domenica 28 luglio 2019

Boeri e le gabbie salariali: l’incubo che ritorna

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canigabbia
In un articolo pubblicato su Repubblica, Tito Boeri, ex presidente dell’INPS, propone una delle sue tante ricette, rigorosamente in salsa neoliberista, per far tornare a crescere l’economia italiana e ridurre la disoccupazione: la reintroduzione delle cosiddette “gabbie salariali”, cioè differenziali tra le retribuzioni dei lavoratori in base al luogo di residenza, ipocritamente giustificati sulla base di differenze nel costo della vita nelle varie regioni d’Italia. Prima di addentrarci nei dettagli della proposta, vediamo da cosa scaturisce questa nuova (nuova si fa per dire, i neoliberisti sono persone molto banali) idea del Prof. Boeri.

Il predecessore di Tridico ci informa, preoccupato, che il Nord del Paese si sente tradito dalla Lega, che avrebbe lasciato troppo spazio alle ricette economiche del Movimento 5 Stelle e avrebbe rinunciato, in tutto o in parte, alle proprie. “L’agenda di Governo” – scrive Boeri – “ha del tutto ignorato le istanze del blocco sociale settentrionale”. Immediatamente, Boeri mette le cose in chiaro sulla sua visione del Paese, riferendosi a un Nord di lavoratori e pensionati che speravano nelle promesse della Lega – quota 100 e la flat tax, ad esempio – e a un Sud di disoccupati che avevano votato in massa Movimento 5 Stelle per ricevere il reddito di cittadinanza. Solo questi ultimi sarebbero stati davvero accontentati. Il produttivo Nord sarebbe stato fregato dalla Lega attraverso una quota 100 molto limitata, nella sua portata, rispetto alle aspettative dei lavoratori settentrionali prossimi alla pensione e una flat tax che, fino ad ora, non si è vista (se non attraverso una ben misera “flataxina”).
Secondo Boeri, un partito interessato ad affrontare i veri problemi del Paese dovrebbe partire dalla questione settentrionale, prendendo di petto quella che secondo lui è la vera grande ingiustizia territoriale: i salari reali (ovvero il rapporto tra i salari in termini monetari e i prezzi, che ci dice, in pratica, quante cose un lavoratore può comprare con il proprio stipendio) sono più alti al Sud che al Nord, a causa di prezzi molto più bassi nelle regioni meridionali rispetto a quelli nelle regioni del Settentrione. Sarebbe dunque necessario “allineare”, in termini reali, le retribuzioni del Nord e del Sud del Paese e, per farlo, bisognerebbe partire dagli stipendi dei lavoratori del settore pubblico. Questo dovrebbe avvenire, secondo Boeri, per due ragioni.
La prima riguarda considerazioni di “giustizia” distributiva. La seconda, scrive Boeri, consiste nella necessità di favorire l’occupazione nel Mezzogiorno. Secondo Boeri, infatti, salari reali troppo alti nel settore pubblico al Sud provocano salari reali troppo alti anche nel settore privato, rendendo i lavoratori del Mezzogiorno poco attrattivi per gli imprenditori. Questa sarebbe la causa di buona parte della disoccupazione al Sud. La ricetta consisterebbe, dunque, nell’immaginare e implementare, nel pubblico impiego, un sistema di retribuzioni che preveda, sostanzialmente, stagnazione dei salari nominali al Sud e una loro crescita (blanda, ça va sans dire, anche se su questo Boeri è piuttosto sfuggente) al Nord. Ciò, sempre nelle idee di Boeri, consentirebbe di unire, piuttosto che dividere, il Paese. Si tratta, come i più anziani ricorderanno, delle cosiddette ‘gabbie salariali’.
Aspetto di non secondaria importanza è il meccanismo attraverso il quale Boeri sembra immaginare che il riavvicinamento tra i salari reali dei dipendenti pubblici del Nord e di quelli del Sud possa favorire i disoccupati del Mezzogiorno. Su questo meccanismo, in realtà, l’ex presidente dell’INPS non spreca molte parole. Si limita a dire che il pubblico impiego “da sempre incide anche sulla contrattazione nel privato”. Si può dunque immaginare, cercando di interpretare il Boeri-pensiero, che i salari nel pubblico impiego costituiscano una sorta di pietra di paragone: un datore di lavoro dovrebbe offrire al disoccupato un salario alquanto vicino a quello che il disoccupato troverebbe nel settore pubblico per convincerlo a scegliere di lavorare in azienda, cosicché il salario nel settore pubblico influirebbe sulla contrattazione in quello privato.
