Nella
notte fra il 24 e il 25 luglio 1943, il Gran Consiglio del Fascismo
votò a maggioranza assoluta un ordine del giorno che imponeva a Benito
Mussolini di rimettere i suoi poteri al Re e rinunciare al comando
supremo delle forze armate, con la finalità di ripristinare – sotto
qualche aspetto – lo Statuto Albertino.
L’avventura
bellica dell’Italia, alla quale il Duce aveva opportunisticamente
voluto dare inizio nel giugno del 1940, quando le armate dell’alleato
tedesco si trovavano ormai alle porte di Parigi, si stava via via
rivelando una disfatta. (‘Ho bisogno soltanto di qualche migliaio di morti per potermi sedere da ex-belligerante al tavolo delle trattative‘, aveva detto il 26 maggio 1940).
A
El Alamein, il 23 ottobre 1942 era stata definitivamente persa la
guerra d’Africa. La ritirata dalla Russia – nel gennaio 1943 – era stata
un’ecatombe. Le forze armate degli Alleati angloamericani erano
sbarcate in Sicilia il 10 luglio e i bombardamenti delle città andavano
crescendo di intensità.
Fra
la popolazione, sempre più stremata dalla guerra e dalle ristrettezze
economiche, crescevano il malcontento – manifestato anche con scioperi
nelle fabbriche di Milano e Torino – ed il distacco nei confronti del
Regime. Nonostante il tentativo operato da Mussolini di offrire un
mutamento di immagine del Regime con un rinnovamento della compagine di
governo, l’insoddisfazione nel paese veniva ormai colta persino nelle
gerarchie interne all’apparato fascista. Lo stesso Re, Vittorio Emanuele
III, cominciava a divisare piani per tentare di modificare il corso
degli eventi.
La
mossa preferenziale da compiere appariva, ormai, la liquidazione di
Mussolini. A gennaio Roosevelt e Churchill si erano incontrati a
Casablanca e dal quel vertice avevano fatto intendere che un’eventuale
resa da parte di una paese dell’Asse non sarebbe in alcun modo stata
trattata con capi fascisti.
Come
altre volte era accaduto nel corso della storia degli umani eventi, si
mise all’opera un processo di eterogenesi dei fini. Nell’intento di
promuovere una campagna di galvanizzazione degli italiani, il Duce
chiese ai più noti maggiorenti del partito un impegno a tenere ovunque
comizi propagandistici. Incontrò però, da parte di questi, una seria
opposizione.
Le
critiche dei gerarchi si appuntarono soprattutto sul fatto che
Mussolini aveva, negli ultimi anni, oltremodo accentrato su di sé il
potere. Scattò così l’occasione per chiedere al capo del Regime la
convocazione del Gran Consiglio del Fascismo (il quale non veniva
consultato dal 1939). Mussolini, trovatosi alle strette, il 20 luglio
acconsentì.
A
partire dal 1925 il Regime fascista aveva progressivamente abolito il
regime parlamentare, che aveva retto il regno d’Italia fin dalla sua
costituzione nel 1861 (sulla base dello Statuto del regno di Sardegna).
Inversamente, aveva acquisito sempre maggiore importanza il Gran
Consiglio del Fascismo, istituito il 15 dicembre del 1922.
Il
Gran Consiglio del Fascismo era un organo di rilevanza costituzionale.
Era formato da tutti i principali gerarchi fascisti ed era deputato a
esprimere pareri su numerose questioni di carattere costituzionale –
come le attribuzioni del governo e la composizione delle camere – e
perfino su questioni riguardanti i poteri e le prerogative della Corona.
Ufficialmente, teneva anche una lista di potenziali ‘candidati’ alla
Presidenza del Consiglio (da sottoporre al Sovrano).
Era
stata la Legge n. 2693 del 9 dicembre 1928 a fissare le attribuzioni
del Gran Consiglio, erigendolo a ‘organo supremo’ e chiamandolo al
coordinamento delle attività del Regime. Le adunanze venivano convocate e
presiedute dal Capo del governo.
La
‘costituzionalizzazione’ del supremo organo, con il suo bagaglio di
attribuzioni ‘invasive’ del campo monarchico – in particolare nella
successione al trono e nella nomina del capo dell’esecutivo – venne
vista come lo spostamento, a favore del Duce, dell’equilibrio di forze
all’interno della diarchia ‘Capo del Fascismo – Casa Regnante’.
Tuttavia,
restava aperta la possibilità che il Gran Consiglio si ponesse in
posizione antagonistica nei confronti del governo. La sconsolante
condizione in cui Mussolini aveva messo il paese sortì l’effetto di
rendere concreta quella possibilità e, parallelamente, di provocare –
dopo un quindicennio di anonimato – la risoluzione del Re di dare il
benservito al Duce.
Dino
Grandi, fra i fondatori del Fascismo e già ministro di Mussolini, aveva
predisposto un ordine del giorno mirato al ‘ritorno allo Statuto
Albertino’ – con la riappropriazione, da parte degli organi
costituzionali, delle funzioni loro destinate – e al conferimento al Re
del comando supremo delle Forze armate. L’ordine del giorno era
circolato fra i gerarchi fascisti nei giorni precedenti alla
convocazione del supremo consesso. Mussolini stesso, il giorno 22, era
stato messo al corrente del contenuto.
Alle
17,15 del 24 luglio Mussolini entrò nella ‘Sala del pappagallo’ di
Palazzo Venezia. Il Gran Consiglio era al completo dei suoi 28 membri.
