Da
oltre vent’anni a questa parte, il dibattito politico è costretto a
muoversi negli angusti spazi del pareggio di bilancio: qualsiasi opzione
politica deve confrontarsi con il paradigma della scarsità delle
risorse che, secondo i paladini dell’austerità, caratterizzerebbe il
funzionamento di un’economia sana.
collettivo di economisti
Ci viene spiegato ogni giorno che quel paradigma non ce lo impone l’Europa, con i suoi vincoli al deficit e
al debito pubblico, ma deriva dalla razionalità dei mercati: se ti
indebiti troppo perdi la credibilità dei mercati e nessuno è più
disposto a finanziare il tuo debito pubblico.
È lo spettro del default,
agitato in ogni discussione politica per tenere a bada le istanze di
progresso sociale: non possiamo aumentare le pensioni, non possiamo
costruire nuovi ospedali, non possiamo garantire la piena occupazione
perché non ci sono i soldi, e se non tieni i conti in ordine ti ritrovi –
questa la minaccia ricorrente – in bancarotta.
L’incubo degli statisti di ogni colore politico sarebbe dunque quello
di scatenare l’ira dei mercati, e cioè di ritrovarsi senza più nessuno
disposto a prestare i soldi allo Stato. L’austerità, in questa
narrazione, è la medicina amara ma necessaria: tagliare diritti, salari e
stato sociale non piace a nessuno, ma dobbiamo farlo per evitare un
baratro di nome default.
Nel disinteresse generale, pochi giorni (esattamente, il 10 luglio 2019)
fa si è verificato un piccolo ma significativo fatto, una curiosa
circostanza che dimostra plasticamente l’infondatezza di tutto questo terrorismo sul debito pubblico.
Ironia della sorte, lo spettro del default –
o, per dirla più semplicemente, del fallimento, della bancarotta – è
apparso dove meno te lo aspetti: un’asta di titoli del debito pubblico
della virtuosa Germania ha registrato una domanda di bund (così sono chiamati i titoli di Stato tedeschi) inferiore alla quantità offerta dal Governo.
A fronte di 4 miliardi di euro di titoli di Stato tedeschi offerti al mercato, sono pervenute domande per 3,9 miliardi.
Il risultato? Come avrete notato, non è successo assolutamente nulla. Capire perché un’asta scoperta non produce alcun default può
aiutarci a sfatare alcuni miti sul debito pubblico e, soprattutto, a
ricollocare tutti questi fenomeni economici nella dimensione politica
che gli è propria, l’unica entro cui possono essere compresi. Ma andiamo
con ordine.
Il
debito pubblico si accumula ogni volta che lo Stato spende più di
quanto raccoglie con le tasse. Il debito pubblico è, dunque, il
risultato di una serie di disavanzi di bilancio e rappresenta, come abbiamo già avuto modo di sottolineare,
uno strumento essenziale per stimolare l’economia. Persino la virtuosa
Germania, che da anni rispetta alla lettera il pareggio di bilancio, ha
negli anni precedenti accumulato oltre 2.000 miliardi di euro di debito
pubblico: anche se non contrae più alcun disavanzo di bilancio,
Berlino
deve rifinanziare ogni settimana una parte del debito in scadenza
emettendo nuovi titoli, per un totale di centinaia di miliardi di euro
ogni anno necessari semplicemente a rinnovare il debito pregresso. Lo
Stato si indebita emettendo titoli che vengono sottoscritti
prevalentemente da banche, fondi pensione, società finanziarie e
assicurative e altri cosiddetti ‘investitori istituzionali’.
Di
norma la domanda di titoli di Stato eccede, anche sensibilmente, la
quantità offerta in asta, principalmente perché quelle obbligazioni
rappresentano i titoli più sicuri presenti sui mercati finanziari, una
forma per conservare la ricchezza nel tempo senza intaccarne
sensibilmente il valore e, nella maggioranza dei casi, guadagnandoci
anche un rendimento. Tanto per fare un esempio, l’asta di BTP decennali del giugno scorso ha registrato una domanda di 3,6 miliardi contro i 2,75 offerti dal Governo italiano.
