domenica 14 luglio 2019

Libri. L’egemonia conformista afferra il nuovo.

Postdemocrazia, finanziarizzazione, distanziamento tra élite e corpo sociale, conformismo morale, sacralizzazione della disuguaglianza. 

Il nuovo saggio della politologa e teorica del femminismo Nancy Fraser (“Il vecchio muore e il nuovo non può nascere”, Ombre corte) ci aiuta a comprendere il cuore di tenebra della globalizzazione liberista, indicandoci come costruire un blocco contro-egemonico per superare l’attuale crisi.



micromega Pierfranco Pellizzetti

«Vogliamo creare una sorta di Lourdes
linguistica, dove il male e la sventura
svaniscano con un tuffo nelle acque
dell’eufemismo»[1].
Robert Hughes

«La battaglia finale per il cambiamento
sociale verrà decisa nella testa delle persone»[2].
Manuel Castells

Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma/Bari 2002
Nancy Fraser, Il vecchio muore e il nuovo non può nascere, Ombre Corte, Verona 2019


 
Le conseguenze di QUESTA globalizzazione

Una quindicina di anni fa - sulla scia di Zygmunt Bauman - l’antropologo Jonathan Friedman, allora in forza all’università svedese di Lund, segnalava l’avvento in corso di «un nuovo totalitarismo non imposto da dittatori pazzi, ma prodotto da un adattamento volontario alle nuove dimensioni sociali del potere»[3].
Sentenza vagamente sibillina, che adesso comprendiamo meglio innanzi agli esiti ormai compiuti di quanto allora ci si limitava a intuire.
Come ora ci aiuta a fare dal suo osservatorio americano la politologa e teorica del femminismo Nancy Fraser nel suo recentissimo instant book editato da Ombre Corte.
Infatti al tempo di “Modernità liquida” si parlava di «un radicale cambiamento dell’organizzazione della coabitazione umana»[4]; di cui si percepivano gli aspetti più eclatanti nella manomissione (liquefazione) della struttura portante della Prima Modernità (solida) – lo Stato-Nazione – e nella riformulazione/rinegoziazione della rete di obblighi reciproci chiamata “società”: il processo di “individualizzazione”, che «consiste nel trasformare l’identità umana da una cosa data in un compito e nell’accollare ai singoli attori la responsabilità di assolvere tale compito, […] realizzare un’autonomia de iure (a prescindere che sia stata conseguita o meno anche un’autonomia de facto[5].
Due rotture epocali quasi certamente insanabili, che poi si vedrà quale scardinamento hanno prodotto della nozione di cittadino; con tutta una serie annessa e connessa di lesioni umane e sociali, di cui ci saremmo resi conto solo in un momento successivo: la precarizzazione denominata “flessibilizzazione” che diffonde incertezza e devastazioni psicologiche a livello di massa, di identità e autostima («sperimentare il tempo ‘scollegato’ mette a rischio la capacità delle persone di trasformare la propria personalità in narrazioni continuate»[6], ha scritto Richard Sennett); la sottomissione dello Stato alla potenza incontrastata dell’Economico vanifica i portati inclusivi dell’esperimento democratico, ridotto ai vuoti rituali della Postdemocrazia. Infatti «per le multinazionali (vale a dire le società globali con interessi locali frammentati e mutevoli), il ‘mondo ideale’ è un mondo ‘privo di Stati, o quanto meno un mondo di Stati piccoli’»[7]. Tanto da suscitare il commento sarcastico di Eric Hobsbawm: « a meno che non abbia petrolio, quanto più uno Stato è piccolo, tanto più è debole, tanto meno denaro occorre per comprarne il governo»[8].

