contropiano
Ad
una settimana dall’anniversario dei moti del giugno e del luglio del
1960, e della importante manifestazione antifascista che si terrà
venerdì 30 Giugno a Genova, abbiamo ritenuto utile fornire una sintetica
ricostruzione storica ed una testimonianza diretta di quei giorni
concentrandosi sulle vittoriose mobilitazioni nella Superba che
portarono alla cancellazione del previsto congresso del Movimento
Sociale Italiano a Genova e successivamente alla caduta del governo
Tambroni, sostenuto dalla DC e dal partito neo-fascista di Almirante.
«Dieci
lavoratori uccisi in manifestazioni di strada; il rinvio del congresso
del Msi; l’esplodere di manifestazioni in più città; la caduta del
governo Tambroni sorretto dai voti fascisti e la sua sostituzione con il
governo Fanfani, leader della sinistra democristiana: quest’il bilancio
apparente delle giornate di giugno-luglio in Italia…
Vittoria dell’antifascismo?
Sarebbe
falso fermarsi a questi dati, perché sotto questo bilancio occorre
trarre un insegnamento più profondo di quello ricavato dai partiti di
sinistra. Una forza del tutto nuova ha fatto la sua comparsa in queste
giornate: l’elemento che ha fatto saltare sia i progetti della borghesia
che dei partiti di sinistra è stata la massa giovanile operaia e
studentesca»
Il significato dei fatti di luglio, in «Quaderni d’Unità Proletaria», n. 1, 1960
«I
giovani di luglio erano i figli degli operai e dei licenziati, operai e
licenziati pur essi dell’Ansaldo, della San Giorgio, del fossati, della
Bruzzo, dell’Oto, dell’Ilva di bolzaneto, della Bagnara, dei cantieri
navali, del porto, delle piccole e medie industrie che vivono ancor oggi
nell’incubo dei licenziamenti»
La capitale di Luglio, Silvio Micheli, in «Vie Nuove», 22/10/80
Le premesse: Livorno, Bologna, Milano
Le
settimane che precedono i fatti di Genova e gli eventi successivi danno
la cifra del clima politico sociale nel Paese e del fermento della
giovane classe operaia del “boom economico”.
Tra il 18 e il 22 Aprile, prima a Pisa e poi in maniera più estesa e continuata a Livorno,
stanca delle angherie dei parà la popolazione insorge, mentre le
autorità militari lasciano arrivare le squadracce di soldataglia nella
città toscana per “regolare i conti”, dopo avere avuto la peggio la sera
prima: volano sedie, tavoli del caffè, macchinette a gettone sradicate
dai supporti… un capitano dell’Ardenza viene ferito alla gola da un
coltello, un giovane proletario livornese perde un occhio a causa di
una “cintata” di un paracadutista. Il centro città è in stato d’assedio,
le autorità cittadine e le organizzazioni di sinistra fanno fatica a
riportare l’ordine.
Gli
scontri che coinvolgono quasi tutta la città contro parà, Celere,
Mobile e Carabinieri da una parte e la popolazione dall’altra dureranno 4
giorni, anche se scaturiti da un episodio “banale” sono in realtà
rivolti contro i corpi armati specializzati nella repressione.
Queste
quattro giornate si concluderanno con un bilancio di 15 feriti tra le
forze dell’ordine, 10 tra i parà, 11 tra i cittadini. Gli arrestati
saranno 70 e 220 i fermati.
Il 21 maggio a Bologna,
un affollato comizio nella centrale Piazza Malpighi di Pajetta,
antifascista di vecchia data e dirigente comunista, viene ad un certo
punto vietato dal commissario Pagliarulo, che fa partire le cariche sui
presenti dopo aver dato l’ordine di “sciogliere” l’assembramento,
divieto a cui lo stesso Pajetta si oppone.
Le
virulente parole di Pajetta contro il governo italiano, complice della
politica di Eisenhower, accusato di collaborare al sabotaggio del
processo di distensione tra USA e URSS, fanno scattare l’intimazione del
responsabile delle forze dell’ordine.