Ora, se è del tutto ragionevole l’idea che il lavoratore preferisca uno stipendio più alto e che, quindi, se lo stipendio nel settore pubblico è più alto di quello nel settore privato, il lavoratore sceglierà quello pubblico, è molto più discutibile il discorso sull’incidenza che un meccanismo del genere può avere nel contesto economico-sociale del Mezzogiorno. In altri termini, la domanda è: quanti disoccupati del Mezzogiorno possono permettersi di scegliere tra il lavoro pubblico e quello privato, sottopagato e, magari, in nero? Per lavorare nel settore pubblico, a seconda dell’inquadramento per il quale si concorre, esistono dei requisiti, a partire dal livello d’istruzione richiesto. Non è un mistero che al Sud i dati sui titoli di studio siano impietosi. Dati Svimez ci raccontano che la quota media di laureati nel Mezzogiorno nella popolazione tra i 25 e i 64 anni è pari al 14,6 per cento: meno di un meridionale su sei è laureato. L’Istat, invece, certifica che nel 2017 il tasso di abbandono scolastico, misurato come la percentuale di giovani tra 18 e 24 anni che hanno solo la licenza media, al Mezzogiorno è stato pari al 18,5 per cento. Il dato supera il 20 per cento in comuni anche di grandi dimensioni, come Napoli (22,1 per cento), e in aree geografiche abbastanza ampie, come il nord della Sardegna. Fanalino di coda è Caltanissetta, in Sicilia, con oltre il 27 per cento di abbandoni scolastici.
Si aggiunga a questo il fatto che molti enti locali del Sud si trovano invischiati fino al collo nelle sabbie mobili dei vincoli di spesa imposti da riforme via via sempre più restrittive delle loro capacità di spesa e che per questi enti, dunque, è difficile immaginare una marcata espansione del personale alle proprie dipendenze. Così come è difficile immaginare che possa sopperire l’occupazione nel settore statale, essendo anche le amministrazioni centrali sottoposte agli stringenti vincoli di bilancio imposti dai Trattati europei.
Sembra dunque difficile immaginare, per ampie fasce della popolazione del Mezzogiorno, in che modo una riduzione del divario tra i salari reali del settore pubblico del Sud e quelli del Nord possa costituire un fattore di miglioramento. E ciò non solo per le ragioni appena esposte, e cioè perché la competizione pubblico/privato per accaparrarsi i disoccupati del Mezzogiorno necessaria al funzionamento del meccanismo pensato da Boeri è più teorica che pratica, ma anche perché, se anche ammettessimo il funzionamento di tale meccanismo, non è affatto detto che la riduzione dei divari nei salari reali nel settore privato nel Mezzogiorno rispetto a quelli del Nord porterebbe necessariamente a un aumento dell’occupazione.
Proviamo ad esulare dal fatto che un imprenditore che dovrà decidere se aprire una fabbrica nel Nord o nel Sud dell’Italia, a meno che non sia una fabbrica che produca merci da vendere prevalentemente sul mercato locale, cioè sul mercato geograficamente più vicino al luogo in cui è impiantata la fabbrica, guarderà più al salario monetario che a quello reale. Se, a parità di tutti gli altri fattori, ad esempio, un produttore di una merce venduta in tutta Europa dovesse decidere se impiantare una fabbrica a Pavia o a Crotone, poco gli importerebbe sapere quanti panini, quanti pacchi di pasta, quanti metri quadrati di affitto il lavoratore di Crotone e quello di Pavia potranno acquistare con lo stipendio che ricevono: andrebbe verosimilmente a produrre nell’area in cui i lavoratori guadagnano di meno in termini di salario monetario, in quanto sarebbe minore l’esborso per l’impresa. Se le imprese producono e assumono al Nord invece che al Sud, sembra difficile immaginare che la colpa sia da ricercare nel fatto che gli affitti al Sud sono troppo bassi rispetto ai salari monetari e un chilo di pane a Napoli costa la metà rispetto a Milano. È molto più facile pensare che ciò avvenga per ragioni totalmente diverse, come la cronica deficienza di infrastrutture che caratterizza ampie aree del Mezzogiorno, che rende particolarmente costoso portare sui mercati continentali le merci prodotte al Sud. Non è un caso che abbiamo assistito, negli anni del cosiddetto “boom economico”, e stiamo tornando ad assistere, in epoca recente, al fenomeno per il quale i disoccupati del Mezzogiorno emigrano in massa verso il Nord. la questione va ben oltre la disquisizione sull’esistenza di un nesso causale tra diminuzione dei salari reali o monetari ed aumento dell’occupazione al Sud. La questione, come dicevamo, va ben oltre la disquisizione sull’esistenza di un nesso causale tra diminuzione dei salari reali