domenica 18 giugno 2017

Moneta Fiscale: il punto della situazione.

A fine marzo scorso, l’uscita di un articolo di Gennaro Zezza sul blog di Beppe Grillo ha prodotto un salto di quantità e di qualità nel dibattito pubblico in merito alla Moneta Fiscale.



micromega Biagio Bossone / Marco Cattaneo / Massimo Costa / Stefano Sylos Labini
Con alcune variazioni (vedi nel seguito) è un progetto ben noto ai lettori di Micromega, nonché ai politici e agli economisti che hanno avuto modo di leggere l’eBook pubblicato due anni fa a cura di Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Enrico Grazzini, Stefano Sylos Labini e del compianto Luciano Gallino.

Dopo la presentazione della Moneta Fiscale sul blog di Grillo, le reazioni degli organi di stampa e di informazione dell’establishment sono state spesso orientate allo scetticismo e al tentativo di etichettare la proposta come un’esercitazione accademica, o peggio. Ma nel frattempo anche durante la campagna elettorale francese, due dei quattro principali candidati alla presidenza, Jean-Luc Mélenchon e Marine Le Pen, ben distanti tra di loro come posizionamento nell’arco politico, hanno nondimeno entrambi mostrato attenzione verso la possibilità di utilizzare la Moneta Fiscale per correggere le disfunzioni dell’Eurosistema, come esemplificato anche da articoli di stampa usciti ad esempio su Libération.

Ed è un dato di fatto che a parte il PD, tutti i principali schieramenti politici italiani stanno valutando proposte di moneta nazionale parallela: non solo il M5S, ma anche la Lega (che la considera però un meccanismo propedeutico all’Italexit), e Forza Italia con i continui accenni di Berlusconi a uno strumento monetario parallelo - per ora non chiaro nei dettagli attuativi - da affiancare all’euro, invece, su base permanente.

Ci sono quindi ragioni molto forti per continuare a parlare, nel modo più serio e approfondito, del progetto Moneta Fiscale nelle sue possibili declinazioni e applicazioni.

La crisi di domanda dell’economia italiana

L’economia italiana soffre di un pesante deficit di domanda aggregata, che determina livelli di attività economica nettamente inferiori al potenziale produttivo del paese. Il confronto tra PIL 2007 (anno in cui è stato raggiunto il massimo storico di PIL reale) e 2016, disaggregati nelle loro principali macrocomponenti, lo rende evidente.

Confronto 2016 vs 2007 a euro costanti 2016 Dati 2007 riportati a potere d’acquisto 2016 sulla base del deflatore PIL – Fonti: ISTAT, MEF
 
2007
2016
Variazione
Variazione %
PIL
1.801
1.672
-129
-7,2%
Consumi
1.408
1.330
-78
-5,5%
Investimenti
389
284
-104
-26,8%
Domanda interna (C+I)
1.797
1.614
-183
-10,2%
Export
494
502
7
1,5%
Import
500
444
-57
-11,4%
Saldo commerc. estero
-6
+58
   

A nove anni di distanza, il PIL reale italiano è (nonostante il timidissimo recupero iniziato nel 2014) inferiore di circa 130 miliardi, pari a oltre il 7%. E la caduta è interamente dovuta al crollo della domanda interna: l’export è l’unica componente che evidenzia un segno positivo. Modesto fin che si vuole (+1,5% in nove anni) ma comunque un segno più.

Le importazioni sono cadute in misura simile e anzi un po’ più accentuata (-11,4%) rispetto alla domanda interna (-10,2%), il che ha portato il saldo commerciale estero da un leggero deficit (-6 miliardi) a una forte eccedenza (+58 miliardi). Il surplus italiano 2016 è stato in effetti il terzo al mondo per dimensione assoluta (dopo Germania e Cina) tra i paesi “trasformatori” (tra quelli, cioè, non significativamente dotati di materie prime e risorse naturali).

A volte si legge che questo andamento dell’economia italiana rifletterebbe lo scollamento tra aziende esportatrici, che hanno saputo vincere o quantomeno reggere la “sfida della globalizzazione”, e il resto del sistema produttivo, che non si sarebbe adeguato al nuovo contesto. Ma è una spiegazione che non tiene, appunto perché ancora più della domanda interna sono, come visto, crollate le importazioni: il che significa che nel complesso non si è verificato un fenomeno di perdita di quota nel mercato interno a vantaggio di importatori “globalizzati”, o comunque più efficienti. Molto più banalmente, il minor potere d’acquisto indotto prima dalla crisi finanziaria mondiale, e poi dall’euroausterità, ha fatto calare la domanda italiana di beni e servizi – a danno dei produttori italiani così come, in misura analoga e anzi leggermente più accentuata, degli stranieri.

