Di fronte ai cambiamenti tecnologici c'è una sola strada: ridurre l'orario di lavoro e distribuire meglio i posti. Ma l’Italia fa proprio il contrario.
"Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo": è il 1930, John Maynard Keynes si trova a Madrid per esporre il suo trattato sulle “Prospettive economiche per i nostri nipoti”.I nipoti in questione oggi sono i giovani che entreranno nel mercato del lavoro tra dodici anni, cioè nel 2030, e il problema fondamentale è la disoccupazione, che con l’aumento della tecnologia sta contribuendo a ridurre drasticamente la richiesta di forza lavoro, già massacrata dalle crisi del 2008 e 2013.
Basterà una redistribuzione dell’orario per riconquistare l’eden della piena occupazione? Intorno a questo interrogativo ruota l’interesse oggi si molti studiosi. Tra loro anche il sociologo Domenico De Masi, che il 5 giugno esce nelle librerie con “Il lavoro nel XXI secolo”, edito da Giulio Einaudi: un tomo gigantesco e riassuntivo di tutto il pensiero critico dell’ottantenne professore. Ripercorre il significato e il valore del Lavoro da Adamo ai giorni nostri e conclude con una proiezione - non troppo catastrofica - sul futuro.
In Italia il tema è di grandissima attualità, perché nonostante la massiccia riforma del Jobs Act, la disoccupazione resta all’11 per cento, così come rimane alta la percezione di instabilità da parte dei cittadini e i salari continuano a restare al palo. E pensare che, alla fine degli anni Novanta, gli italiani avevano redditi allineati con quelli degli inglesi, mentre oggi sono stati superati persino dagli spagnoli che dieci anni fa non erano neppure in gara. E non è un caso se l’idea dei Cinque Stelle di istituire un reddito di cittadinanza ha conquistato gran parte del Sud Italia, dove il lavoro continua a essere l’eterno assente.
Nel suo libro, prima di entrare a capofitto nel groviglio italiano, De Masi si sofferma sulla prospettiva di lungo termine: «Siamo presi dal pessimismo perché il progresso tecnologico elimina più manodopera di quanta riusciamo a riassorbirne. Quelli di cui soffriamo sono disturbi di una crescita fatta di mutamenti troppo rapidi. In pochissimi anni le operazioni dei settori agricolo, minerario, manifatturiero sono state realizzabili con un quarto di quell’energia umana che eravamo abituati a impegnarvi. E quella curva non si è ancora conclusa, continuerà a crescere molto velocemente, riducendo la domanda di lavoro», spiega il professore, che invita a guardare oltre all’atrocità dell’assenza occupazionale, ben simoboleggiata dal caso di un operaio sessantunenne milanese che la settimana scorsa è stato licenziato da un’azienda di Melzo perché è stata acquistata una macchina che svolge automaticamente il lavoro a cui lui, per trent’anni, era stato assegnato.
Così dice la lettera di licenziamento. «Per riconquistare l’eden, Keynes sostiene che occorre sostituire la perizia nel lavoro con la perizia nella vita», dice De Masi. «La trasformazione avverrà gradualmente. In una prima tappa, di natura organizzativa, durante la quale il lavoro diminuirà drasticamente senza ancora scomparire del tutto, occorrerà ridistribuirne il residuo in modo che ognuno possa essere occupato sia pure per un tempo minimo».
Ma De Masi non è ovviamente l’unico studioso ad approfondire il tema. L’economista Carlo Dell’Aringa ha mandato alle stampe due settimane fa il dossier “L’Esplosione dei lavori temporanei: fattori ciclici o strutturali?” pubblicato da Arel, Agenzia di ricerca e legislazione. Vi si scopre che in Italia in dieci anni si è verificata una riduzione delle ore di lavoro di circa il 15 per cento, ma il numero di persone che risultano occupate è lo stesso.
