Dalle
aggressioni climatiche alla diffusione dell’estrema destra in tutto
il mondo, fino alla rinnovata
proliferazione di armi nucleari, le minacce all’ambiente
naturale e alle istituzioni democratiche sono sempre più evidenti,
accompagnate da un tangibile senso di crisi.
Ma malgrado cambiamenti
così repentini, l’opera di Noam Chomsky rimane indispensabile per
capire la politica globale e le sue sfumature, spesso tralasciate dai
media ufficiali.
Oltre ai
contributi rivoluzionari nel campo delle scienze cognitive e della
linguistica, il grande pubblico conosce Chomsky soprattutto come
critico spietato della politica estera statunitense, del modello
propagandistico dei mass media
occidentali e, più recentemente, dell’impatto crescente del
cambiamento climatico di origine antropica.Oggi, all’età di novant’anni, Chomsky continua a insegnare, scrivere, tenere lezioni e, incredibilmente, a rilasciare una gran quantità di interviste.
I suoi ultimi libri includono Global Discontents: Conversations on the Rising Threats to Democracy (Penguin, 2017), Requiem for the American Dream The 10 Principles of Concentration of Wealth & Power (Seven Stories Press, 2017), e Why Only Us: Language andEvolution (MIT Press, 2016).
Di recente, Harrison Samphir ha incontrato il famoso filosofo dissidente, e insieme hanno parlato di cambiamento climatico, Venezuela, Iran, antisemitismo, impero statunitense e molto altro ancora.
La loro conversazione è stata trascritta ed editata per maggior chiarezza.
HS: Le stime della National Oceanic and Atmospheric Association (Noaa) suggeriscono che, se le emissioni resteranno quelle di oggi, per il 2100 il livello dei mari sarà aumentato di oltre due metri. Questo avrà effetti irrimediabili su molte delle persone più povere e vulnerabili del pianeta. Pensi che ci sia modo di evitarlo?
NC: Se dovesse succedere qualcosa del genere, il disastro avrebbe delle dimensioni quasi imponderabili, e sarebbe certo più grave – come dici tu – per le persone povere e vulnerabili, ma abbastanza orribile anche per il resto della società. E questa non è la proiezione più minacciosa che abbiamo a disposizione. Ci stiamo sinistramente avvicinando alla quota di riscaldamento globale di 125 mila anni fa, quando il livello dei mari era di 6-9 metri più alto di oggi, e il rapido scioglimento del ghiaccio antartico minaccia di colmare il divario, probabilmente con un’accelerazione non lineare, come suggeriscono recenti studi.
Se c’è una possibilità di evitare una simile catastrofe? Senza dubbio. Ci sono proposte valide e ben strutturate; il lavoro che l’economista Robert Pollin ha fatto per il Green New Deal è il migliore che conosco. Ma il compito che abbiamo di fronte è gigantesco, e non ci resta molto tempo. La sfida sarà enorme, anche se gli stati si impegnassero a vincerla. E alcuni lo sono. Ma è impossibile ignorare che lo stato più potente della storia umana è nelle mani di quella che può essere accuratamente descritta solo come una gang di super-criminali dediti a correre appassionatamente verso il baratro.
È difficile persino trovare le parole adatte a immortalare l’entità dei crimini che stanno contemplando. Un esempio piccolo ma significativo è rappresentato dal documento di 500 pagine sull’ambiente prodotto dalla National Highway Traffic Safety Administration di Trump, che chiede di cancellare i nuovi standard per le emissioni di autoveicoli. Poggia su una base solida. Lo studio prevede che per la fine del secolo la temperatura sarà salita di 4 gradi centigradi. Le emissioni delle automobili non incidono poi tanto, e dato che la partita è pressoché persa, perché non divertirci un po’ finché possiamo – suonando il violino mentre il mondo brucia.
È difficile trovare le parole per commentare una cosa del genere – e infatti è passata senza fare rumore.
La mentalità della leadership influenza l’opinione del Partito repubblicano, i cui membri generalmente non considerano il cambiamento climatico un problema particolarmente serio. In realtà, ricopre un rango particolarmente basso tra i problemi cruciali della popolazione in generale (e la crescente minaccia di una guerra nucleare, la seconda minaccia all’esistenza umana, nemmeno figura nei sondaggi).