o monetari ed aumento dell’occupazione al Sud. Il punto centrale è che, se anche una misura di tal fattura riuscisse nel suo obiettivo, lo farebbe a scapito dell’occupazione al Nord. Con la beffa ulteriore che, a livello aggregato di Paese, il totale degli occupati potrebbe essere minore, a causa della minore domanda aggregata provocata dalla diminuzione delle retribuzioni e quindi dei consumi. E i problemi non sarebbero neanche finiti qui. Ci troveremmo, infatti, con l’aver importato anche a livello nazionale il perverso meccanismo che, a livello europeo, prevede come unica via per lo sviluppo di un Paese il ricercare un vantaggio di costo e convenienza rispetto al vicino, cosa che si traduce, in termini concreti, in una spirale di riduzione dei salari senza fine. L’Italia che ha in mente Boeri è un Paese dove il Sud, se vuole crescere, lo deve fare alle spese dei lavoratori del Nord e del Sud, a tutto vantaggio del capitale, in grado di spostarsi da una regione all’altra, da un paese all’altro, alla ricerca del profitto più alto. Questo ha consentito e ancora consente ai padroni di vivere nel migliore dei mondi possibili: avere manodopera a buon mercato, ma in fabbriche con condizioni logistiche favorevoli. Perché in questo consistono il ricatto della disoccupazione e la trappola dell’austerità: costringere i lavoratori ad accettare salari sempre più bassi pur di non perdere (o per ottenere) il posto di lavoro. Una strategia valida a qualsiasi livello di aggregazione territoriale, a livello nazionale così come a livello internazionale.
C’è un altro aspetto particolarmente odioso nella retorica di Boeri. Lo “scandalo” della differenza di retribuzioni reali tra impiegati pubblici del Nord e del Sud, in particolare dei docenti scolastici, sarebbe acuito dalla differenza di rendimento tra gli studenti delle due aree geografiche, rivelato dalle celeberrime prove Invalsi. Considerare le prove Invalsi come indicatore della produttività dei docenti del Sud è semplicemente ridicolo e palesemente in malafede, poiché vuol dire ignorare, ancora una volta, le differenze socio-economiche tra diverse regioni e sub-regioni italiane. La presunta scarsa preparazione degli studenti del Mezzogiorno, infatti, non può non risentire dei differenti contesti in cui l’apprendimento ha luogo. Si sa che molto diffuso, tra gli studenti del Sud, è il fenomeno del lavoro minorile nero o, comunque, del lavoro (nero) come attività ulteriore rispetto a quella scolastica. Inoltre, in un contesto sociale ed economico caratterizzato da un altissimo tasso di disoccupazione, soprattutto giovanile e anche tra i laureati, la percezione dell’utilità dell’istruzione non può che essere particolarmente bassa. Se, dunque, la scuola e l’università non sono viste come strumenti capaci di migliorare, realisticamente, la situazione socio-economica di un giovane, tanto vale investirci poco, il meno possibile, compatibilmente con l’obbligatorietà degli studi per 10 anni e, comunque, fino al sedicesimo anno di età (o con l’obbligo formativo fino a 18 anni). Di conseguenza, invocare i risultati nelle prove Invalsi come ragione per introdurre le gabbie salariali e premiare i produttivi insegnanti del Nord rispetto a quelli del Sud è una bestialità, che può avere come unico risultato quello di acuire ulteriormente il gap nei livelli di istruzione tra regioni benestanti e regioni più problematiche.
L’introduzione delle gabbie salariali, dunque, in primo luogo si basa su presupposti teorici sbagliati. L’automatismo dell’aumento dell’occupazione derivante da una riduzione nei salari reali nel Mezzogiorno (o da una riduzione della differenza tra questi, visti come troppo alti, e quelli del Nord), come abbiamo cercato di argomentare, è tutt’altro che scontato. Le gabbie salariali finirebbero, infatti, per acuire, piuttosto che ridurre, le differenze territoriali. Nel mondo immaginato da Boeri, un mondo in cui i gialloverdi sguazzano serenamente, un euro in più di spesa pubblica da una parte vuol dire un euro in meno di spesa pubblica – o un euro in più di tasse – altrove (è l’austerità, bellezza!). Anche il più blando aumento delle retribuzioni al nord avverrebbe, quindi, a scapito di altre voci di spesa. Ad esempio, e questo sembra essere il suggerimento che scaturisce dalla strana idea di giustizia di Boeri, tagliando i trasferimenti verso il Sud inefficiente e dipendente dall’assistenzialismo in stile reddito di cittadinanza. Alimentando, cioè, ulteriormente ed artificialmente, gli antagonismi tra i lavoratori delle diverse aree del Paese, a tutto vantaggio dei padroni.