E’ del tutto inverosimile che, se le aziende italiane vendono più di prima (poco, ma comunque di più) a San Francisco, a Shanghai o a Sidney, abbiano subito uno scadimento qualitativo o competitivo tale da produrre un calo a due cifre a Treviso, a Pesaro o a Cosenza. Si vende di meno in Italia perché, banalmente, girano meno soldi. Punto.

L’altro dato da evidenziare è che la discesa della domanda interna (-10,2%) risente di un calo dei consumi (-5,5%) ma ancora di più di un autentico crollo degli investimenti (-26,8%). Niente di sorprendente, perché la depressione della domanda crea pesantissimi disincentivi a investire: meno soldi per fare ricerca e aggiornamento tecnologico degli impianti, meno necessità di espandere la (fortemente sottoutilizzata) capacità produttiva. Ma quando si dice che le aziende italiane devono recuperare produttività e competitività – quanto vi sembra plausibile riuscirci in un sistema paese che investe in impianti e infrastrutture oltre 100 miliardi all’anno in meno rispetto al 2007 ?

Il recupero di un adeguato livello di circolazione interna di potere d’acquisto, e quindi di domanda, è imprescindibile per risolvere la crisi dell’economia italiana. La Moneta Fiscale permette di ottenerlo. Vediamo come.

Definizione formale di Moneta Fiscale
Per Moneta Fiscale intendiamo qualunque titolo che lo Stato si impegna ad accettare per l’adempimento di obbligazioni fiscali (tasse, imposte, contributi ai sistemi sanitari e pensionistici pubblici, eccetera). E’ un diritto di riduzione degli importi dovuti, quindi un diritto a beneficiare di uno sconto fiscale.

La Moneta Fiscale non rappresenta moneta legale: nessuno, né in Italia né tantomeno in altri paesi dell’Eurozona, è obbligato ad accettarla come forma di pagamento, e lo Stato non si impegna a convertirla in moneta legale. La moneta legale rimane l’euro.

La Moneta Fiscale ha tuttavia un valore “agganciato” all’euro, in quanto permette di ridurre, in proporzione 1:1, pagamenti altrimenti dovuti all’erario. Mille euro di Moneta Fiscale, in altri termini, saranno sempre e comunque equivalenti a mille euro in meno di tasse da pagare.

La Moneta Fiscale è inoltre negoziabile, trasferibile e scambiabile tra soggetti terzi volontariamente disposti ad accettarla in corrispettivo di transazioni reali (beni e servizi) o finanziarie. Il percettore di Moneta Fiscale può, quindi, spenderla immediatamente.

In quali forme la Moneta Fiscale può essere introdotta

Va in primo luogo chiarito che la Moneta Fiscale non si presenterà sotto forma di banconote e monete metalliche diverse dall’euro. Non andremo in giro con due monete diverse nel portafoglio.

Una prima modalità di introduzione, proposta e analizzata in testi pubblicati nel 2014-2015 ("La soluzione per l'euro" di Marco Cattaneo e Giovanni Zibordi, nonché l’eBook Micromega già citato) consiste in titoli finanziari che danno diritto a conseguire, a partire da due anni dopo la loro introduzione, sconti fiscali. La denominazione utilizzata nei testi citati è Certificati di Credito Fiscale, abbreviata in CCF, anche se sigle alternative quali TSF (Titoli di Sconto Fiscale) o CRF (Certificati di Riduzione Fiscale) sono state utilizzate in altre sedi.

Successivamente è emersa con crescente evidenza l’opportunità di pensare all’erogazione di Moneta Fiscale mediante carte elettroniche (vedi qui Massimo Amato, Luca Fantacci e Gennaro Zezza, ma anche in precedenza qui).

Queste carte elettroniche funzioneranno, in pratica, per effettuare pagamenti in modo analogo a un Bancomat o a una carta di credito.

Le due modalità possono anche essere utilizzate congiuntamente. Come si vedrà, la Moneta Fiscale viene introdotta mediante un meccanismo di erogazione gratuita, a individui e aziende. La variante “carta elettronica” è più pratica per le fasce di individui in maggiori condizioni di disagio, che non sono abituati a gestire operazioni in titoli e possono addirittura non detenere conti correnti o rapporti bancari. L’erogazione mediante titoli (CCF) può invece essere più opportuna soprattutto per le quote di Moneta Fiscale assegnate alle aziende. La scelta può anche essere lasciata al percettore stesso.