Perché quanto è stato definito “nuova fase” non è un ennesimo, storico, ritorno alle interdipendenze spaziali. Si tratta di un fenomeno di finanziarizzazione a livello planetario. Tanto che forse si potrebbe mettere in discussione l’attuale ricorso definitorio alla categoria “Capitalismo”, ovvero la ricchezza che si riproduce tramite l’investimento, quando – piuttosto – assistiamo al ritorno a forme di accumulazione per accaparramento, realizzate attraverso il presidio e relativo taglieggiamento dei varchi (gatekeeping) attraverso i quali scorrono i flussi materiali delle merci e quelli virtuali dei simboli finanziari: la plutocrazia. «La globalizzazione, intesa come dispersione dell’accumulazione di capitale, lo spostamento degli investimenti in Asia orientale negli anni ’70 e ’80 e il costituirsi di una nuova economia asiatica come un nuovo terzo polo dell’economia mondiale, è stata accompagnata da una serie di crisi in ‘Occidente’. Tra queste, il declino dello stato sociale e una più profonda decadenza del modernismo, ossia di una perdita di fiducia nel futuro»[9].

Di conseguenza, per quanto riguarda la condizione delle persone nel nuovo assetto egemonico, assistiamo a un contestuale distanziamento tra élite economiche/politiche e il resto del corpo sociale, in cui le prime si dissociano dal resto del popolo rompendo le precedenti solidarietà welfariane. Se il modo di produrre globalizzato rende la ricchezza apolide e migratoria, sradicata (rootsloose), le plutocrazie che ne fanno incetta assumeranno una conseguente condizione nomadistica.

Evoluzione che – ad esempio – nel caso italiano si è vistosamente palesata nella più importante azienda privata nazionale – la FIAT, dalle salde radici storiche torinesi – nella sua trasformazione in FCA, multinazionale senza fissa dimora (Amsterdam? Londra? Detroit?) sempre mantenendo il proprio stockholder nel casato dei fondatori.

La costruzione del senso comune

Un anno prima del testo in esame, Bauman aveva dato ulteriore prova della sua notevole capacità di tratteggiare con poche pennellate un fenomeno complesso scrivendo che «la creazione della ricchezza sta per emanciparsi finalmente dalle sue eterne connessioni – vincolanti e irritanti – con la produzione, l’elaborazione dei materiali, la creazione dei posti di lavoro, la direzione di altre persone. I vecchi ricchi avevano bisogno dei poveri per diventare e restare ricchi; e tale dipendenza mitigava sempre i conflitti di interesse e faceva fare qualche sforzo, per quanto tenue, per prendersi cura degli altri. I nuovi ricchi non hanno più bisogno dei poveri»[10].

Una situazione obiettivamente indicibile secondo i criteri dominanti del politicamente corretto al tempo dell’ormai declinante egemonia liberal-socialista newdealistica e welfariana, a partire dagli anni ’80 sempre più sotto minaccia di quella nuova, liberista; la quarantennale vague ideologica del thatcherismo-reaganismo, fino agli opportunismi della Terza Via. Dunque uno scontro di egemonie che – per dirla con il nostro amico Jonathan Friedman – ha favorito «la nascita di campi sociali saturi di politicamente corretto», la Lourdes linguistica di Robert Hughes quale strumento di controllo sociale. Il “pensiero veloce dei media” – come lo chiama Pierre Bourdieu[11] - che riorganizza la realtà in modo da eliminare ogni riflessione critica.