HS: In un recente articolo su Vox, Mary Annaïse Heglar del Natural Resources Defense Council commenta: «La convinzione che questa enorme minaccia all’esistenza umana avrebbe potuto essere sventata se solo tutti noi avessimo ottimizzato le nostre abitudini di consumo non è solo assurda, è pericolosa. Trasforma l’ambientalismo in una scelta individuale, definita come peccato o virtù, condannando coloro che non riescono o non possono sostenere questa linea etica». Come possiamo superare il frame neoliberista, incentrato sulla volontà consumistica, e andare verso un modello che, ad esempio, metta sotto accusa le cento aziende responsabili del 71% delle emissioni globali?
NC: Non possiamo contare sulle forze di mercato. La scala temporale è tutta sbagliata. È necessaria un’azione molto più drastica. Coloro che sono più responsabili della distruzione dell’ambiente possono essere imbrigliati da meccanismi di regolamentazione che in principio sono già disponibili, e dovrebbero essere posti sotto controllo democratico. Ma la questione non è soltanto porre un freno a chi inquina di più. Sono necessari cambiamenti strutturali di ampia portata per affrontare ciò che, a tutti gli effetti, è una crisi esistenziale: trasporti di massa efficienti, solo per fare un esempio; sforzi assai più sostanziali per la de-carbonizzazione, per farne un altro. Qui il mercato sta mandando i segnali sbagliati – mortalmente sbagliati, in questo caso. Il capitale può fare più soldi con una nuova app per iPhone che con un investimento di lungo periodo per la de-carbonizzazzione, che è a corto di fondi.
È bene ricordare l’avvertimento dato da Joseph Stiglitz trent’anni fa in un articolo per la World Bank Research & Publication, scritto prima di diventare economista capo della Banca Mondiale (e premio Nobel): dovremmo stare attenti a quella religione per cui il mercato sa sempre cos’è meglio. Religione non è un termine sbagliato per indicare l’ossessione per le soluzioni di mercato in epoca neoliberista. E come ogni credo da fanatici religiosi, ha prodotto non pochi disastri.
HS: Sembra che i piani di lungo periodo, malgrado agiscano su larga scala, per essere attuati abbiano bisogno di sacrifici politici, economici e personali a breve termine – un potente disincentivo per la maggior parte dei politici odierni. Questo discorso può essere ribaltato, e se sì come? O è una caratteristica inamovibile dell’attuale sistema politico economico?
NC: È un problema che non può essere ignorato. I gilet jaunes francesi l’hanno preso di petto: il governo (francese) parla della fine del mondo, ma noi non riusciamo ad arrivare alla fine del mese. La transizione verso energie rinnovabili dovrebbe creare un ambiente più vivibile in generale, ma inevitabilmente danneggerà alcuni lavoratori e lavoratrici che non potranno permettersi lo shock, e una pianificazione attenta è necessaria per affrontare questi e molti altri problemi. Può essere fatto, sono già state avanzate soluzioni concrete.
HS: Il supporto sociale al Green New Deal (Gnd) sta crescendo, e il progetto sta guadagnando una notevole popolarità su entrambi i lati del confine Usa/Canada. Secondo te perché questa iniziativa è importante, e come possono le persone comuni contrastare la narrazione secondo cui il Gnd sarebbe «fiscalmente ed economicamente catastrofico»?
NC: La sua importanza dovrebbe essere auto-evidente. La narrazione può essere contrastata mostrando quanto è sbagliata – come in effetti è – e rendendo chiaro che l’alternativa è andare verso una catastrofe così impressionante che ogni altra cosa al confronto impallidisce.
HS: Adesso parliamo di politica estera. Secondo uno studio degli economisti Mark Weisbrot e Jeffrey Sachs, le sanzioni economiche applicate dall’amministrazione Trump contro il Venezuela dall’agosto 2017 in poi hanno causato decine di migliaia di morti, e stanno rapidamente peggiorando la crisi umanitaria nel paese. Per essere chiari, il Venezuela è responsabile di molti dei propri problemi, ma le potenze occidentali – e in particolare gli Stati Uniti – hanno avuto un ruolo significativo nel minare la sua tenuta democratica sin dai primi tempi di Chavez, incluso il fallito colpo di stato militare del 2002. Ora, la politica del cambio di regime ha preso una direzione più palese e pericolosa sotto Trump. Come può essere risolta questa situazione, e perché il Venezuela riceve una copertura mediatica così schierata?