L’asta di bund decennali
del 10 luglio scorso ha invece registrato una domanda inferiore
all’offerta, una circostanza davvero curiosa per un titolo che è
considerato il più sicuro d’Europa, con un rating AAA, il livello
massimo possibile.
La locomotiva d’Europa ha dunque dichiarato default?
Pare proprio di no. Come spiegheremo nei paragrafi che seguono, la
ragione risiede in un vero e proprio privilegio di cui la Germania si
‘avvale’ e che le permette di non scontrarsi con le temutissime ire dei
mercati.
La Germania, infatti, si riserva sempre la possibilità di trattenere una parte dei titoli in emissione
– congelati presso la Bundesbank – e di riproporli successivamente sui
mercati vendendoli direttamente in borsa, fuori dal meccanismo d’asta.
Questa pratica operativa permette al debitore pubblico di sottrarsi alla
tagliola dell’asta, alla quale possono partecipare solamente poche
banche selezionate, e di rivolgersi direttamente ai mercati finanziari.
Tale
passaggio, dall’asta (detta ‘mercato primario’) alla borsa (detto
‘mercato secondario’), è carico di conseguenze, perché la Banca Centrale
Europea ha il divieto di intervenire in asta mentre acquista ogni
giorno titoli pubblici sui mercati secondari, sostenendone il corso.
Aggirando la rigidità dell’asta, e riservando regolarmente una parte
dell’emissione alla vendita diretta sui mercati, la Germania si sottrae
ad eventuali capricci delle banche partecipanti alle aste, rendendo
impossibile il ricatto del default.
Nel
caso dell’asta del 10 luglio, a fronte di 3,9 miliardi di euro di
titoli richiesti dagli investitori, meno dei 4 miliardi inizialmente
previsti per l’emissione, la Germania ha effettivamente emesso solamente
3,2 miliardi di euro di titoli, collocando dunque addirittura meno
della pur bassa domanda.
Quegli 800 milioni di euro di titoli di Stato
di differenza tra la quantità inizialmente prevista per l’emissione e la
quantità concretamente collocata sono stati congelati presso la banca
centrale tedesca, la Bundesbank, e verranno offerti nelle settimane
successive in borsa, approfittando anche degli acquisti che la BCE
quotidianamente realizza sui mercati finanziari.
In
questa maniera, la Germania impedisce alle banche che partecipano alle
aste di ‘tirare’ sul prezzo: se gli investitori privati pretendono in
asta un tasso di interesse diverso da quello desiderato dal Governo, i
titoli vengono ritirati dall’asta e collocati successivamente attraverso
le borse, dove operano molti più investitori e dove si rende possibile
un sostegno finanziario da parte dell’autorità monetaria, sostegno che i
Trattati europei vietano in asta.
Prima
di trarre una morale da questi eventi, dobbiamo brevemente soffermarci
sulla curiosa circostanza che ha visto i principali investitori privati
boicottare un’asta di bund.
Come spesso accade quando ci si muove nella giungla dei mercati
finanziari, questo comportamento si spiega facilmente in base alla
logica del profitto: quei titoli sono stati offerti – caso unico in
Europa per un titolo decennale – ad un rendimento negativo dello 0,3%
circa.
Rendimento negativo
significa che il creditore, colui che compra i titoli, paga un prezzo
per prestare i suoi soldi al governo tedesco. Tassi negativi di queste
dimensioni sono incompatibili con il grado di profittabilità degli
affari richiesti dalle principali banche di investimento del mondo, cioè
proprio quelle ammesse alle aste di titoli di Stato.
Ci
si potrebbe domandare, allora, come mai dei titoli del debito pubblico
per i quali il creditore paga per prestare dei soldi allo Stato possano
comunque essere richiesti, ossia domandati. La risposta risiede,
fondamentalmente, nel fatto che le banche e gli intermediari finanziari
domandano i titoli del debito pubblico in quanto tali titoli
rappresentano, in primo luogo, una riserva di liquidità sicura e, in secondo luogo, una fonte alternativa di impiego
della liquidità rispetto al deposito di quella stessa liquidità presso
la Banca Centrale Europea che, su quel deposito, offre, in generale,
tassi di interesse ancora minori a quelli percepibili sui titoli di
stato.
