sabato 13 luglio 2019

Sicuri che il capitalismo sia più democratico del socialismo?

A un'intera generazione è stato raccontato che il sistema capitalista porta democrazia e quello socialista autoritarismo. Eppure la storia mostra la natura oligarchica del capitalismo e le lotte socialiste contro tirannie di destra e sinistra.

A un’intera generazione di statunitensi la Guerra Fredda è stata raccontata come uno scontro fra libertà e tirannia, finita con la netta vittoria del capitalismo democratico. 
Il socialismo di qualunque tipo è stato accomunato ai crimini dell’Unione Sovietica, e pertanto condannato a finire nel secchio della spazzatura delle pessime idee.
Eppure i socialisti sono stati tra i più accesi oppositori dell’autoritarismo, sia di destra che di sinistra. Lo stesso Marx aveva capito che solo attraverso il potere di una maggioranza democratica i lavoratori avrebbero potuto dare vita alla società socialista.
È per questo che il Manifesto finisce con un fervido appello ai lavoratori affinché vincano la battaglia per la democrazia contro le forze aristocratiche e reazionarie.

Schiere di socialisti hanno seguito fedelmente questa indicazione, difendendo con ardore i diritti politici e civili mentre lottavano per rendere più democratica la vita culturale ed economica, ampliando lo spettro dei diritti sociali e battendosi per la democrazia nei posti di lavoro. Nonostante il sentire comune faccia spesso un’equazione tra capitalismo e democrazia, i capitalisti, senza la pressione dal basso di una working class organizzata, non hanno mai supportato riforme democratiche.
Mentre il suffragio universale per i maschi bianchi negli Stati Uniti venne concesso nel periodo Jacksoniano [prima metà dell’Ottocento, ndt], i socialisti europei dovettero lottare contro regimi capitalisti autoritari in Germania, Francia, Italia e altrove fino alla fine del Diciannovesimo secolo per ottenere il diritto di voto per gli uomini poveri e della classe operaia. I socialisti si guadagnarono il supporto popolare in quanto paladini del suffragio universale maschile – e, da un certo punto in poi, anche femminile – e come difensori del diritto a formare sindacati e altre associazioni di volontariato
I socialisti e i loro alleati nel movimento dei lavoratori hanno capito da tempo che una persona in stato di necessità non potrà mai essere davvero libera. Per questo la tradizione socialista, al di fuori degli Stati Uniti, viene generalmente identificata con le battaglie per i servizi pubblici come l’istruzione, la sanità, la cura dell’infanzia e le pensioni per gli anziani; e anche all’interno degli Stati Uniti, il supporto a queste battaglie spesso viene da loro.
Molti socialisti hanno dato un supporto incondizionato alle riforme democratiche; ma sono sempre stati convinti che il potere di classe necessario a contenere il potere del capitale dovesse essere ancora più grande, così da permettere a lavoratori e lavoratrici di avere il controllo totale del loro destino economico e sociale. Ma, mentre tacciavano il capitalismo di essere antidemocratico, i socialisti democratici si opponevano con tutte le loro forze anche ai governi autoritari che si definivano socialisti.
Rivoluzionari come Rosa Luxemburg e Victor Serge criticarono l’inizio del dominio sovietico per la messa al bando dei partiti d’opposizione, la soppressione degli esperimenti democratici nei luoghi di lavoro, e per l’assenza di pluralismo politico e libertà civili. Se lo stato possiede i mezzi di produzione, una questione resta infatti aperta: quanto è democratico lo stato?
Come scrisse Luxemburg nel 1918 in un pamphlet sulla Rivoluzione Russa, «senza elezioni generali, senza libertà di stampa, di parola, di manifestazione, senza il libero confronto fra le idee, le istituzioni pubbliche si inaridiscono, diventano la parodia di loro stesse, e la burocrazia assurge a unico fattore decisivo».
Rosa Luxemburg ricordava che la Comune di Parigi del 1871, quel breve esperimento di democrazia radicale a cui Marx ed Engels facevano riferimento come unico esempio di governo della classe lavoratrice, comprendeva all’interno del consiglio municipale diversi partiti, di cui soltanto uno era affiliato all’Associazione Internazionale dei Lavoratori di Marx.
Fedeli a questi valori, socialisti, comunisti dissidenti e sindacalisti indipendenti guidarono le ribellioni contro il regime comunista nella Germania dell’Est nel 1953, in Ungheria nel 1958, e in Polonia nel 1956, nel 1968 e nel 1980. I socialisti democratici furono alla testa anche del breve ma straordinario esperimento del «socialismo dal volto umano» del governo di Dubček, nella Cecoslovacchia del 1968. Tutte ribellioni che vennero distrutte dai carri armati sovietici.