NC: Gli Stati uniti all’inizio tolleravano Hugo Chavez come si fa con un cattivo ragazzo che può ancora essere domato. Ma la situazione è cambiata quando Chavez ha convinto l’Opec a ridurre la produzione per sostenere i prezzi a beneficio dei produttori di petrolio. Poco dopo, un colpo di stato militare depose Chavez e smantellò il governo, con il plauso aperto di Washington e le lodi dei media liberali. Tuttavia la situazione fu presto ribaltata e gli Stati uniti dovettero ricominciare con i sabotaggi e l’eversione, con l’aiuto delle violente élite anti-Chavez.
Non è questo il luogo per ripercorrere quegli anni, ma sono molti i fallimenti politici che incidono nella crisi attuale: la mancata diversificazione di un’economia basata sul petrolio che si è sviluppata sin da quando, più di cento anni fa, gli Stati Uniti assunsero il controllo dopo la scoperta del petrolio, e la mancata accumulazione di riserve negli anni in cui il prezzo del petrolio era alto. Dopo la morte di Chavez, il prezzo del petrolio è sceso, e il governo di Maduro si è dovuto rivolgere a un mercato internazionale del credito che gli era ostile. Inoltre il suo governo ha preso decisioni economiche atroci, e ha inasprito la repressione quando l’opposizione ha dato vita a proteste accese e spesso militanti.
Le sanzioni di Trump hanno trasformato una grave crisi in una catastrofe, come è stato riconosciuto dall’economista di riferimento dell’opposizione, il ben informato Francisco Rodriguez – il classico impatto che le sanzioni hanno sulla società civile. Rodriguez, che accusa soprattutto le politiche di Maduro, riferisce che le sanzioni finanziarie statunitensi sono associate a un brusco calo della produzione di petrolio del valore di circa 16,9 miliardi di dollari, paventando conseguenze disastrose in un paese che coltiva a malapena un terzo del cibo di cui ha bisogno. «Assisteremo a una carestia nel Venezuela – ha detto Rodriguez – Il totale delle importazioni ad aprile era di soli 303 milioni di dollari, e circa la metà era legato al petrolio. È soltanto l’8% delle stime del 2012… e se anche tutte le importazioni fossero di cibo, sarebbero comunque ben al di sotto delle necessità del paese».
È facile gridare e strillare, ma l’unica speranza di una soluzione tra le proposte che ho visto finora è quella di un negoziato tra i partiti che conduca a una sorta di governo di transizione.
È normale che i media si schierino diligentemente a fianco della politica di stato, ma l’ostilità verso Chavez è stata sin dal primo giorno insolitamente virulenta, a volte a livelli davvero notevoli.
HS: In Gran Bretagna, gli sforzi per escludere dal potere il leader laburista Jeremy Corbyn con l’accusa di antisemitismo hanno avuto l’allarmante effetto di confondere le critiche mosse a Israele o l’antisionismo con l’odio per gli ebrei. Hai definito simili tattiche una disgrazia, un insulto alla memoria delle vittime dell’Olocausto. Mi piacerebbe che ci parlassi di come le accuse mal riposte di antisemitismo possono danneggiare gli ebrei, e perché una definizione allargata del termine (che, per esempio, considera la difesa dei diritti dei palestinesi come una forma di bigottismo antisemita) può risultare problematica.
NC: Questa posizione è riassunta nella dichiarazione ormai classica di Abba Eban, rispettabile uomo di stato israeliano molto stimato, soprattutto in Inghilterra, come gentleman inglese (laureato a Cambridge, accento colto, etc.). Nel 1973, quando era Ministro degli Esteri israeliano, Eban scrisse un interessante articolo su uno dei giornali liberali di punta di Israele [Congress Bi-Weekly], nel quale spiegò che «uno dei compiti principali in qualunque dialogo con il mondo dei Gentili è dimostrare che la distinzione tra antisemitismo e antisionismo non esiste. L’antisionismo è semplicemente una nuova forma di antisemitismo».
Il compito è definito in maniera molto esplicita. Qui «antisionismo» vuol dire critica alle politiche dello Stato di Israele. Eban lo rese molto chiaro aggiungendo: «A scanso di equivoci: la nuova sinistra è autrice e fonte del nuovo antisemitismo».
La nuova sinistra in realtà era per la stragrande maggioranza sionista, ma cominciava ad essere timidamente critica verso alcune delle politiche di occupazione e di insediamento illegale di cui Eban era responsabile. Eban identificò inoltre due arci-nemici: I.F. Stone e il sottoscritto, «il cui complesso di base è il senso di colpa del sopravvissuto ebreo» e dunque fuori dalla portata di qualsiasi discussione razionale. Le sue accuse folli alla nuova sinistra, da leggere, sono altrettanto ridicole, come Eban indubbiamente sapeva, avendo studiato.