Come di rito, fu lui ad aprire la riunione. Espose ai presenti una lunga
relazione. In
sostanza, addossò il deludente andamento delle operazioni militari ai
generali dello Stato Maggiore e sottolineò la necessità di proseguire la
guerra al fianco della Germania. Si dichiarò disponibile a rinnovare –
con ‘un giro di vite’ – i vertici militari incaricati di condurre la
guerra e la stessa struttura di governo.
Dopo
vari interventi e la presentazione di altri ordini del giorno –
peraltro accomunati dal riconoscimento della necessità di cambiamenti
nel governo e dalla restituzione al Monarca della gestione delle forze
militari, fu il turno di Dino Grandi. Questi, nel pronunciare l’attacco
più duro che in vent’anni di regime si fosse mai udito, ribadì la
necessità che fosse Vittorio Emanuele III ad assumere l’iniziativa
politica ed il comando delle forze armate. Pretese, con la frase ‘si esce solo dopo che il mio ordine del giorno sarà stato messo ai voti‘, la prosecuzione della seduta anche dopo un tentativo di Mussolini di rinviare la stessa al giorno dopo.
L’ordine
del giorno Grandi ebbe la maggioranza assoluta: 19 voti a favore – fra
cui quello del genero di Mussolini, Galeazzo Ciano – uno astenuto, otto
contrari. Alle 2,40 il Duce ‘sfiduciato’ chiuse la seduta. Pare che
abbia detto: ‘con questo voto avete provocato la crisi del regime‘.
I
resoconti della drammatica riunione narrano di un’autodifesa – tutto
sommato – blanda e rassegnata da parte del Duce. E’ stato ipotizzato che
tale contegno rivelasse il fine di un discarico, circa le
responsabilità della resa al nemico, in capo ai firmatari dell’ordine
del giorno redatto da Grandi.
Altre
ipotesi contemplano la possibilità che il Capo del Fascismo fosse
fiducioso di riuscire a trovare un accomodamento con il Sovrano (avuto
riguardo, in particolare, alla remissione a quest’ultimo della gestione
delle Forze armate deliberata dal Gran Consiglio).
Egli non si aspettava di certo che, il giorno seguente, sarebbe stato arrestato.
Come
lo stesso Mussolini declamò da Radio Monaco qualche giorno dopo essere
stato liberato da un commando tedesco sul Gran Sasso (operazione datata
12 settembre del ’43), il colloquio avuto con Vittorio Emanuele III a
Villa Savoia era durato meno di venti minuti. Il Re, che della notte
precedente sapeva già tutto, gli aveva aspramente rinfacciato che il
Paese andava a rotoli e gli aveva comunicato di averlo rimpiazzato al
vertice del governo. Il nuovo Presidente del Consiglio era il maresciallo Pietro Badoglio.
Fatto
salire su un’ambulanza da due carabinieri mentre si trovava ancora
all’interno della residenza reale – con grave disdoro della Regina Elena
– il destituito Duce venne tradotto in una caserma romana. Cinque ore
dopo, il vincitore di Addis Abeba pronunciò al giornale radio la famosa
frase sibillina: ‘la guerra continua‘. (Poi, l’otto di
settembre sarebbe stata annunciata la firma dell’armistizio con le Forze
alleate a cui avrebbe fatto seguito la ‘fuga’ a Brindisi della famiglia
reale).
Nonostante
Benito Mussolini fosse stato formalmente insediato a reggere la
Repubblica di Salò, la fase discendente della sua parabola proseguiva.
Egli stesso, nella sua corrispondenza con Claretta Petacci dalla sua
‘prigione’ sul Lago di Garda, giunse a definirsi ‘un fantoccio
grottesco’. (Non poteva prendere alcuna decisione senza il benestare dei
nazisti, che – fra l’altro – lo controllavano a vista).
Dopo
un processo farsesco, dei 19 dissidenti che la notte del 24 luglio
avevano appoggiato l’ordine del giorno di Dino Grandi, 6 vennero
fucilati il giorno 11 gennaio del ’44 a Verona. (I restanti non furono
trovati, mentre Tullio Cianetti, che aveva ritrattato il suo voto la
mattina del 25 luglio, fu risparmiato). Fra di essi vi fu anche Galeazzo
Ciano, il marito di Edda, la figlia primogenita di Mussolini. Si trattò
di un episodio di vendetta tanto veemente quanto inutile. La Repubblica
di Salò si distinse soltanto per la sua cruenza e per il suo spirito
repressivo.
Il
25 aprile del ’45 presso l’Arcivescovado di Milano, alla presenza del
Cardinale Schuster, Mussolini ricevette da parte di una delegazione del
Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia la richiesta di resa
incondizionata. Disse ai presenti che si sarebbe recato a parlarne con i
tedeschi e avrebbe fatto ritorno dopo un’ora. Invece lasciò Milano.
Il
Duce venne catturato il giorno seguente – da una divisione Partigiana –
mentre tentava di risalire il Lago di Como approfittando di una colonna
di automezzi tedesca diretta verso il confine. Giustiziato a Giulino di
Mezzegra, il cadavere venne esibito – insieme a quelli di Claretta
Petacci e di vari gerarchi della Repubblica sociale – il 28 aprile in
Piazzale Loreto a Milano.
Il
25 e il 26 luglio del 1943 la gente aveva manifestato la caduta del
Regime fascista con scene di giubilo. Ma purtroppo, come detto, il corso
degli eventi che avrebbe portato alla pace e alla fondazione dello
stato democratico dovette essere ancora lungo e punteggiato di tragedie
(con la ferale occupazione nazista, il sanguinario Regime
collaborazionista di Salò, la guerra di liberazione).
Le
stesse dalle quali potè, tuttavia, emergere una coscienza civile e
politica di massa. Qualcosa della quale oggi, pur effettuati i doverosi
distinguo, si sente nuovamente la mancanza.
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