In ogni caso, la Moneta Fiscale potrà essere scambiata tramite una piattaforma elettronica unificata, che gestirà i conti degli operatori economici residenti nel paese (individui, imprese, associazioni, banche, istituzioni, enti pubblici) disponibili a effettuare transazioni in Moneta Fiscale. I conti potranno essere accessibili anche via telefono cellulare e internet.

Sulla base di accordi liberamente e volontariamente sottoscritti, o anche di prassi operative che si diffonderanno spontaneamente, imprese, lavoratori, categorie di esercenti, aziende di distribuzione, imprese di pubblica utilità ecc. accetteranno pagamenti in Moneta Fiscale. L’accettazione non sarà, come detto, obbligatoria, ma verrà attivamente promossa dallo Stato.

La Moneta Fiscale erogata sotto forma di titoli (CCF) potrà inoltre essere scambiata, vendendola contro euro, sulle normali (e già ben rodate) piattaforme di negoziazione dei titoli di Stato, allo stesso modo in cui è possibile vendere prima della scadenza un BOT o un BTP. Un CCF in effetti è un titolo di Stato, anche se non costituisce una forma di debito pubblico (lo Stato non si impegna a rimborsarlo a una scadenza data) ma deriva il suo valore dalla possibilità di utilizzarlo per ridurre pagamenti d’imposta (e dal connesso impegno dello Stato ad accettarlo a tal fine).

Un elemento essenziale del progetto è che sia prevista una dilazione temporale relativamente al diritto di conseguire gli sconti fiscali. Se la Moneta Fiscale, in altri termini, consentisse risparmi d’imposta immediati, per l’intero importo erogato, l’operazione sarebbe equivalente a una riduzione di tasse. Si produrrebbe quindi un incremento di deficit pubblico (recuperabile in futuro grazie all’effetto espansivo su PIL e gettito fiscale, ma comunque incompatibile con la regolamentazione dell’Eurosistema).

Il problema si risolve, appunto, con un meccanismo di differimento dell’utilizzabilità fiscale. Il differimento consente alla Moneta Fiscale di generare crescita del PIL mediante l’espansione della domanda. Ne deriva un accrescimento del gettito fiscale, prima dell’utilizzo della Moneta Fiscale per conseguire gli sconti. L’effetto espansivo su PIL e gettito è, tra l’altro, particolarmente forte se un’azione di incremento della domanda è attuata nel contesto di un’economia che opera molto al di sotto del suo potenziale produttivo.

Tra le varie possibili modalità di differimento, la Moneta Fiscale erogata mediante carte elettroniche potrebbe essere utilizzata dal possessore in ragione per esempio di un 20% all’anno nell’arco di cinque anni. La componente differita sarebbe comunque un valore sicuro, perché un esercizio commerciale sa di avere in maniera continua esigenze di pagamenti fiscali a vario titolo (versamenti IVA, pagamenti di contributi sociali e di imposte anche per conto dei propri dipendenti, imposte dirette e indirette varie).

La variante CCF potrebbe invece essere strutturata come un titolo (per esempio) a due anni: ricevo il 1° gennaio 2018 un diritto di sconto fiscale che potrò utilizzare illimitatamente a partire dal 1° gennaio 2020. Sarà sotto certi aspetti l’equivalente di un BTP biennale, con la differenza che nel caso del BTP esiste il rischio, almeno teorico, che lo Stato italiano vada in default su un BTP (cioè, in pratica, che non abbia gli euro per rimborsarlo a scadenza) mentre un diritto di sconto fiscale avrà sempre valore (le tasse e la morte sono l’unica certezza della vita, per citare Benjamin Franklin…). E si tratta di un valore certo perché lo Stato non sta assumendo alcun impegno finanziario che potrebbe non essere in grado di assolvere.

Potrebbe rendersi opportuno riconoscere al possessore di Moneta Fiscale – sia nella forma di conto gestito presso la piattaforma elettronica centralizzata, che nella forma di CCF – un piccolo tasso d’interesse, variabile e regolabile da parte delle autorità pubbliche, per mantenere il valore della Moneta Fiscale allineato a quello dell’euro ed evitare scomode situazioni di “doppi prezzi” soprattutto quando si usa la Moneta Fiscale per pagare beni e servizi. In altri termini, faccio la spesa al supermercato o il pieno di benzina senza preoccuparmi di pagare il pieno 40 euro o 41 unità di Moneta Fiscale. Meglio ancora, non sono neanche tenuto a preoccuparmi di utilizzare euro o Moneta Fiscale: sono a tutti gli effetti pratici equivalenti, in quanto accettate alla pari dall’esercizio commerciale presso cui effettuo gli acquisti.