La caduta dell’Unione Sovietica, però, non ha significato la vittoria della democrazia. I socialisti rifiutano infatti la pretesa della democrazia capitalistica di essere pienamente democratica. Perché in realtà, ogni volta che si sono sentiti minacciati dai movimenti dei lavoratori i ricchi hanno abbandonato qualsiasi rispetto per le più elementari regole democratiche.
L’analisi di Marx nel Diciotto Brumaio del supporto dei capitalisti francesi al colpo di stato di Luigi Bonaparte contro la Seconda Repubblica Francese è una prefigurazione agghiacciante del supporto del capitale al fascismo negli anni Trenta. In entrambi i casi, una piccola borghesia in declino, una classe media assediata e la tradizionale élite agraria decisero di rovesciare i governi democratici per fermare l’avanzata della classe lavoratrice, e incassarono il supporto dei capitalisti.
Allo stesso modo, in America Latina, i regimi autoritari degli anni Settanta e Ottanta godevano di un simile supporto da parte del capitale. Gran parte del prestigio della sinistra europea del dopoguerra e della sinistra latino-americana di oggi deriva proprio dall’opposizione serrata al fascismo.
I movimenti socialisti e anticoloniali del Ventesimo secolo hanno compreso che gli obiettivi democratici di uguaglianza, libertà e fraternità non potranno essere raggiunti finché le diseguaglianze economiche rispecchieranno quelle politiche, e i lavoratori saranno sottomessi al capitale. I socialisti combattono per la democrazia economica sulla base della radicale convinzione democratica che «ciò che riguarda tutti dovrebbe essere deciso da tutti».
L’argomentazione capitalista che vorrebbe equiparare il concetto di libertà alle scelte individuali compiute nel libero mercato maschera la realtà di un capitalismo sistematicamente antidemocratico, in cui la maggior parte delle persone spende la maggior parte delle propria vita sotto una «tirannia». Le aziende infatti sono di fatto dittature gerarchiche, dove chi lavora non può dire nulla su cosa produrre, su come produrlo e su come utilizzare il profitto che ne deriva.
I democratici radicali credono che un’autorità vincolante (non semplicemente la legge, ma anche il potere di determinare la divisione del lavoro all’interno di un’azienda) sia valida soltanto se ciascun membro dell’istituzione oggetto dalle sue prassi ha voce in capitolo nel processo decisionale.
Per democratizzare un’economia complessa ci sarà verosimilmente bisogno di una serie di nuove forme istituzionali, che possono andare dalla proprietà dei lavoratori e delle cooperative alla proprietà statale delle istituzioni finanziarie e dei monopoli naturali (come le telecomunicazioni e l’energia) – così come di un regolamento internazionale sul lavoro e sugli standard ambientali.
Nel complesso, la struttura dell’economia sarebbe determinata attraverso politiche democratiche e non dalla burocrazia statale. Ma la questione rimane: come superare l’oligarchia capitalista e rimpiazzarla con una democrazia socialista?
Nei tardi anni Settanta, molti socialisti democratici si sono resi conto che la capacità delle aziende di fare profitto era stata ridotta dagli obblighi imposti al capitale negli anni Sessanta dai movimenti dei lavoratori, delle femministe, degli ambientalisti e degli antirazzisti. Hanno capito che i capitalisti si sarebbero vendicati con le mobilitazioni politiche, le esternalizzaioni e i disinvestimenti.
Per questo in tutta Europa i socialisti hanno portato avanti riforme che puntavano a ottenere un maggior controllo pubblico sugli investimenti. Il movimento dei lavoratori e delle lavoratrici svedesi sposarono il Meidner Plan, un programma che prevedeva più di venticinque anni di tassazione sui profitti delle aziende per permettere allo stato di comprare le grandi imprese. La coalizione socialista-comunista che elesse François Mitterrand alla presidenza francese nel 1981 nazionalizzò il 30% dell’industria francese e rafforzò radicalmente i diritti di contrattazione collettiva.
In risposta a queste riforme, il capitale francese e svedese investì all’estero anziché in patria, dando vita a una recessione che interruppe la promettente avanzata del socialismo democratico. Le politiche di Thatcher e Reagan, che inaugurarono oltre trent’anni di de-sindacalizzazione e tagli allo stato sociale, confermarono la previsione della sinistra: senza un controllo democratico sul capitale, al di là del welfare state, il potere capitalista avrebbe eroso tutte le conquiste ottenute dalle socialdemocrazie post belliche.