Tuttavia,
davanti alla richiesta del governo tedesco di sottoscrivere titoli a
perdere, i partecipanti all’asta hanno voltato le spalle.
Il
debito pubblico, infatti, come abbiamo già annunciato, è sottoscritto
regolarmente sui mercati perché considerato un titolo sicuro che, al
contempo, offre un rendimento positivo – pur se inferiore al rendimento
dei più rischiosi titoli azionari. Se viene meno completamente
l’elemento della remunerazione, cosa avvenuta il 10 luglio in Germania,
il debito pubblico cessa di essere un affare interessante per le banche
private.
Destino
simile toccò un anno fa al debito pubblico giapponese, con i tassi di
interesse stabilmente in territorio negativo per via del sostegno
massiccio della banca centrale giapponese, che ha acquistato oltre il
40% del debito pubblico nazionale: se il debito pubblico viene
rifinanziato con il supporto dell’autorità monetaria – cosa che avviene
esplicitamente in Giappone e surrettiziamente in Germania – quel debito,
unito all’operato dell’autorità monetaria, appare come un mero
strumento di politica fiscale e di politica monetaria, utile a governare
i tassi di interesse sui mercati finanziari ma inutile a macinare profitti.
Detto
in altri termini, nel momento in cui l’autorità monetaria opera in
supporto allo Stato nel collocamento dei titoli del debito pubblico,
quel debito (o meglio, l’emissione di quel debito supportata
dall’autorità monetaria) assume la veste esclusiva di ‘leva’ necessaria
sia a far funzionare la macchina-Stato (ossia a finanziare la spesa in
disavanzo) sia, al contempo, a controllare i tassi di interesse che lo
Stato dovrà pagare su quei titoli, evitando così di lasciarli in balìa
delle richieste degli intermediari e delle banche d’affari.
Da qui, dunque, il paradosso: mentre tutti discutono del rischio default dei paesi della periferia europea,
quel rischio si manifesta proprio nel cuore dell’Europa – laddove viene
esercitato il governo dei mercati finanziari e, dunque, laddove il
debito pubblico – leva fondamentale della politica monetaria – perde
qualsiasi profittabilità.
Cosa ci insegna questa storia del mancato default tedesco?
Dovrebbe insegnarci che il meccanismo di rifinanziamento del debito
pubblico è un processo innanzitutto politico: laddove il potere politico
lo consente, esistono infiniti metodi per sottrarsi al ricatto dei
mercati, metodi che dipendono in ultima istanza dal governo della
politica monetaria, e dunque dal comportamento della banca centrale.
Non
esiste alcuna disciplina dei mercati che non sia il risultato di un
particolare contesto politico: se l’Italia subisce il ricatto del default, lo subisce perché non ha il sostegno della banca centrale e non ha il beneplacito delle istituzioni europee,
che dal nostro Paese pretendono una ferrea disciplina mentre consentono
alla Germania la pratica operativa del congelamento dei titoli in
emissione, una scappatoia dalle strette dei mercati finanziari.
Quello del default non
è altro che uno spauracchio, un mito utile a disciplinare i governi
europei per imporre le politiche di austerità. Gli Stati dispongono di
una Tesoreria, un cuscinetto di liquidità che consente di far fronte
alle spese previste e impreviste, e nessun governo dipende dalla buona
riuscita di una singola asta del debito pubblico.
Come dimostra il caso tedesco, il mancato collocamento dei titoli di Stato emessi in asta non porta ad alcun default,
perché esistono molteplici metodi di rifinanziamento del debito
pubblico in scadenza nel medio periodo – fuori dall’urgenza dell’asta.
Modi che dipendono, in ultima istanza, dallo spazio politico che un governo si conquista in base ai rapporti di forza: la Germania ha il sostegno della banca centrale e delle istituzioni europee, e per questa ragione non ha nulla da temere.
Il
conflitto politico e sociale deve puntare alla conquista di quello
spazio politico, deve contendere alle attuali classi dirigenti la
gestione di quel potere che consente di governare ordinatamente
un’economia e metterla al servizio della piena occupazione e del
progresso sociale.
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