Nel nostro caso si conferma che «il politicamente corretto appare in situazioni di crisi egemonica in cui vecchie e nuove élite competono per crearne di nuove o per ristabilire le vecchie»[12]. E la posta in gioco è la determinazione di un senso comune a proprio favore, sostituendo al ragionamento una comunicazione identitaria che accredita in condizioni psicologiche precarie modelli attraverso i tre passaggi canonici: denotare, classificare e distanziare, nella sostituzione della discussione razionale con un regime di conformismo morale (il valore sociale di qualsivoglia affermazione diventa prevalente sul contenuto semantico: essere dalla parte che il pensiero pensabile del mainstream reputa giusta, fare la cosa giusta, diventano strumenti di controllo intellettuale). Le operazione di colonizzazione del pensiero che abbiamo visto all’opera durante l’ultimo quarantennio, nelle manovre argomentative panglossiane (“viviamo nel migliore dei mondi possibili”) di occultamento del cuore di tenebra della finanziarizzazione del mondo: l’assiomatica dell’avidità predatrice che arruola nuovi adepti alla sacralizzazione della disuguaglianza. E che li ritrovi dove meno te li aspetti: dalle pulsioni entriste nel country club del privilegio che ha sterilizzato nel carrierismo individuale e nella cooptazione elitaria l’alternativa femminista[13] (Nancy Fraser dichiara: «rompiamo con l’1%, non vogliamo quel femminismo»[14]) per arrivare all’imprevista corruzione del tradizionale spirito da civil servant d’oltralpe, del funzionario pubblico al servizio dell’interesse generale, alternativo al cinismo dell’arrampicatore sociale modello “the wolf of Wall Street”. Un’involuzione a dir poco liquidatoria.

Commenta amaramente il giornalista parigino Laurent Joffrin: «l’obiettivo del nuovo diplomatico dell’Ena [École Nationale d’Administration], non è più di esercitare importanti posizioni di responsabilità in seno allo Stato o a una delle sue dipendenze, ma è diventare dirigente in uno dei gruppi quotati in borsa e mondializzato. Il suo linguaggio non è più il francese secco ed elegante delle note amministrative […] ma la recita in inglese del catechismo universale del denaro»[15].

I frutti avvelenati di una colonizzazione del senso comune all’insegna degli stereotipi conformisti della tarda egemonia anglo-americana: mano invisibile e darwinismo sociale viatico di un’economia-casinò.

Il Populismo come fantoccio polemico

Dunque, le profonde turbative, con relative inversioni, dell’egemonia nel sistema mondiale sono l’espressione del decentramento nell’accumulazione della ricchezza sotto forma di globalizzazione del capitale. Con la conseguente polarizzazione di classe, in cui i gruppi dominanti nel nuovo contesto mondializzato (in cui spiccano – secondo l’economista Robert Reich – i ceti emergenti degli analisti simbolici e degli intermediari strategici[16]) si riconoscono in un cosmopolitismo che non ha nulla a che vedere con la xenofilia umanitaria, ma si identifica nei flussi senza frontiere del denaro e della finanza.

Da qui l’amara considerazione di Saskia Sassen: «si combinano spinte alla creazione di spazi economici senza frontiere e spinte all’intensificazione di controlli alle frontiere per tenere fuori immigrati e rifugiati»[17].

A fronte di tutto ciò, le crescenti masse dei penalizzati hanno iniziato da poco meno di un decennio a prendere atto di questa defezione, che ha tradito le promesse passate e – in primo luogo – le logiche della rappresentanza democratica. Potremmo dire dal 2011, l’anno degli indignati e dei quartieri di protesta allestiti in oltre 850 città del cosiddetto “mondo avanzato”. La contestazione del saccheggio operato ai danni dell’area centrale della società, ormai evidenziato dall’esplosione delle bolle speculative, culminate nel crollo del muro di Wall Street degli anni precedenti. Poi il timido emergere di formazioni e movimenti politici organici a tale protesta.

Torna così in campo quel personaggio dai confini sfuggenti denominato “Populismo”; vale a dire il soggetto sociale che storicamente polemizza contro le fazioni dominanti nella società. Attualmente, l’avversario delle politiche anti-popolari messe in campo dalla plutocrazia dominante; che le cosiddette “organizzazioni denotative” (i media) preposte alla costruzione della realtà nel senso politicamente corretto (leggi: funzionale alla giustificazione dell’ordine vigente e dei relativi rapporti di forza) si fanno carico di relegare nella collocazione denigratoria dell’irresponsabilità; la tendenza propria delle “classi pericolose” a trascurare il sacro pricipio delle compatibilità. Nella ricorrente enfasi data all’importanza del linguaggio come strumento politico; inteso nel senso di atto denotativo che crea la realtà piuttosto che riferirsi ad essa.

