La storia della medicina è segnata da un susseguirsi di progressi che hanno sancito l’abbandono nel tempo delle pratiche in uso in favore di altre di maggiore efficacia. Un impulso, questo, in netta accelerazione a partire dalla metà del Settecento, quando la sperimentazione in “doppio cieco” è entrata nelle prassi riconosciute di ricerca segnando, assieme al rapido sviluppo scientifico e tecnologico, una svolta fondamentale nell’affinare il successo delle cure.
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Se possiamo ipotizzare che il ricorso al placebo, se pur inconsapevole, sia stato sempre praticato anche nella preistoria, è solo da quando l’uomo documenta la sua vita attraverso la scrittura che tale ipotesi può essere comprovata. La tradizione scritta dei grandi popoli dell’antichità ci fornisce importanti indicazioni sulle prassi mediche e chirurgiche delle varie epoche rivelando al tempo stesso il ricorso pressoché totale al placebo come terapia di cura. Erano i tempi in cui la medicina era praticata da sacerdoti e sciamani con la convinzione che la malattia fosse il segno dell’ira degli dei. Il placebo si concretizzava perciò in riti, amuleti e sacrifici. Più tardi, con la consapevolezza che la malattia potesse essere dovuta non solo a cause divine ma anche a effetti naturali, inizia la seconda fase della medicina, quella empirica, in cui i guaritori prescrivevano rimedi e intrugli. Il placebo assumeva così i connotati di un preparato a base di erbe o parti animali e si aggiungeva agli aspetti magici scaturiti da oggetti, riti e preghiere.
Terapie inefficaci? Tutt’altro, allora come oggi. È questo il gran contributo di un volume che vuole dare la giusta rilevanza a un fenomeno per lo più ignorato o sottovalutato dalla medicina convenzionale e anzi stigmatizzato da medici e non a sottolinearne l’inutilità. Eppure, come ci dimostra l’autore avvalendosi di un’ampia letteratura a riguardo, gli effetti del placebo superano di gran lunga la “non cura”.
Per placebo (letteralmente “piacerò”, dal latino placere) si intende «ogni procedura deliberatamente attuata per ottenere un effetto o che, anche senza che se ne abbia nozione, svolge un’azione sul paziente o sul sintomo o sulla malattia ma che oggettivamente è priva di ogni attività specifica nei confronti della condizione oggetto di trattamento». Non necessariamente quindi il placebo è un composto. Può essere l’attenzione del medico, un simbolo, una preghiera, un’iniziativa, una diagnosi, addirittura un finto intervento chirurgico dal quale il paziente trae beneficio attraverso il rapporto di fiducia che lo lega a chi lo prescrive. E il beneficio non riguarda solo i sintomi soggettivi della malattia, ma anche alcuni parametri oggettivi di funzionamento dell’organismo. La variabilità dell’effetto naturalmente dipende sia dal tipo di patologia – il volume ne documenta molti esempi – sia dalla personalità del paziente. Ma anche su quest’ultimo punto le sorprese non mancano perché le sperimentazioni non confermano ciò che solo trent’anni fa si ipotizzava, ossia che il placebo “funzioni” meglio su persone poco razionali, inclini alla credulità, non istruite e scarsamente intelligenti. Piuttosto, la risposta sembra legata alle capacità di apprendimento del paziente rispetto alle pregresse esperienze terapeutiche, fattore sul quale le inclinazioni individuali hanno un certo peso al punto tale che è difficile delineare il profilo tipico del placebo-reactor.
Il volume non trascura alcuno degli aspetti connessi al placebo: l’etica legata alla sua somministrazione (dai ciarlatani che offrono cure miracolose al rischio “imbroglio” da parte degli stessi medici nella prescrizione di placebo sotto forma di farmaco), le cure palliative e infine il potere taumaturgico della fede religiosa per i credenti, tipico esempio di placebo non farmacologico. Una menzione a sé va alle terapie non convenzionali, in particolare omeopatia, agopuntura e fitoterapia (inserita indebitamente in questa categoria, come rimarca lo stesso autore). Dobrilla non solo riporta i risultati dei trial clinici disponibili – che non attribuiscono a queste terapie un effetto superiore a quello del placebo – ma ne smaschera anche i falsi miti, uno per tutti la “memoria dell’acqua” dei rimedi omeopatici privi invece, all’analisi chimica, di qualsiasi traccia della sostanza di origine.
Il massiccio ricorso alle terapie non convenzionali, quando non a ciarlatani, maghi e guaritori, evidenzia però un clima sempre più segnato dalla sfiducia nella medicina tradizionale. Su quest’ultimo aspetto l’autore sembra ravvisare proprio nella pratica medica qualche responsabilità: «L’effetto placebo rende massimamente evidente come la natura umana superi il livello della sua dimensione biologica e fisiologica; la malattia è più di una semplice disfunzione, a dispetto di quanto avviene per gli altri viventi. Questa peculiarità modifica lo stesso corso della guarigione, innestandola in un processo più ampio, che mescola reazione chimica ai farmaci e senso che assume la relazione di cura». La denuncia è verso la focalizzazione sempre più spinta della medicina sugli elementi patologici oggettivamente misurabili a scapito dei fattori psichici che insieme ad essi costituiscono il quadro di malattia. In altre parole, la crescente sofisticatezza della strumentazione rende il medico un ingegnere del corpo, ma la tecnologia non può sostituire la valutazione di tutti quegli elementi «che fanno della malattia quell’evento destabilizzante ed emotivamente critico che mette in gioco il senso dell’esistenza stessa».
Sul fronte opposto, ma questa è opinione di chi scrive, le terapie non convenzionali trasmettono il messaggio che il paziente sia al centro della cura nella sua totalità di individuo e non come semplice contenitore di organi da curare. L’ignoranza poi fa il resto in un’era in cui, come disse qualcuno, una laurea in medicina viene equiparata a una ricerca su Google. La diffusione di una gran mole di informazioni mediche (quando non di falsità o conclamate bufale) sul web rende ognuno di noi un esperto di ogni patologia in pochi click. Senza voler fermare il progresso, di cui questo aspetto rappresenta solo il rovescio della medaglia, basterebbe forse che l’approccio medico tornasse a comprendere l’attenzione alla persona nella sua complessità di corpo e mente per recuperare quel rapporto di fiducia funzionale alla guarigione evidenziato in modo così chiaro in questo volume. E magari si arginerebbe anche quello spaccio miracoloso di pseudoterapie il cui successo non va oltre il placebo, sovente vere e proprie truffe.
(28 giugno 2017)
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