Cos’è successo? Probabilmente nulla di buono: le persone lavorano meno ore non per scelta ma per necessità, perché trovano solo occupazioni non piene, stagionali, “liquide”. Eppure una riduzione della quantità di lavoro pro capite, di per sé, non sarebbe un fattore negativo, se però avvenisse in un quadro di redistribuzione del lavoro controllata, cogestita e sostenuta dal welfare.
De Masi ad esempio cita l’accordo fra sindacato e imprenditori tedeschi per consentire ai metalmeccanici con esigenze famigliari di ridurre l’orario a 28 ore settimanali, pur mantenendo i livelli salariali. «Indurre gli uomini, che sono la maggioranza dei metalmeccanici, a occuparsi maggiormente della famiglia è sintomo di intelligenza, serve a equilibrare l’enorme divario tra donne, che si fanno carico di quasi tutto, e uomini». De Masi fa anche notare che in Italia si lavora il 20 per cento in più rispetto alla Germania (1.725 ore, pro capite contro 1.371), ma si produce il 20 per cento in meno e si guadagna molto meno dei tedeschi. Lì sta il problema: «Il sindacato non è stato in grado di guardare lontano, non ha mai chiesto una riduzione dell’orario di lavoro a fronte di un’incapacità decennale di aumentare la produttività che deriva dalla mancanza di tecnologia e scarsa organizzazione del lavoro, provocata dall’assenza di manager e di imprenditoria competente».
Ma il modello tedesco sarebbe difficile da applicare in Italia, fa notare Dell’Aringa: «L’esempio della Germania va letto alla luce della flessibilità che è ben gestibile nelle imprese di grandi dimensioni, mentre nelle piccole si rischia di incappare in gravi problemi di direzione. Pensiamo alla tipica impresa italiana, che ha meno di 15 dipendenti: la riduzione d’orario di un dipendenti finirebbe sulle spalle dei colleghi, a meno che non vi sia una seria pianificazione dei compiti e una gestione manageriale, che spesso manca».
Di più. Da tempo imprenditori e sindacalisti italiani, con il benestare e il finanziamento degli ultimi quattro governi, hanno puntato molto sulla detassazione del lavoro straordinario, rendendolo la normalità, specialmente nel ricco Nord, dove si lavora anche 55 ore la settimana. E così succede che l’impresa, invece di prendere in considerazione una nuova assunzione, chiede ai dipendenti che già ha uno sforzo extra. Che tra l’altro è inversamente proporzionale alla produttività, perché più aumentano le ore di lavoro, minore è l’efficienza.
Insomma avviene esattamente il contrario del modello a cui si dovrebbe puntare: chi ha un’occupazione lavora troppo, chi è disoccupato resta fuori. «Se nella grande industria il super utilizzo del lavoro straordinario è arginabile per l’elevata presenza sindacale, il fenomeno è esploso nelle piccole imprese con gravi fenomeni di elusione. Capita che la voce “altri rimborsi” nasconda centinaia di ore passate in officina, per altro non soggette a tassazione», dice Luca Nieri, sindacalista della Fim Cisl di Bergamo.
C’è poi un’altra forma di lavoro straordinario tutta italiana: «Il vezzo di manager e quadri di restare in ufficio ben oltre l’orario stabilito, regalando ore agli azionisti. Mai in un paese protestante accadrebbe una cosa simile, mentre da noi si cerca un’espiazione del senso di colpa insito nella cultura cristiana, dimostrando al datore di lavoro l’attaccamento e il concetto del dovere, nonché la disaffezione alla famiglia. Non a caso le donne, che in Italia si fanno carico delle questioni domestiche, lasciano l’ufficio prima dei colleghi maschi e, tendenzialmente, fanno meno carriera», incalza De Masi, che ha calcolato: «Oltre due milioni di persone dedicano due ore extra al giorno all’ufficio. Fanno quattro milioni di ore, sufficienti per creare 500 mila nuovi posti».