Dimensioni e destinazioni delle assegnazioni di Moneta Fiscale
La Moneta Fiscale sarà erogata in forma gratuita e aggiuntiva. Non si sta parlando, in altri termini, di sostituire una parte della spesa pubblica in euro con Moneta Fiscale, per esempio pagando in Moneta Fiscale stipendi o pensioni che prima erano corrisposti in euro. Si parla invece di effettuare un’operazione che espande la disponibilità di potere d’acquisto nell’ambito dell’economia italiana.

Il primo anno di attivazione del programma, ad esempio il 2018, potrebbe prevedere l’erogazione di complessivi 30 miliardi, ripartiti in varie componenti:
  • Integrazioni retributive ai lavoratori, pubblici e privati, dipendenti e autonomi, privilegiando soprattutto i segmenti a reddito basso e medio-basso.
  • Interventi di spesa pubblica e sociale: maggiori pensioni, sussidi di disoccupazione, maggiori risorse (e quindi assunzioni di personale) a sanità, pubblica istruzione, protezione civile, interventi di ripristino post calamità naturali, ecc.
  • Co-finanziamento di investimenti pubblici.
  • Riduzione del cuneo fiscale effettivo a vantaggio delle aziende.
In tal modo, si metterà in atto un’azione di stimolo della domanda aggregata intervenendo sulle sue varie componenti e rilanciando contemporaneamente consumi privati, spesa sociale e investimenti. E tanto più la manovra si indirizzerà verso soggetti con alta propensione e necessità di spesa, tanto più elevato sarà l’impatto sulla domanda aggregata.

L’assegnazione di Moneta Fiscale alle aziende, inoltre, comporterà la riduzione del cuneo fiscale, in misura pari ad alcuni punti percentuali del costo totale del lavoro. Le aziende conseguono in questo modo un immediato recupero di competitività, evitando così che la maggior domanda interna si disperda parzialmente in maggiori importazioni. Il recupero di competitività potrà essere tarato in modo da lasciare sostanzialmente invariati i saldi commerciali esteri.

Per inciso, saldi commerciali esteri invariati implicano anche che non si sta facendo affidamento sulla possibilità, per il sistema economico italiano nel suo complesso, di pagare importazioni con Moneta Fiscale. Importazioni ed esportazioni nette saliranno di pari passo.

Le erogazioni annue di Moneta Fiscale saranno gradualmente incrementate negli anni successivi, in maniera tale da riportare velocemente l’economia italiana a recuperare il deficit di PIL rispetto alla situazione pre-crisi, e a proseguire poi con un trend di crescita adeguato a mantenere un solido e tonico quadro di occupazione delle risorse e del mercato del lavoro.

Il livello massimo di erogazioni annue di Moneta Fiscale potrà attestarsi intorno ai 100 miliardi annui. Tenuto conto che mediamente l’utilizzo della Moneta Fiscale per conseguire sconti d’imposta avverrà un paio d’anni dopo l’erogazione, questo equivale a dire che la Moneta Fiscale totale in circolazione raggiungerà un ordine di grandezza massimo di 200 miliardi circa.

Compatibilità della Moneta Fiscale con trattati e regolamenti europei
La Moneta Fiscale è totalmente coerente con i trattati e i regolamenti che regolano il funzionamento dell’Eurosistema.

In primo luogo, non trattandosi di moneta legale ad accettazione obbligatoria, non viola l’esclusiva riservata alla Banca Centrale Europea. La BCE rimane l’unico soggetto che governa l’emissione di euro. La Moneta Fiscale è un titolo finanziario il cui valore è agganciato, e tendenzialmente equivalente, all’euro, ma è un titolo di diversa natura.

In secondo luogo, la Moneta Fiscale non è una componente né del deficit pubblico annuo, né del debito pubblico complessivo. Si tratta di un non-payable tax credit, che i trattati e i regolamenti Eurostat non considerano debito finanziario (vedi qui alcune considerazioni di Massimo Costa sull’argomento).

Quest’ultimo punto suscita a volte sorpresa: la Moneta Fiscale non andrà a ridurre le disponibilità finanziarie dello Stato emittente, a parità di condizioni, quando verrà utilizzata per beneficiare degli sconti fiscali ? non va quindi considerata un debito ?

