Blade Runner, uno dei film distopici più celebri della storia del cinema, uscì nelle sale il 25 giugno del 1982, ma ai suoi spettatori raccontava una realtà diversa, un ipotetico 2019, che oggi è arrivato, e non è esattamente come immaginato dal regista Ridley Scott. Eppure – in fondo – le sue intuizioni colsero dinamiche importanti, oggi in parte insinuatesi nel nostro vissuto sociale.
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micromega Carlo Scognamiglio
La sceneggiatura di Blade Runner prende le mosse da un bel racconto di Philip K. Dick (Ma gli androidi sognano pecore elettriche?), ma se ne distanzia in modo significativo, e apre un mondo di significati tutto suo, che resta estraneo al pur geniale testo di Dick.
Sono molti i riferimenti espliciti a questioni filosofiche, e persino teologiche, nella pellicola di Scott. L’impressione è quasi che si giochi, che si civetti con i grandi temi che hanno attanagliato la storia del pensiero occidentale. “Penso, pertanto sono”, assicura una replicante citando Cartesio, al fine di sottolineare la sua indistinguibilità da qualunque altro essere umano. Il dialogo, conclusosi con un terribile delitto, tra il replicante Roy e il proprio artefice, evoca chiaramente un conflitto edipico. “Padre” e “figlio”, sono i termini utilizzati tra i due dialoganti, in un’ambivalenza affettiva dal chiaro fondo psicoanalitico. L’orizzonte dei replicanti, paragonati dal loro artefice a candele capaci di brillare il doppio dei comuni mortali, con la loro forza e intelligenza, ha suggerito ad alcuni interpreti l’idea del passaggio nietzschiano da uomo a oltreuomo, confermato da quell’attaccamento alla vita ribadito dal replicante Roy nel suo monologo finale. In quella scena, inoltre, quella straordinaria creatura, capace di dimostrare anche una forte empatia, forse superiore persino a quella umana, vive i suoi ultimi istanti con un chiodo infilzato in una mano, e una colomba bianca nell’altra, con un evidente riferimento cristologico.
Inoltre il soggetto stesso del film, l’idea del prodotto tecnologicamente avanzato sfuggito al controllo umano, è pregno di riferimenti e richiami letterari: da Frankenstein in poi, il tema è stato ripetutamente attraversato dagli scrittori.
Eppure, si tratta probabilmente di diversivi filosofici. Sono solo citazioni, evocazioni. Contribuiscono certamente a determinare la percezione di spessore del film, ma la sostanza problematica va cercata altrove.
Sono altri i passaggi culturali più interessanti del film, e sono
più facili, oggi, da individuare, alla luce della nostra situazione
sociale. Il primo aspetto va cercato nella figura chiave dell’intera
narrazione: il replicante. Nella Los Angeles distopica immaginata nel
1982, è incredibilmente debole la presenza dei computer. Sappiamo dal
film che la tecnologia ha raggiunto stadi di sviluppo raffinatissimi,
perché i replicanti sono stati creati per esplorare zone
dell’extra-mondo troppo pericolose per l’uomo, e per le quali occorrono
capacità anche d’adattamento che i semplici mortali non posseggono.
Eppure, a parte qualche automobile volante, dei videocitofoni, degli
animali artificiali, tanti schermi pubblicitari e poco altro, non
abbiamo mai la sensazione di trovarci di fronte a un vertiginoso
sviluppo tecnologico. Il primo gioco di prestigio è questo, e deriva da
Dick, il quale non amava la letteratura fantascientifica capace di
giocare sulla previsione dello sviluppo della robotica. Dick suggerisce
dunque l’idea del replicante, che non è fatto di metallo, o di plastica,
ma è il frutto di un accelerato sviluppo delle biotecnologie. Qui c’è
una straordinaria intuizione. Il libro di Dick è del 1968, e non si
lascia ingannare dalla parte più visibile e più vistosa dei progressi
della tecnica. Questo testo annuncia che il vero passaggio storico è
quello nello sviluppo della medicina, e ancor di più nell’ingegneria
genetica. Uno sviluppo che si allontana completamente dalla dimensione
terapeutica, ma si consegna nelle mani della produttività. Viene dunque
prospettata la generazione di un nuovo tipo di uomo, organicamente del
tutto simile all’originale, ma più forte, con un’intelligenza superiore,
capace anche di provare sentimenti (senza i quali sarebbe privo di
mescolarsi tra gli altri uomini o di adattarsi).
Più umano dell’umano, è lo slogan dell’azienda produttrice
di replicanti. Dick, per la verità, immaginava i replicanti come privi
di empatia, ma Scott cerca un taglio proprio. I replicanti possono
essere anche più empatici degli umani. Ed è proprio questo gioco
dell’indistinguibilità tra umano e non umano che rende il film prezioso.