Il messaggio dall’alto era chiaro, e sin da allora è stato eseguito diligentemente, alcune volte riecheggiando la frase di Marx sulla tragedia che si ripete in farsa. Un esempio è l’imponente pubblicazione sui «veri antisemiti» dell’Anti-Defamation League, che da vera associazione per i diritti civili dopo il 1967 si tramutò in una parodia dello stalinismo. Viene fuori che il vero antisemitismo non ha a che fare con quella vecchia roba noiosa di «uccidere gli ebrei» e negare l’Olocausto, ma invece riguarda l’«avere una brutta opinione della guerra ed essere troppo favorevoli alla pace», protestare contro la guerra in Vietnam e i crimini statunitensi in America centrale, minare il budget della difesa, e in generale interferire con il potere degli Stati uniti, i difensori di Israele.
Gli attacchi a Corbyn e al suo rinnovato Partito Laburista provengono dalla stessa fonte. Così, l’attivista di lungo corso dei Labour Chris Williamson è accusato di antisemitismo, cosa che prevede la sua espulsione dal partito, con l’accusa principale di aver detto che il partito è stato «troppo apologetico» nel difendere la sua lunga storia di lotta contro «la piaga dell’antisemitismo». Più del «vero antisemitismo».
Gli sforzi, su entrambe le sponde dell’Atlantico, si stanno facendo più appassionati, in modi interessanti, man mano che diventa sempre più chiaro che Israele sta perdendo il controllo dell’opinione pubblica liberal ed è costretto ad affidarsi al supporto degli elementi più reazionari e al movimento fondamentalista evangelico, che combina il suo fervente supporto per le azioni più estreme di Israele con un antisemitismo senza precedenti (pensa al destino di quegli ebrei che non avranno «trovato Dio» per la fine dei tempi e il ritorno di Cristo).
L’antisemitismo autentico, credo, è deliziato dal vedere gli ebrei ridicolizzarsi in questo modo, mentre altri staranno rabbrividendo.
Questo non vuol dire, ovviamente, negare che ci possa essere un ceppo di antisemitismo all’interno del Partito laburista – come più o meno in tutta l’Inghilterra, come ci mostrano studi generali, un po’ al di sotto degli standard storici e molto al di sotto dell’odio verso i musulmani e altre forme di razzismo prevalenti.
HS: Di recente mi è tornato in mente La fabbrica del consenso, mentre leggevo i titoli dei giornali sulle tensioni crescenti tra Iran e Stati uniti. Questo articolo del Washington Post è, credo, emblematico degli sforzi fatti da determinati mezzi di informazione per travisare la rappresentazione del conflitto, minimizzando l’abbandono di Trump dell’accordo sul nucleare e inquadrando il rinnovato arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran come il catalizzatore dell’aumento delle ostilità. Puoi spiegare perché questo genere di rappresentazioni siano pericolose, e come possono i lettori critici avere una copertura accurata delle relazioni internazionali nei nuovi media?
NC: I media adottano quasi automaticamente il quadro di riferimento base della dottrina statale. Quelli alla fine dello spettro liberale (il New York Times, il Washington Post) solitamente provano a smussare un po’ gli angoli, dando un’impressione di indipendenza. Le narrazioni sulle tensioni fra Usa e Iran sono tipiche di uno schema di lungo corso, ampiamente documentato. Secondo la propaganda di stato, l’Iran è il colpevole. Gli Stati uniti devono decidere se e come rispondere alle provocazioni e alla diffusa malvagità dell’Iran. I media liberali, nelle loro posizioni più critiche, la pongono in maniera diversa – entrambi i fronti stanno alimentando le tensioni.
La realtà è drammaticamente differente, e difficilmente discutibile. L’Iran si è attenuto perfettamente agli stringenti termini del Jcpoa [Joint Comprehensive Plan of Action, l’accordo sul nucleare iraniano, ndt], straordinariamente severo per uno dei sottoscrittori del Trattato di Non-Proliferazione. L’intelligence degli Stati Uniti e altre fonti credibili sono d’accordo. L’amministrazione Trump si è ritirata dal trattato, di fatto distruggendolo, e ha imposto sanzioni selvagge pensate per mettere in crisi l’economia e punire la popolazione. L’Iran si è astenuto da qualsiasi reazione, sperando che l’Unione Europea avesse il coraggio di deviare dagli ordini del padrone, ma quando questo non è successo, l’Iran ha iniziato a riprendere il suo programma nucleare – come di fatto ha diritto a fare secondo l’Npt, una volta che il Jcpoa sia stato abrogato. Potrebbe o non potrebbe aver portato avanti alcune provocazioni nel Golfo, come sostiene l’asse Trump-Bolton-Pompeo, di certo non nota per la sua credibilità.