In realtà i principi contabili adottati non lasciano dubbi al riguardo. La grandezza oggetto di controllo è il debito finanziario, inteso come l’entità degli impegni che danno diritto al titolare di ricevere un pagamento in euro. Solo il debito definito in questo senso può dar luogo a un evento di default per lo Stato emittente.

Fintantoché il deficit pubblico (eccesso dei pagamenti di euro rispetto agli incassi in euro) e il debito pubblico (totale dei titoli in circolazione a fronte del quale sussiste un impegno di rimborso in euro) sono in linea con gli impegni assunti, i vincoli di finanza pubblica risultano rispettati, a prescindere dall’ammontare di Moneta Fiscale in circolazione.

Gli equivoci sul debito pubblico

Uno dei grandi equivoci in merito alla situazione economica italiana è che l’elevato livello del debito pubblico renda impossibile effettuare azioni espansive, e che quindi l’Italia sia condannata a crescite asfittiche – che implicano il permanere di altissimi, inaccettabili livelli di disoccupazione, sottoccupazione, e disagio sociale – per un periodo di tempo indefinito.

In realtà l’Italia come paese ha una net international investment position – la differenza tra attività estere possedute da residenti italiani, e attività italiane possedute da stranieri, negativa, ma soltanto per il 15% del PIL (dati Bankitalia al 31.12.2016).

L’Italia non ha affatto livelli preoccupanti o anomali di debito verso l’estero, e la situazione è in costante miglioramento dato che, come visto, i saldi commerciali esteri sono in forte surplus.

L’Italia è caratterizzata non da alti livelli di debito estero, ma da un elevato rapporto debito pubblico lordo / PIL – oltre il 130% a fine 2016. Debito pubblico, peraltro, per oltre due terzi posseduto da residenti italiani. Senza contare che il risparmio privato interno è un multiplo (3-4 volte circa) del debito pubblico lordo.

Di tanto in tanto si leggono fantasiose ipotesi in merito a quanto sarebbe “semplice”, di conseguenza, “compensare” una parte del debito pubblico con una parte del risparmio privato. In pratica, mettere in atto una megapatrimoniale poniamo per l’importo del 30% del PIL – circa 500 miliardi – che abbatterebbe all’istante il debito pubblico lordo dal 130% al 100%.

Naturalmente una manovra di questo tipo provocherebbe un istantaneo collasso della già depressa domanda interna e una pesantissima ulteriore caduta del PIL. E la riduzione del rapporto NON sarebbe peraltro neanche utile a rilanciare successivamente la crescita, se non fosse poi possibile effettuare azioni di finanza pubblica espansiva: in altri termini, aumentare il debito subito dopo averlo tagliato (e aver fatto crollare il PIL…).

Tornando a riflessioni più serie, il debito pubblico italiano è un problema perché è denominato in una moneta controllata da un’entità terza, la BCE, che per la natura dell’Eurosistema non garantisce il debito pubblico degli Stati membri.

In tutti i paesi del mondo che emettono e gestiscono la propria moneta – in altri termini, in tutte le economie di un qualche rilievo, esclusa l’Eurozona – la Banca Centrale Nazionale gode di livelli di autonomia più o meno elevata nei confronti delle autorità governative: ma nessuno pensa seriamente che negli USA, nel Regno Unito, in Svizzera, in Giappone, in Canada, la Banca Centrale consenta che lo Stato vada in default sul debito pubblico.

L’Eurozona è invece in una situazione diversa perché un’insolvenza si è già verificata – quella greca – e la probabilità che eventi del genere si ripetano ha di conseguenza un ordine di grandezza ben più alto rispetto ai paesi che emettono e gestiscono la propria moneta.

L’Eurozona, si dice a volte, ha una situazione simile a quella degli USA, dove nessuno pensa seriamente a un’ipotesi di default sul debito federale, ma possono invece andare in insolvenza gli stati: la California nel 2009, per esempio.

Ma il contesto USA è totalmente diverso per un’altra ragione: il debito pubblico è quasi tutto federale. L’insolvenza di uno stato è quindi un problema di un ordine di gravità totalmente diverso rispetto all’Eurozona, dove i debiti pubblici sono invece tutti statali.

Tornando all’Italia, il vincolo all’effettuazione di manovre espansive è dovuto alla denominazione in moneta estera del debito pubblico, non al suo livello. Il Giappone, con un rapporto debito pubblico lordo / PIL del 230%, ma denominato in yen, non ha i problemi dell’Italia.

Questo non significa che se il debito pubblico italiano fosse rimasto in lire, si sarebbe potuto incrementarlo a livelli “grandi a piacere”. Immettere potere d’acquisto nell’economia, tramite spesa pubblica eccedente la tassazione, è utile fintantoché non si raggiungono adeguati livelli di occupazione e di utilizzo delle risorse produttive. Oltre, si crea inflazione invece di supportare l’espansione economica.