Il Populismo come minaccia esorcizzata attraverso classificazioni infamanti quanto prive di qualsivoglia attinenza con i fatti, per cui si pretenderebbe di collocare nello stesso bigoncio critici dell’ingiustizia finanziarizzata e spudorati demagoghi, intenti a strumentalizzare per propri scopi di potere il risentimento popolare. Con abbinamenti assolutamente grotteschi: Bernie Sanders e Donald Trump, l’alcaldessa di Barcellona anti-sfratti Ada Colau e un qualche bieco oscurantista del Patto di Vinegrad.

Il Beppe Grillo dei Vaffa e – magari – Pippo Civati!

Un’etichettatura palesemente finalizzata all’intorbidamento delle acque.

L’agenda contro-egemonica di Nancy Fraser


«Solo unendo una politica di distribuzione fortemente egualitaria a una politica del riconoscimento sostanzialmente inclusiva e di classe, possiamo costruire un blocco contro-egemonico capace di portarci oltre l’attuale crisi in un mondo migliore»[18], scrive la Fraser nel saggio che introduce il suo pamphlet.

I punti fermi di un action-set per la fuoriuscita dall’epicentro delle contraddizioni sistemiche globali partendo proprio dal centro del sistema-mondo nell’attuale fase storica a centralità nord-americana. Quegli Stati Uniti che evidenziano lo smarrimento della propria capacità irradiante novecentesca; come ne è lampante dimostrazione la lunga serie di leader inadeguati ascesi alla sua guida, culminata con l’elezione di quel Donald Trump che con le sue politiche protezionistiche e di chiusura, dal chiaro significato elettorale, accantona la strategia egemonica del suo Paese per tutto il XX secolo: a partire da Woodrow Wilson, il disegno di subentrare alla stanca dittatura europea attraverso l’ascesa di un sistema mondiale incernierato nell’interscambio e nei consumi. Il sogno pacifico di «un grande impero con i contorni di un grande emporio»[19], a cui ora si intendono sostituire gli incubi ossessivi della chiusura e della minaccia bellicista.

Nella disgregazione dell’ordine sociale stelle-e-strisce, nel crollo di credibilità delle classi politiche, si è verificata la devastazione degli standard di vita della classe operaia e della classe media, a fronte del trasferimento verso l’alto di ricchezza e valore; in particolare verso l’1% delle classi padronali. Una situazione largamente strumentalizzata dall’outsider Trump su una piattaforma che la Fraser definisce “neoliberismo reazionario”, cui maldestramente si contrapponeva con la Hillary Clinton un sedicente “neoliberismo progressista”, in effetti puro ‘politicamente corretto’ da establishment; dopo che sul versante democratico gli stratagemmi e le leve di potere del partito avevano sgombrato il campo alla ex first lady tagliando fuori la proposta populista del socialista democratico Bernie Sanders. L’unico in grado di ricreare un’aggregazione sociale che comprendesse i declinanti ceti operai bianchi della Rust Belt, poi corteggiati con successo dalla demagogia trumpiana, che propugnava tatticamente un messaggio di populismo reazionario (la critica del capitalismo predatorio di Wall Street e Silicon Valley mischiata a razzismo, omofobia e xenofobia). Presidenza che ora la Fraser valuta in crollo di credibilità proprio perché il suo tradimento di tale messaggio appare ormai in tutta evidenza, smascherando la promessa di un nuovo blocco-contro-egemonico come semplice specchietto per allodole: «le politiche del presidente Trump sono completamente diverse dalle promesse elettorali del candidato Trump. Non solo il suo populismo economico è scomparso, ma la sua ricerca di capri espiatori è diventata ancora più feroce. Quello che i suoi sostenitori hanno votato, insomma, non è quello che hanno ottenuto. L’esito non è un populismo reazionario ma un neoliberismo iper-reazionario»[20]. Per di più «caotico».