Tutto questo viene relegato ai margini. Innominabile nella stampa libera è il sondaggio internazionale Gallup che ha chiesto quale fosse la più grande minaccia alla pace mondiale: gli Stati Uniti, senza ombra di dubbio. L’Iran è stato appena citato – in contraddizione con il mantra statunitense, costantemente ripetuto, che l’Iran è la più grande minaccia alla pace, mentre gli Stati Uniti sono ovviamente i maggiori sostenitori mondiali della pace e della democrazia.
Un modo chiaro e preciso per mitigare o porre fine a qualsiasi immaginaria minaccia sul nucleare iraniano sarebbe quello di stabilire una zona libera dalle armi nucleari (una Nuclear Weapon-Free Zone, Nwfz) nel Medio Oriente, con ispezioni adeguate, come quelle che sono state fatte in Iran sotto il Jcpoa senza interferenze, com’è noto. L’idea è stata proposta decenni fa dagli stati arabi. Ha il pieno supporto dell’Iran, del G-77 [Group of 77, coalizione Onu di 134 nazioni del sud del mondo, ndt], e virtualmente di ogni altra nazione, ma è regolarmente respinta dal veto degli Stati uniti alle conferenze di rinnovo dell’Npt, l’ultima volta sotto Obama. Non è difficile svelarne la ragione. Approvarla significherebbe riconoscere l’esistenza dell’enorme arsenale bellico nucleare di Israele – che renderebbe l’aiuto militare a Israele illegale per le leggi statunitensi – e permettere che sia sottoposto a ispezioni, una cosa evidentemente intollerabile. Si vede che appoggiare una simile risoluzione è un’altra forma di “vero antisemitismo”.
Una nota a margine, ugualmente soggetta a divieto, è che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sarebbero particolarmente obbligati a perseguire una Nwfz nel Medio Oriente. Nel tentativo di escogitare un pretesto per invadere l’Iraq si sono appellati alla Risoluzione 687 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite; hanno dichiarato il falso e affermato che l’Iraq aveva violato l’accordo sviluppando armi nucleari. Ma gli unici a violare il trattato sono gli Stati uniti e il Regno unito, osteggiando la proposta di una Nwfz nel Medio Oriente.
Sta diventando in qualche modo noioso ripetere all’infinito tutto questo a orecchie rese sorde da una lealtà fanatica alle verità dottrinali. Qualcosa che Orwell aveva previsto quando parlò di come nella libera Inghilterra «le idee poco gradite potessero venire soppresse senza l’uso della forza».
HS: Altrove, il recente incontro fra Trump e il leader nord-coreano Kim Jong-un potrebbe dimostrarsi uno spartiacque per la diplomazia del ventunesimo secolo. D’altra parte, questa relazione in via di sviluppo potrebbe essere usata da Trump e dalla sua amministrazione come leva per realizzare gli obiettivi geopolitici statunitensi in Asia. Qual è la tua lettura della situazione?
NC: Secondo me è un errore cercare qualche strategia geopolitica dietro le varie buffonate di Trump. Rende regolarmente molto chiaro il suo principio guida quando, per esempio, annuncia il suo piano stravagante per il 4 luglio – «La Piazza Rossa sul Potomac», come l’ha acidamente descritta il Financial Times. Trump ha twittato che il maestro di cerimonia sarebbe stato «il vostro presidente preferito: Me». Questo è il vero principio guida di un megalomane infantile che tiene il futuro del mondo tra le mani – un meraviglioso commento sulla specie umana.
Questo principio ha delle conseguenze. La prima è che quanto fatto nel passato (in particolare dall’odiato Obama) è stato un disastro totale, ha danneggiato l’America, ma ora il Più Grande Affarista della Storia Umana metterà le cose a posto. Nella maggioranza dei casi le conseguenze sono disastrose, ma a volte le sue azioni sono più o meno ragionevoli – e amaramente denunciate da tutto lo spettro. L’accordo con Kim Jong-un, quali che siano i motivi, è una di queste volte.