In buona sostanza, il debito pubblico in moneta propria se crea problemi li crea in conseguenza dell’aumento dell’inflazione, non del rischio di default.

L’odierna situazione italiana – inflazione troppo bassa e pesante sottoutilizzo delle risorse produttive – consente quindi di effettuare azioni espansive purché non si incrementi il debito pubblico da rimborsare in euro. Azioni espansive condotte mediante erogazione di Moneta Fiscale, e non finanziate da emissione di debito in euro, rispondono perfettamente allo scopo.

L’alto livello di risparmio privato italiano, peraltro, può essere utilizzato per inserire nel progetto Moneta Fiscale un ulteriore livello di tutela e di solidità. Immaginiamo che in un anno futuro una situazione congiunturale sfavorevole crei uno sbilancio inatteso, tra entrate e uscite pubbliche, pari all’1% del PIL, che incrementerebbe quindi il debito da rimborsare in euro.

La situazione sarebbe tranquillamente gestibile con una manovra ben più morbida e sensata della (totalmente inverosimile) megapatrimoniale sopra descritta. Per esempio, mediante un’imposta straordinaria che raccolga l’1% del PIL (17 miliardi in base alle dimensioni del PIL odierne) dando però in cambio al contribuente Moneta Fiscale, magari sotto forma di CCF a scadenza medio-lunga, di valore sostanzialmente equivalente. Una forma di salvaguardia dei saldi di finanza pubblica, in pratica, indolore e senza effetti recessivi.

Moneta Fiscale, progetto a rischio zero

Un dubbio ricorrente espresso dagli interlocutori a cui viene esposto il progetto Moneta Fiscale si riassume come segue: “se, contrariamente alle previsioni, l’erogazione non produce alcun effetto espansivo, nel momento in cui, poniamo a due anni di distanza, la Moneta Fiscale viene utilizzata per conseguire sconti fiscali, si crea un “buco” nelle entrate statali”.

Bene, immaginiamo pure il caso limite in cui l’assegnazione di Moneta Fiscale a famiglie e imprese non produca effetti espansivi. E’ un’ipotesi inverosimile: chi riceve un titolo con un significativo valore – perché equivale a uno sconto fiscale futuro – lo metterebbe in un cassetto e se ne scorderebbe fino al momento in cui, appunto, lo userà per ridurre pagamenti d’imposta.

Equivale a ipotizzare, in altri termini, che il ricevente non lo ceda sul mercato finanziario in cambio di euro, o che lo faccia e poi non spenda gli euro ricavati, né che usi la Moneta Fiscale come contropartita di acquisti di beni e di servizi. Neanche per un centesimo.

Ma discutiamo pure gli effetti di questo caso limite. Nel momento in cui una determinata quantità di Moneta Fiscale viene assegnata, possono essere previste azioni compensative (tagli di spesa e/o incrementi di imposte) che decorrano anch’essi a pari scadenza (poniamo due anni) entrando però in vigore se e solo se non si è verificata una crescita di PIL e gettito sufficiente a compensare gli sconti fiscali.

Queste azioni compensative possono essere “normate” fin dall’inizio del progetto, il che tra l’altro confuta qualsiasi asserzione, o eccezione alla luce dei trattati UE, dei regolamenti, o dell’articolo 81 della Costituzione, che la manovra sia “priva di copertura”.

Se si verifica il caso limite – zero effetto espansivo – due anni dopo la partenza del progetto la Moneta Fiscale genera sconti fiscali e riduce il gettito, ma le azioni compensative pareggiano esattamente l’impatto sul deficit pubblico.

In altri termini, la partita finisce zero a zero: zero benefici e zero danni.

Attuando il progetto Moneta Fiscale in questi termini, il rischio di “buco fiscale a termine” semplicemente non esiste, anche nell’ipotesi – estremamente remota – che non ci sia alcun effetto positivo su domanda, PIL e occupazione.

Con altissima probabilità, l’effetto del progetto Moneta Fiscale sull’economia è fortemente positivo. Nell’inverosimile eventualità in cui questo non avvenga, l’effetto è, alla peggio, nullo. In nessun caso sono ipotizzabili danni o controindicazioni.

Va sottolineato che la situazione è apparentemente simile a quella delle “clausole di salvaguardia” già oggi utilizzate nelle leggi di bilancio italiane, ma con una differenza che muta completamente il quadro della situazione.

