con il continuo coinvolgimento dal basso degli attori economici e sociali interessati, per garantire la necessaria coerenza tra obiettivi e risultati.
Il Green New Deal richiede uno Stato imprenditore e pianificatore che si faccia carico di due sfide essenziali. In primo luogo, promuovere e orientare la trasformazione produttiva verso la sostenibilità ambientale. In seconda istanza, ma contemporaneamente, creare direttamente nuovi posti di lavoro «verdi», o ecologicamente utili.
Il primo riguarda l’offerta, ma influenza direttamente la domanda attraverso la capacità di creazione di nuovi mercati. Lo Stato dovrebbe non solo aumentare il volume degli investimenti pubblici e in ricerca e sviluppo, ma anche orientarli verso quei settori maggiormente coinvolti dalla transizione ecologica: fra tutti, energia, trasporti, produzione di veicoli. Inoltre, non vi dovrebbero essere ritrosie a investire in ricerca applicata per mezzo di adeguate strutture, quali agenzie pubbliche e imprese partecipate dallo Stato. D’altronde, il decantato successo tecnologico della Silicon Valley si spiega anche grazie allo Stato innovatore americano che ha investito in ricerca lungo tutta la catena di innovazione.
Nel secondo caso, di impatto macroeconomico, lo Stato dovrebbe creare nuovi posti di lavoro stabili, ben pagati e sostenibili, dentro e fuori da una logica di mercato, tramite strutture pubbliche. Si tratterebbe di identificare quei settori a potenziale alta intensità di lavoro – quali l’edilizia di riqualificazione, la tutela ambientale e paesaggistica, i trasporti pubblici – dove l’aumento dell’attività economica si possa persino tradurre in una riduzione di sprechi, inquinamento e consumi privati superflui.

Chi può fare il Green New Deal? 

Nel contesto Usa il dibattito sul Green New Deal ha assunto una dimensione nazionale, come fu del resto l’originario New Deal di Roosevelt. Anche gli investimenti «verdi» della Cina coinvolgono le principali strutture economiche del Paese. Allo stesso modo, le istituzioni pubbliche dell’Unione Europea potrebbero sfruttare una simile scala di intervento, oltre alla capacità di finanziare tali sforzi – un tema su cui la sinistra europea deve e può fare di più, sull’onda delle mobilitazioni ecologiste che stanno attraversando tutto il continente.
Ma anche limitandosi al contesto italiano, sono molte le possibili leve di azione. In primo luogo, si può agire con le istituzioni esistenti. Enel ed Eni, le aziende energetiche partecipate dallo Stato, potrebbero impegnarsi a diventare produttrici di energia rinnovabile al 100%. Come sta avvenendo per esempio in Danimarca e Norvegia, dove le imprese energetiche di Stato, le ex Dong e Statoil, sono state costrette ad abbandonare la produzione per mezzo di combustibili fossili. Un passaggio simbolicamente rimarcato dal cambio di nome (rispettivamente in Orsted, in onore di uno scienziato danese, ed Equinor). Si dovrebbe poi ripensare il ruolo della Consip, la centrale degli acquisti della pubblica amministrazione, orientando le committenze pubbliche secondo criteri di sostenibilità ambientale o favorendo in modo discriminato le aziende impegnate nella de-carbonizzazione della produzione. Sarebbe inoltre utile rafforzare il ruolo delle agenzie pubbliche di ricerca: potenziare il Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr) ma soprattutto l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea), stabilizzandone i ricercatori precari con contratti generosi e assumendone di nuovi, prima che siano costretti a emigrare all’estero. Bisognerebbe infine razionalizzare e coordinare il disperso sistema di parchi scientifici.
In secondo luogo, si dovrebbero istituire nuove strutture. A partire da un ente di pianificazione degli investimenti, con capacità di finanziarli anche attraverso la partecipazione nel capitale delle imprese coinvolte nella transizione ecologica, per poterne influenzare le decisioni d’investimento. Un compito che avrebbe potuto svolgere l’Iri, miopicamente soppresso negli anni Novanta. Con la sua natura mista di banca pubblica e holding di partecipazioni industriali, Cassa Depositi e Prestiti si potrebbe candidare a questa funzione. Ma è necessario un profondo ripensamento della sua missione, e forse anche del suo status giuridico.
Sarebbe infine necessario creare delle agenzie pubbliche specializzate, come quelle dell’originario New Deal rooseveltiano (la Tennesse Valley Authority, o la Work Progress Administration) per coordinare gli investimenti pubblici con la creazione di lavoro in servizi e manifattura sostenibili.

Come finanziare il Green New Deal? 

I programmi di creazione di lavoro «verde» potrebbero essere finanziati con un maggiore prelievo su quei grossi redditi e patrimoni che negli ultimi decenni sono cresciuti senza alcuna giustificazione economica e morale. «The Rich can pay for Wpa » era uno slogan del New Deal di Roosevelt degli anni Trenta. Allo stesso modo, oggi i ricchi possono e dovrebbero pagare per finanziare programmi di lavoro del Green New Deal. Un contrappasso ecologico specialmente necessario per gli individui e le aziende che, con la loro attività industriale, si sono arricchiti a scapito degli ecosistemi locali e nazionali. Evitando così di scaricare sui lavoratori e sui consumatori a basso reddito i costi diretti e indiretti della riconversione ecologica, fattore scatenante la rivolta dei Gilet Jaunes in Francia.
Invece, i massicci nuovi investimenti produttivi o in ricerca dovrebbero essere finanziati dall’unica istituzione che dispone di risorse illimitate: la Banca Centrale, in questo caso Europea. Ai fini di finanziare i piani di transizione ecologica delle economie europee, la Bce potrebbe creare potere d’acquisto in modo pressoché illimitato, e senza particolari rischi inflattivi, dal momento che siamo ancora parecchio lontani dal pieno utilizzo delle risorse reali. È giunta finalmente l’ora di ricondurre a nozze il Tesoro degli Stati con le rispettive banche centrali, per la creazione di strumenti finanziari atti a favorire la trasformazione economica verso un mondo ecologicamente sostenibile. Questo richiederà un profondo cambio di paradigma politico ed economico, contro l’ideologia monetarista che negli ultimi quarant’anni ha teorizzato l’indipendenza delle banche centrali, ovvero la dipendenza degli Stati nazionali dagli umori dei grossi operatori finanziari.

Dalla natura maligna al capitalismo maligno

Nel suo ideale pre-capitalistico, Giacomo Leopardi vedeva nella natura maligna e distruttrice una minaccia per la sopravvivenza dell’«uman seme». Oggigiorno appare evidente che il rapporto debba ribaltarsi. Occorrerà tuttavia superare la dimensione tecnocratica e democratizzare il dibattito, per rendere politicamente possibile la realizzazione di un nuovo piano economico ed ecologico. Un Green New Deal per il superamento di un capitalismo maligno che può «annichilare in tutto» il benessere della maggioranza della popolazione vivente e delle future generazioni.
*Simone Gasperin è dottorando presso l’Institute for Innovation and Public Purpose a Londra. Si occupa della storia dell’Iri e dell’impresa pubblica.

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