Un che fare – quello della Fraser – che punta il dito sulla contraddizione irrisolta al tempo che stiamo vivendo: siamo nel bel mezzo dell’esaurimento di una fase storica, ma in questa lunga notte ancora non si intravvede una qualche luce dell’alba di un nuovo inizio. «Manca una visione programmatica e una prospettiva organizzativa. È come se fossimo passati dalla critica del partito leninista allo spontaneismo neo-anarchico»[21]. Insomma, ad oggi non c’è traccia di un pensiero della transizione.

Specie in una Sinistra americana che si incarta regolarmente nella contrapposizione programmatica suicida tra classe e razza; in una Sinistra mondiale che ricade nel solito vizio – contratto con la Terza Via – di scimmiottare la Destra, inseguendo l’equivoco sovranista e dimenticando la propria congenita natura internazionalista: «il nostro è un mondo che non può e non deve tornare a un sistema di economie nazionali tra loro distinte. La strada sarebbe quella dei protezionismi concorrenti, della militarizzazione e della guerra mondiale»[22].

Quasi un grido di dolore intellettuale, da cui la Fraser fuoriesce individuando alcuni preliminari su cui lavorare. A partire dal problema della riflessione sulle composizioni sociali e l’individuazione delle possibili convergenze di gruppi e sensibilità diverse per una comune riappropriazione del futuro.

In questa logica, squisitamente laica e disincantata, il Populismo alla Ernesto Laclau «non è l’ultima parola, non è una sorta di ideale da raggiungere, ma piuttosto una fase politica transitoria, quasi come quello che i trotskisti chiamavano ‘programma di transizione’»[23].

Appurato che l’obbiettivo finale confessato dalla Fraser è il Socialismo Democratico. E qui ci sarebbe da discutere sul primo termine del binomio; non certo da dividerci, visto che il Socialismo (inteso come “critica dei rapporti di produzione”) sembra un orizzonte ormai anacronistico in un sistema-mondo occidentale ormai largamente de-industrializzato.

Ma di questo un’altra volta. Visto che per ora campeggia l’orizzonte del nostro tempo il detto gramsciano “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”. Variazione sul tema di quel “le mort saisit le vif”, il morto afferra il vivo, della prefazione marxiana alla prima edizione del Capitale.


NOTE

[1] R. Hughes, La cultura del piagnisteo, Adelphi, Milano 1994 pag. 35

[2] M. Castells, Reti di indignazione e di speranza, Università Bocconi Editore, Milano 2012 pag.198

[3] J. Friedman, Politicamente corretto, Meltemi, Sesto san Giovanni 2018 pag. 31

[4] Z. Bauman, cit. pag. XVII

[5] Ivi pag. 23

[6] R. Sennett, L’uomo flessibile, Felrinelli, Milano 1999 pag. 39

[7] Z. Bauman, ivi pag. 226

[8] E. Hobsbawm, “The nation and globalisation”, Constellations marzo 1998

[9] J. Friedman, Politicamente corretto, cit. pag.161

[10] Z. Bauman, Dentro la globalizzazione, Laterza, Roma/Bari 2001 pag. 81

[11] P. Bourdieu, Sur la télévision, Paris, Liber 1996 v [12] J. Friedman, cit. pag. 258

[13] M. G. Turri, Manifesto per un nuovo femminismo, Mimesis, Sesto S. Giovanni 2013

[14] N. Fraser, cit. pag. 73

[15] L. Joffrin, Le gouvernement invisible: naissance d’une démocratie sans peuple, Parigi 2001 pag. 101

[16] R. Reich, L’economia delle Nazioni, Il Sole 24 Ore, Milano 1993

[17] S. Sassen, Fuori controllo, il Saggiatore Milano 1998 pag. 114

[18] N. Fraser, ivi pag. 40

[19] V. De Grazia, L’impero irresistibile, Einaudi Torino 2006 pag. XV

[20] N. Fraser, cit. pag. 26

[21] Ivi pag. 60

[22] Ivi pag. 59

[23] Ivi pag.68

(11 luglio 2019)

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