Oggi il governo italiano approva la legge di bilancio, che inevitabilmente ha un’impostazione restrittiva – perché si punta a costanti riduzioni del deficit pubblico in presenza di bassissimi livelli di crescita del PIL.

Regolarmente si scopre la crescita è inferiore al previsto, e quindi neanche gli obbiettivi di calo del deficit risultano raggiunti. Di conseguenza dovrebbero scattare appunto le clausole di salvaguardia, che implicano ulteriori restrizioni di bilancio – e ulteriori avvitamenti verso il basso della congiuntura.

A quel punto inizia un tedioso, insulso, avvilente balletto tra Ministero dell’Economia italiano e Commissione Europea, per cercare giustificazioni al mancato raggiungimento degli obiettivi (i terremoti, i migranti o qualcos’altro) e per “sterilizzare” il più possibile le clausole di salvaguardia.

Il problema è che gli obiettivi di riduzione del deficit partono da aspettative inverosimili in merito alla possibilità di crescita dell’economia italiana in un contesto di domanda depressa e di continue azioni fiscali restrittive. Altrimenti detto, si continua a frenare, e poi ci si “stupisce” che l’auto non abbia preso velocità.

L’impostazione del progetto Moneta Fiscale risolve il problema alla base, perché consente il livello di accelerazione necessario a riportare l’economia italiana alla sua velocità di crociera.

Risultati macroeconomici conseguibili con la Moneta Fiscale

Come detto in precedenza, le assegnazioni annue di Moneta Fiscale potrebbero iniziare a un livello di 30 miliardi annui e incrementarsi gradualmente fino a un massimo di 100.

In periodi in cui il sistema economico viaggia a livelli significativamente inferiori al suo potenziale produttivo, l’effetto espansivo sul PIL di un’azione di sostegno della domanda è particolarmente elevato (moltiplicatore del reddito nettamente superiore all’unità).

Adottando un’ipotesi, comunque cautelativa, di moltiplicatore del reddito pari a 1,25, il progetto Moneta Fiscale muta radicalmente lo scenario macro e l’evoluzione dell’economia italiana. Si sottolinea che, come ampiamente documentato nel già citato eBook, la recente letteratura accademica ha fornito numerosissime e significative conferme che durante le fasi di depressione della domanda il moltiplicatore del reddito assume valori ben più alti di quanto qui ipotizzato.

Le più recenti stime del governo (Documento di Economia e Finanza del Ministero dell’Economia, aprile 2017) prevedono crescite del PIL costantemente pari all’1% circa, con il rapporto deficit pubblico / PIL che dal 2,1% previsto per il 2017 scenderebbe all’1,2% nel 2018, raggiungendo poi il pareggio nel 2019. Il debito pubblico lordo si stabilizzerebbe poco sopra i 2.300 miliardi di euro. Il PIL reale raggiungerebbe solo nel 2023 i livelli del 2007.

Questo significa un mercato del lavoro in situazione di costante, estrema debolezza. E implica, per un periodo di tempo indefinito, altissimi livelli di disoccupazione e di precarizzazione del lavoro, e un costante sfaldamento del tessuto sociale.

Il progetto Moneta Fiscale per contro è in grado di generare una forte accelerazione della crescita. Nei primi due anni – 2018 e 2019 – si avrebbero crescite reali del PIL sopra il 3%, che consentono di raggiungere con quattro anni di anticipo i livelli del 2007. E il trend di crescita successivo potrebbe tranquillamente raggiungere il 2% medio annuo.

Il debito pubblico lordo si stabilizzerebbe agli stessi livelli, in valore assoluto, rispetto alle previsioni governative attuali, ma ovviamente calerebbe in modo ben più rapido in rapporto al PIL. Il calo del rapporto debito / PIL sarebbe anche agevolato dalla risalita dell’inflazione (oggi troppo bassa in Italia) verso l’obiettivo BCE del 2%.

Moneta Fiscale, un progetto demand-side
Alcuni nostri interlocutori hanno espresso dubbi sul progetto Moneta Fiscale ritenendolo una proposta supply-side, basata cioè su politiche di sostegno dell’offerta.

La confusione nasce dal fatto che l’erogazione di Moneta Fiscale a tutti gli effetti pratici costituisce uno sconto d’imposta, il che ricorda concetti quali la “curva di Laffer”: ridurre le tasse presumendo che questo induca aziende e cittadini a lavorare e produrre di più, in quanto gli attuali livelli di fiscalità disincentiverebbero il sistema economico dall’operare al pieno delle sue capacità.