Oggi, i socialisti di tutto il mondo devono affrontare il difficile compito di ricostruire il potere politico della working class, in modo che sia abbastanza forte da sconfiggere il consenso guadagnato sia dai conservatori che dai socialdemocratici della Terza Via per un’austerity aziendalista.
Ma cosa dire dei molti governi del mondo in via di sviluppo che si fanno chiamare socialisti, in particolare degli stati con un solo partito? Per molti versi, gli stati con un unico partito comunista hanno molto più in comune con gli stati cosiddetti «sviluppisti» del capitalismo autoritario del passato – come la Prussia e il Giappone di fine Diciannovesimo secolo, o la Corea del Sud e Taiwan post-belliche – di quanto non ne abbiano con la visione del socialismo democratico. Questi governi hanno dato priorità all’industrializzazione a guida statale sui diritti democratici, in particolare su quelli di un movimento indipendente dei lavoratori.
Nè Marx né i socialisti classici europei potevano prevedere che i partiti rivoluzionari socialisti avrebbero preso il potere più facilmente in società autocratiche a maggioranza contadina. In parte, questi partiti si fondavano su una classe lavoratrice nascente, radicalizzata dallo sfruttamento del capitale straniero. Ma in Cina e in Russia, i comunisti presero il potere perché l’aristocrazia e i signori della guerra fallirono nel difendere le persone dagli invasori – e le armate sconfitte di contadini volevano pace e terra.
La tradizione marxista aveva poco da dire su come le società a predominanza contadina e post-coloniale si sarebbero potute sviluppare in maniera equa e democratica. Quello che ci dice la storia è che costringere i contadini che hanno appena ricevuto appezzamenti di terra privati dai rivoluzionari comunisti in una gestione collettiva di fattorie statali produce una brutale guerra civile, che blocca lo sviluppo economico per decenni.
Le riforme economiche contemporanee della Cina, del Vietnam e di Cuba spingono verso un’economia mista, in cui il capitale straniero e la proprietà privata della terra da parte dei contadini hanno un ruolo importante. Ma le élite dei mono-partiti che si arrischiano in esperimenti di pluralismo economico hanno quasi sempre represso le richieste di un pluralismo anche politico, di libertà civili e diritti sul lavoro.
Malgrado le continue aggressioni statali, le lotte indipendenti nel mondo del lavoro in paesi come la Cina e il Vietnam stanno aumentando, e potrebbero rinnovare il ruolo della working class nel promuovere la democrazia. È a questi movimenti, e non ai governi autocratici, che i socialisti danno la loro solidarietà.
Certamente, una ricca storia di esperimenti di socialismo democratico esiste anche nei paesi in via di sviluppo, dal governo di Unità Popolare di Salvador Allende negli anni Settanta in Cile, fino ai primi anni del governo di Michael Manley in Jamaica in quello stesso periodo.
La «marea rosa» latino-americana di Bolivia, Venezuela, Ecuador e Brasile ha portato avanti diversi esperimenti di sviluppo democratico – malgrado le politiche di governo di questi paesi siano state dipendenti più dalla redistribuzione degli introiti delle esportazioni che non da una ristrutturazione delle relazioni di potere economico. Ma il governo degli Stati Uniti e gli interessi del capitalismo globale hanno lavorato costantemente per minare persino questi piccoli sforzi di democratizzazione economica.
Quando nazionalizzò la British Oil, la Cia e l’intelligence inglese rovesciarono il governo democraticamente eletto di Mohammad Mosaddegh nell’Iran del 1954. Il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale negarono credito al Cile, mentre la Cia partecipò attivamente al brutale colpo di stato militare di Augusto Pinochet. Allo stesso modo, gli Stati Uniti collaborarono con l’Imf per schiacciare l’economia giamaicana dell’era-Manley.
L’ostilità del capitalismo verso governi anche solo moderatamente riformisti nel mondo in via di sviluppo non conosce confini. Gli Stati Uniti rovesciarono con la forza sia il governo di Jacobo Árbenz nel Guatemala del 1954 che la presidenza di Juan Bosch nella Repubblica Domenicana del 1965, solo perché avevano proposto timide riforme agrarie.
Per gli studenti di storia, dunque, la domanda non dovrebbe essere se il socialismo conduca necessariamente alla dittatura, ma se un nuovo movimento socialista possa effettivamente superare la natura intrinsecamente oligarchica e antidemocratica del capitalismo.
*Joseph M. Schwartz è vicepresidente dei Democratic Socialist of America, e professore di scienze politiche a Temple. Questo articolo è uscito su Jacobinmag.com. La traduzione è di Gaia Benzi.

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