La strategia di dividere i lavoratori su base territoriale si basa su un ragionamento, si noti, non molto diverso da quello che riguarda i lavoratori stranieri in Italia. Non è un caso che tale ragionamento sia tipico della Lega (Nord). Il partito di Umberto Bossi nasceva come una formazione territoriale e spingeva sulla rivalità tra Nord e Sud per accumulare consensi nel Settentrione, mettendo i lavoratori delle due aree del Paese gli uni contro gli altri. Con l’estensione della portata territoriale degli interessi elettorali della Lega (non più Nord), la faglia tra Nord e Sud Italia sembra avere abbandonato i sogni delle camicie verdi. Sembra, perché i progetti di autonomia differenziata sono lì a ricordarci che chi nasce tondo non può morire quadrato e se hai avuto come ragione costituente, dalla tua fondazione, odio e razzismo verso meridionali di latitudini varie, non basta darsi una riverniciata tricolore per fare sparire queste pulsioni. È però indubbio che, nell’immaginario nuovo delle ormai ex camicie verdi, la linea di frattura più appariscente debba essere quella tra lavoratori italiani, da un lato, e lavoratori stranieri, dall’altro. Una visione truffaldina, nella quale a contare non sono le differenze di classe, non è il conflitto distributivo tra lavoratori, da un lato, e imprenditori, dall’altro, ma sono le differenze nella provenienza territoriale, prima tra regioni italiane, ora tra l’Italia e i Paesi d’origine degli immigrati. In questo abominevole progetto politico, la Lega pare riuscire comunque a cogliere i famosi due piccioni con una fava. Mentre Salvini se la prende con immigrati e dannati della terra, c’è sempre un utile idiota, questa volta con le vesti rassicuranti dello pseudo-progressista Boeri, pronto a bastonare e a rimettere al loro posto anche i ‘terroni’. È una storia vecchia quanto il capitalismo, e che dovrebbe anche servire da promemoria per i sedicenti sinistri che riscoprono, sulla via di Damasco, un insospettato amore per barriere e controlli alle frontiere: un sistema economico fondato sul profitto ha bisogno strutturale di qualcuno da sfruttare. Prima viene l’immigrato. In mancanza dell’immigrato, è la volta del meridionale, poi dello scarsamente istruito, del povero e così via, all’infinito.
Contro questa retorica, che intende mettere da parte il conflitto di classe alimentando il campanilismo e il razzismo, occorre ribadire che i lavoratori, siano essi del Nord o del Sud, siano essi italiani o cinesi o nigeriani, non sono nemici tra loro. I lavoratori, qualunque sia la loro provenienza, hanno un nemico comune, ovvero il capitale. Un modo per migliorare le condizioni di tutti i lavoratori, italiani e immigrati, meridionali e settentrionali, esiste e passa per una loro sindacalizzazione di classe e conflittuale. Sul piano macroeconomico, il miglioramento delle condizioni materiali dei lavoratori ha anche bisogno di un ulteriore tassello, che si chiama spesa pubblica in deficit per istruzione, sanità, infrastrutture, pensioni, salari pubblici etc., e che non a caso è diventata la nemica numero uno del capitale. L’artificiosa contrapposizione regionale o nazionale tra lavoratori e l’austerità sono due facce della stessa medaglia e hanno lo stesso obiettivo. Se si vuole creare occupazione al Sud non c’è alcun bisogno di prevedere salari differenziati, cervellotici e iniqui, per lavoratori che compiono le medesime mansioni: sarebbe necessario sostenere la domanda aggregata e l’investimento in infrastrutture attraverso la spesa pubblica. Più facile a dirsi che a farsi, ma è nostro compito smascherare le divisioni artificialmente create e sottolineare quelle che influiscono davvero sul tenore di vita dei lavoratori, riproponendo ancora una volta una visione delle relazioni economiche basata sul conflitto, tra lavoratori, da un lato, e imprenditori, dall’altro, per la spartizione del prodotto sociale.

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