La “curva di Laffer” ha goduto di una certa popolarità nei primi anni Ottanta in quanto è stato un leitmotiv della prima campagna elettorale di Ronald Reagan, ma a livello sia teorico che empirico non se ne sono mai avuti riscontri attendibili.

La Moneta Fiscale è al contrario una proposta demand-side. Non si sta ipotizzando che individui e aziende oggi lavorino poco perché il reddito prodotto da un maggiore impegno sfumerebbe, in larga parte, in tasse.

Al contrario, aziende e individui sono sottoutilizzate o disoccupati per tutt’altre ragioni: perché la domanda è insufficiente. La carenza di domanda implica basso livello di utilizzo delle risorse produttive, quindi sottoccupazione di impianti e di persone. Questo gravissimo spreco di risorse è eliminabile incrementando il potere d’acquisto in circolazione.

Lo strumento dello sconto fiscale è appropriato perché tecnicamente semplice da introdurre e compatibile con trattati e regolamenti europei. Ma l’azione che svolge è dal lato della domanda: chi riceve Moneta Fiscale beneficia di un immediato incremento della sua capacità di spesa, la rivolge all’acquisto di beni e servizi, e riavvia produzione e occupazione.

Un’eccezione è la quota di Moneta Fiscale erogata alle aziende in funzione dei loro costi di lavoro lordi (riduzione del cuneo fiscale): ma anche in questo caso si fa leva sulla domanda – in questo caso, sulla domanda estera – grazie al miglioramento di competitività che ne consegue.

Effetti supply-side, in conseguenza del progetto Moneta Fiscale, sono peraltro prevedibili, e nel tempo anche in misura molto significativa, ma nascono da meccanismi indotti di altra natura.

In particolare, la Moneta Fiscale potrà finanziare o co-finanziare la ripartenza degli investimenti pubblici; e inoltre il recupero dell’economia gradualmente ma rapidamente spingerà anche le aziende private a riavviare il ciclo degli investimenti.

Tutto questo avrà importanti e positive ricadute su efficienza e produttività.

La Moneta Fiscale facilita la vita a Draghi

L’introduzione della Moneta Fiscale in Italia (e meglio ancora se anche in altri paesi dell’Eurozona) faciliterebbe grandemente la conduzione della politica monetaria della BCE. Questa opinione è coerente con quanto recentemente affermato dall’ex governatore della Bank Of England, Mervyn King.

D. “Nell’Eurozona il ritorno dell’inflazione, risalita del 2% in media a febbraio, crea nuova tensione tra la Germania e il presidente della BCE, Mario Draghi. I tedeschi chiedono un cambio della politica monetaria. Fa bene Draghi a resistere ?”

R. “Draghi è in una posizione impossibile. La Germania ha bisogno di tassi d’interesse e un cambio euro / dollaro più alti, mentre a Francia e Italia servono tassi e cambio più bassi. Ma questo è incompatibile con l’unione monetaria. E’ sempre stato così, ma c’era l’emergenza dei debiti sovrani. Ora però l’affermazione di Draghi che la BCE è pronta a fare tutto il necessario, il suo famoso whatever it takes, è meno efficace, e i mercati si chiedono quale sarà il futuro dell’unione monetaria”.

Il problema nasce dal fatto che l’Eurosistema, costruito e gestito com’è oggi, genera distorsioni e divergenze economiche insostenibili tra i vari paesi.

L’introduzione della Moneta Fiscale, per cominciare in Italia ma in seguito, con ogni probabilità, in vari altri stati membri, restituisce alle economie nazionali le leve d’azione perse con il passaggio alla moneta unica, senza peraltro compromettere (anzi, consentendo di raggiungere) l’obiettivo di stabilizzare in valore le passività statali da rimborsare in euro, e di ridurle costantemente rispetto al PIL.

Inoltre, essendo utilizzata a fini anticiclici e a livelli diversi da paese a paese, in funzione delle differenti situazioni congiunturali, non compromette ma al contrario agevola la conduzione della politica monetaria da parte della BCE.

La Moneta Fiscale è la soluzione per dare stabilità ed efficienza all’Eurosistema e per risolvere il problema degli altissimi, inaccettabili livelli di disoccupazione nell’Europa mediterranea. E tutto questo senza chiedere agli stati dell’ex area marco (Germania ma anche Austria e Olanda) neanche un centesimo di trasferimenti fiscali (soluzione alternativa che, a quanto dice lo stesso Mervyn King, costerebbe a questi ultimi paesi “il 5% del PIL indefinitamente”).

(17 giugno 2017)

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