Eppure spesso lo straordinario è un modo per rispondere al problema dei bassi salari, che è una variabile legata alla scarsa produttività, ferma da vent’anni: «La produttività non cresce, le imprese non riescono a generare ricchezza aggiuntiva e i salari restano invariati», dice Dell’Aringa. «L’Italia, anche per colpa del debito pubblico accumulato, non ha investito. Lo ha fatto solo il 20 per cento dell’industria manifatturiera, che ha compiuto il grande balzo, cogliendo la sfida della globalizzazione e dell’export, facendo crescere produttività e salari. Nelle altre imprese, invece, la gente continua a lavorare esattamente come 25 anni fa». Per invertire la tendenza, bisognerebbe proseguire sull’incentivazione di Industria 4.0, puntare sulla formazione di competenze, mettendo più risorse su scuola, università e riformando da capo a piedi la giustizia e la pubblica amministrazione. «Ma non mi pare che queste siano priorità in questo momento», dice l’economista.
Il gap salariale secondo De Masi, andrebbe anche affrontato tassando le rendite finanziarie, così da ridurre la forbice sempre più ampia fra ricchi e poveri: «Nel 2007 dieci famiglie possedevano la stessa ricchezza di 3,5 milioni di poveri, oggi quei pochi ricchi hanno la stessa ricchezza di sei milioni di poveri». Usando un altro paragone, «Adriano Olivetti diceva che nessun dirigente doveva prendere più di dieci volte rispetto al salario più basso della sua impresa, mentre oggi ci sono top manager che prendono mille volte di più rispetto ai loro dipendenti».
C’è poi un’altra variabile da considerare: la globalizzazione. L’economista ed esponente di Leu Stefano Fassina e il professore di Economia Politica all’Università Tor Vergata Leonardo Becchetti concordano nel sostenere che la direzione di una riduzione dell’orario sarebbe auspicabile, se solo si potesse contrastare il dumping salariale proveniente dalle dinamiche dei mercati globali attuali. Fassina invoca una totale revisione degli accordi europei: «L’eccesso di liberismo, incarnato in questo caso nella direttiva Bolkestein che ha favorito la libera circolazione dei servizi, ha spinto a una corsa al ribasso sui costi. Succede con le delocalizzazioni nei paesi dell’Est dei call center, l’incursione di trasportatori stranieri nei magazzini nostrani e, recentemente, le guide turistiche stanno sul piede di guerra perché subiscono la concorrenza a basso costo degli stranieri, che s’accontentano di tariffe più basse. Serve una revisione delle direttive europee perché la svalutazione del lavoro non è più sostenibile».
Becchetti va oltre, sostenendo che la grande sfida sia l’inversione alla corsa al ribasso: «Bisogna lavorare dal lato della domanda del consumatore, dello Stato e sulla fiscalità. Creando ad esempio un sistema di rating sociale, simile a quello dell’impronta di carbonio per l’inquinamento ambientale. Un esempio potrebbe essere l’acquisto di un prodotto al supermercato, dove un’indicazione precisa dei livelli di sfruttamento convincerebbe molti ad acquistare quello più socialmente etico. E lo Stato dovrebbe evitare di adottare la politica del massimo ribasso nelle gare d’appalto, ma esigere adeguatezza sociale e salariale dai fornitori; infine istituire una riforma dell’Iva che premia le filiere sostenibili con una tassazione al 10 per cento e punisce le altre, portandola al 30 per cento».
Al 2030 non manca molto, ma l’Italia non sembra ancora pronta a governare il cambiamento e pensare a una riduzione delle ore di lavoro. Al contrario, chi ha un lavoro soffre per l’insufficienza del tempo libero, mentre chi non ha un lavoro soffre per assenza di reddito. E, senza un radicale cambiamento, i futuri giovani degli anni ‘30 rischiano di non avere alternative a questa tenaglia.
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