I replicanti, come prospettiva futura della tecnologia biomedica
prestata agli interessi del capitale, sono considerati sostanzialmente
come oggetti, che funzionano o non funzionano, che hanno utilità o meno.
E quando non servono più, non vengono uccisi o eliminati, essi vengono
“ritirati”. I replicanti sono come umani, ma sono completamente
deumanizzati, perché è questa deumanizzazione che li rende funzionali al
sistema produttivo. Dov’è il gioco del regista? Proviamo a cercare gli
umani nel film. La popolazione di Los Angeles è un interessante melting pot,
prevalentemente di origine asiatica, dove ogni comunicazione lambisce
l’impossibilità. Persino operazioni elementari, come ordinare un piatto
di spaghetti, diventano quasi impossibili. Il cupo mondo degli umani è
una buia babele completamente governata dalla comunicazione
pubblicitaria, dove la dimensione dell’intrattenimento e del commercio
sono l’unica forma di esistenza. Su tutto questo troneggia la piramide
(che è simbolo di oppressione schiavistica) dell’azienda Tyrell,
evidente emblema del grande capitale. Non sappiamo esattamente quanto
quel colosso di dominio sia gestito da umani o non umani, ma l’uomo che
ha creato i replicanti vive completamente isolato in una stanza
apparentemente irraggiungibile. Così come il suo collaboratore, il
dottor Sebastian, malato di una precoce forma di decrepitezza, abita un
oscuro palazzo in piena solitudine, circondato da tetri
giocattoli-automi. L’umanità, dunque, sembra essere ridotta a
palcoscenico di solitudine e incomunicabilità.
Non ho dimenticato, tra gli umani, di citare il protagonista del film, Deckard, il cacciatore di replicanti, perché nell’idea originaria del film, riproposta al pubblico da Ridley Scott alcuni anni dopo, scopriamo un finale che nel 1982 era stato occultato. In questo finale, Deckard intuisce di essere anche lui un replicante, rompendo definitivamente ogni possibilità di distinguere i replicanti dagli esseri umani. Anzi, semmai i replicanti appaiono più capaci di provare sentimenti e pietà, di quanto non lo siano gli umani. I veri soggetti, dunque sono i replicanti, gli umani restano sullo sfondo. Gli umani finiscono. E allora i replicanti sono la vera idea di umanità del futuro, che distopicamente è tracciata dal film.
Il grande capitale arriverà a tal punto a forzare il corpo e la coscienza dei singoli, da trasformarli in macchine da produzione, da considerarli come cose, pronte a essere “ritirate” quando inutili o dannose. Gli uomini ridotti completamente a merce. E lo capiamo bene quando Rachel, la replicante che per esperimento rappresenta una tecnologia più avanzata, perché a differenza degli altri non è programmata per vivere solo quattro anni, conclude la sua videochiamata con Deckard con una fase lapidaria: “Io non sono nel business, io sono il business”. I replicanti, gli uomini-automi chiamati ad eseguire, sono la massima espressione di quello che Vanni Codeluppi definisce biocapitalismo, che è la frontiera più complessa del dominio di classe.
Sorge spontanea una domanda: se questi replicanti sono come gli uomini, o forse anche migliori di essi, e se si ribellano al Capitale stesso, uccidendo Tyrell e rifiutandosi di “vivere come schiavi”, per citare il replicante Roy, questo film sembrerebbe annunciare una strada di liberazione. In realtà non è esattamente così, il quadro è più cupo. Nell’ultima scena del film, Deckard trova una figurina di carta rappresentante un unicorno, lasciata lì dal poliziotto Gaff, che segue il cacciatore di replicanti a ogni passo. Con quel ritrovamento intuisce in un attimo che i suoi sogni (capiamo dal film che l’unicorno è un suo sogno ricorrente) sono stati impiantati, e Gaff li conosce. Allora gli è chiaro in un solo momento che la sua fuga con Rachel è consentita proprio dalla polizia, è controllata, è voluta. I nuovi replicanti ritirano i vecchi (Rachel aveva eliminato uno dei replicanti per salvare Deckard) e inizia una nuova fase, con replicanti di tipo nuovo, capaci anche di dormire e di sognare, e senza obsolescenza programmata. Scott intuisce dunque la vocazione ossessiva di controllo del grande capitale, alla quale siamo davvero molto vicini.