Nell’aprile del 2018, le due Coree hanno sottoscritto una storica dichiarazione, facendo passi in avanti verso un’intesa e una possibile de-nuclearizzazione, da realizzare «secondo i loro termini», senza interferenze straniere che in passato sono state profondamente negative. Da parte di chi non è difficile dirlo a guardare i resoconti storici, solitamente mal riportati dai giornalisti e commentatori, anche se ben noti agli studiosi.
Trump ha sostanzialmente mantenuto la parola. Il suo incontro con Kim Jong-un nella zona demilitarizzata e il simbolico attraversamento del confine potrebbero, con un po’ di buona volontà, essere un passo in avanti nella risoluzione di questo terribile e minaccioso conflitto.
Qualunque sia l’esito, le maggiori potenze esterne, non ultimi gli Stati uniti, manovreranno le cose per perseguire i propri scopi. È così che va il mondo – finché la gente lo permetterà.
HS: Sei anni fa ti chiesi fino a che punto il potere statunitense nel mondo fosse in declino, e se questo potesse limitare la misura in cui gli Stati Uniti, per prendere in prestito una frase dal tuo libro del 1994 World Orders Old and New, «sopprimono lo sviluppo indipendente» delle nazioni straniere. Oggi viviamo in un mondo multipolare? Trump è il colpo di coda dell’impero americano, o siamo lontani da una sua caduta?
NC: Abbiamo vissuto in mondo multipolare per metà secolo. Negli anni Settanta, al di fuori dell’impero russo il mondo non conosceva nessuna potenza militare dominante, ma aveva tre grandi centri di potere economico e sociale: l’Europa a trazione tedesca, il Nord America a guida statunitense e la dinamica regione del Nord-est asiatico, a guida giapponese.
Già allora la capacità degli Stati uniti di «sopprimere lo sviluppo indipendente» era in qualche modo scemata. Le atrocità criminali di Reagan nell’America centrale sono state una catastrofe umana e sociale, ma gli Stati uniti non erano semplicemente più in grado di attuare colpi di stato militare e imporre un regime di terrore a loro scelta, come nel passato. E da allora questa capacità è diminuita ulteriormente, ma è ancora viva e vegeta. Come lo è l’impero americano, anche se ha cambiato forma.
Militarmente, com’è ovvio, gli Stati uniti sono unici al mondo. In termini economici, il Pil statunitense è diminuito come parte dell’economia mondiale dopo il picco del secondo dopoguerra. Ma come ha detto l’economista politico Sean Starrs, nell’epoca della globalizzazione neoliberista la contabilità nazionale non ha più l’importanza che aveva prima. Un modo decisivo per misurare il potere economico di una nazione è guardare alla quota della ricchezza mondiale detenuta dalle multinazionali di stanza nel paese. Da questo punto di vista, come dimostra Starrs, la potenza economica statunitense è impressionante. Le aziende multinazionali statunitensi detengono circa la metà della ricchezza mondiale, e sono virtualmente prime in ogni categoria.
Oltre a ciò, gli Stati uniti controllano efficacemente il sistema finanziario mondiale, cosa che permette loro di imporre devastanti sanzioni omicide, pensate per punire le popolazioni degli stati colpevoli di «ribellioni vittoriose». Il crimine fondamentale di Cuba, come spiegava il Dipartimento di Stato in un documento interno dei primi anni Sessanta, e oggi il crimine dell’Iran.
Quello di impero non è un concetto ben definito, ma in termini di controllo e forza coercitiva gli Stati Uniti sono in vetta alle classifiche globali. Il sistema di dominio globale statunitense probabilmente sopravviverà malgrado la palla da demolizione che Trump fa ondeggiare ovunque, forse in forme diverse, dove avranno più importanza le alleanze con gli stati reazionari e le «democrazie illiberali» che stanno prendendo forma sotto la sua egida. Se l’ambiente che sostiene la società umana organizzata sopravviverà a Trump e al suo Partito repubblicano, be’, questa è un’altra questione.
*Noam Chomsky è professore emerito di linguistica al Massachusetts Institute of Technology. Harrison Samphir è analista, redattore e scrittore di stanza a Ottawa. Sin dal 2014, è redattore capo di Canadian Dimension, una delle riviste politiche più longeve del Canada. I suoi articoli sono apparsi, tra gli altri, su CBC, Huffington Post, rabble, Ricochet, Truthout, e Counterpunch. Si è laureato in relazioni internazionali all’Università del Sussex. Questa intervista è uscita su JacobinMag. La traduzione è di Gaia Benzi.
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