L’intuizione più bella di Scott, però, è proprio nello spiegarci in cosa i replicanti si distinguono dagli umani, e come – dunque – viene esercitato il controllo. Il problema non è l’empatia, come nel romanzo di Dick, bensì la memoria. Essendo stati generati già adulti, i replicanti non hanno una memoria naturale, e quindi neanche un’identità, perché evidentemente l’identità è un costrutto fondato sulla nostra percezione autobiografica. Senza memoria, allora, i replicanti si aggrappano a delle foto che li agganciano a ricordi non veri, ma derivati dalla vita di qualcun altro. Qui c’è una fortissima intuizione, relativa a come i mezzi di comunicazione di massa, a cominciare dal cinema fino alle serie TV o allo show business nella sua globalità, inserisce nella nostra coscienza una sequenza impressionante di vissuti non nostri, che però producono degli effetti e costruiscono delle identità, alle quali siamo poi fortemente legati. Il risultato? Come i replicanti, tendiamo a vivere in una dimensione priva di memoria, priva di storia, priva di dilatazione temporale. Siamo sempre schiacciati sul presente.
Oltre alla profonda e complessa figura del replicante, c’è un altro aspetto di Blade Runner
che va osservato con attenzione. Il sistematico e ossessivo richiamo
agli occhi e al “vedere”. Un grande occhio apre la scena del film. Gli
occhi dei replicanti ne rivelano la natura. L’atto di ribellione degli
androidi nei confronti del loro artefice si compie cavando gli occhi di
quest’ultimo. Le fotografie sono l’elemento chiave del racconto, nelle
quali si cerca la propria identità, la propria storia come costrutto. Il
vedere come atto esaustivo in questo straordinario dipinto di luci e
ombre, e di colori accesi, si fa paradossale quando Deckard insegue una
replicante in una assurda corsa per le strade di Los Angeles. La preda,
prima di fuggire, indossa un inutile soprabito completamente
trasparente, e si infrange senza motivo in una serie di vetrine: tutto è
trasparente, tutto si vede, eppure i passanti – gli umani – appaiono
indifferenti, così come l’occhio che inizialmente riflette una Los
Angeles in fiamme, è privo di reazioni emotive. Un vedere che non
osserva. Ciononostante, il regista insiste ossessivamente con questi
megaschermi pubblicitari che ammiccano allo spettatore sollecitandone
continuamente lo sguardo. C’è una grande intuizione in questo predominio
degli stimoli visivi. Oggi gli schermi sono davanti a noi, ma anche
nelle nostre mani, e li consultiamo continuamente, molto più di quanto
siamo disposti ad ammettere. Non è un caso se Instagram è il
più diffuso social network tra i giovani. L’ossessiva presenza delle
immagini diventa il nuovo sistema di connessione logico-emotiva. Questo è
esattamente il biocapitalismo. Non dobbiamo credere infatti che gli smartphone, ad esempio, siano solo degli oggetti da noi posseduti e utilizzati. Solo un processo di mistificazione può negare che gli smartphone
sono ormai una protesi cognitivo-percettiva dell’individuo, che quasi
non riesce a separarsene. Sono tecnologie che ci rendono più abili in
molte azioni, come orientarci in un luogo sconosciuto. Ma che di fatto
esercitano un costante controllo sul nostro operato. E il controllo è
neurologico. Agisce sul funzionamento del sistema nervoso.
Come ha messo ben in evidenza il filosofo Roberto Finelli, oggi
tutti i lavoratori “immateriali”, ma io aggiungerei tutti gli
utilizzatori di dispositivi digitali, sono connessi a una rete di
operazioni predeterminata e gestita da soggetti privati, all’interno
della quale nell’illusione dell’uso personale, individuale e autonomo,
si è costretti a sottoporsi a una serie sistematica di azioni
telematiche eterodirette ed etero-disposte. In tal modo per la maggior
parte della popolazione la mente, al posto del corpo – che era
fortemente eterodiretto nel sistema tayloristico – diventa la parte
umana più esposta all’eteronomia, ed ecco come la valorizzazione della
soggettività è solo estrinseca, mentre si favorisce una omogeneità delle
prospettive soggettive finalizzata al controllo e alla funzionalità,
perdendo di profondità e di memoria.
È vero però ciò che afferma Finelli sull’iper-moderno: siamo di
fronte a «un superficializzarsi dell’esperire, un mutamento cioè
storico-antropologico tendenzialmente radicale, secondo cui i contenuti
della vita, sia individuale che collettiva, del mondo nel suo complesso,
appaiono e vengono percepiti necessariamente come una superficie
frammentata, fatta di momenti ed eventi fondamentalmente slegati fra
loro, proprio perché non tenuti insieme da una struttura di profondità»[1].
Nella prospettiva di un’emancipazione futura, Finelli immagina una
sorta di riconquista della corporeità, o meglio, della relazione
psiche-corpo, destituita di significatività dall’iper-moderno, che ha
invece esaltato la relazione mente-mente, secondo una socialità
estrinseca e inconsistente, una «mente solo mimetica e incapace di
individuazione»
[1] Roberto Finelli, "Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel", Jaca Book, p. 365.
(25 luglio 2019)
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