La
violenta rissa dura circa mezz’ora, con numerosi feriti da ambo le
parti, mentre i tranvieri entrano subito in sciopero portando i mezzi
nelle proprie autorimesse.
Andrea Barbato, in un articolo su l’Espresso definì la rissa «una delle più violente che si siano verificate in Italia dall’epoca della legge maggioritaria».
Il 7 giugno a Milano
la sede dei radicali viene assaltata dai missini nel corso di una
conferenza pubblica su “movimento cristiano e laicismo”, rovesciando il
tavolo della presidenza e usando le sedie come clave per distruggere
quel che potevano. Tra gli aggressori che vengono arrestati dopo pochi
giorni dall’accaduto c’è un consigliere comunale missino di Sesto San
Giovanni. Per il 15 dello stesso mese la giunta municipale di S.S.
Giovanni convoca una manifestazione di protesta.
Il Blocco DC–MSI e il congresso neo-fascista
I
voti del MSI, casa politica nell’Italia “democratica” per i peggiori
boia del Ventennio ed esponenti della Repubblica Sociale Italiana, erano
allora fondamentali per il governo democristiano del marchigiano
Tambroni, la cui carriera politica si concluderà fortunatamente da lì a
poco, bruciata a causa proprio dei moti di piazza passati alla storia come “I fatti di Luglio”.
Per
la cronaca, il politico democristiano feroce anticomunista e
sostenitore del “pugno di ferro” contro i possibili turbamenti
dell’ordine costituito, finirà i suoi giorni stroncato da un infarto nel
febbraio del ’63, pochi giorni dopo che una telefonata di Aldo Moro gli
comunicò che la DC non lo voleva come capolista nelle Marche per le
elezioni politiche di quell’anno.
L’appoggio
esclusivo dei neo-fascisti – benedetto dalle gerarchie vaticane e dal
“partito americano” – al governo Tambroni, verrà fatto pesare dai
missini che con un atto di forza teso a consolidare il loro fondamentale
ruolo di sostegno alla Democrazia Cristiana imporranno, ottenendo
l’autorizzazione, di svolgere il proprio congresso in Liguria, proprio a
Genova e candidando alla presidenza Basile, l’ex-prefetto di Genova,
fedele collaboratore dei nazisti, responsabile dei più efferati eccidi
di partigiani, della massiccia deportazione in Germania di operai
genovesi, nonché ligio esecutore della persecuzione anti-ebraica
nazi-fascista.
Va ricordato che sotto diverso nome le squadracce fasciste (Squadre d’azione Mussolini, Lotta Fascista,
ecc..) continuarono ad agire anche dopo il 25 aprile del ’45 attaccando
Camere del lavoro, Case del popolo, sedi dei partiti di sinistra,
esponenti del movimento sindacale e dei partiti antifascisti.
Tutte
le forze di sinistra, nessun’esclusa, si mobilitano in città per
impedire tale provocazione, nel mentre convergono in quei giorni a
Genova numerose persone con l’intento di impedire lo svolgimento del
congresso.
Allora,
la sinistra, che aveva ancora in parte il coraggio di chiamare le cose
con il proprio nome, non si tirerà indietro di fronte a questa
provocazione e le vibranti parole di Sandro Pertini nel comizio da lui
tenuto in piazza della Vittoria il 28 giugno danno la cifra del
profondo sdegno, anche dei dirigenti della sinistra istituzionale, nei
confronti della provocazione fascista.
Invece di placare gli animi, il suo discorso infervorò maggiormente il cuore della Genova proletaria e antifascista.
Interrogandosi, durante il suo discorso, sul perché ancora allora ci si doveva mobilitare contro i responsabili di un «passato vergognoso e doloroso» che tentano di tornare alla ribalta dichiarerà:
«Ci
sono stati degli errori, primo di tutti la generosità nei confronti
degli avversari. Una generosità che ha permesso troppe cose e per la
quale oggi i fascisti la fanno da padroni, giungendo a qualificare
delitto l’esecuzione di Mussolini a Milano. Ebbene, neofascisti che
ancora una volta state nell’ombra a sentire, io mi vanto di avere
ordinato la fucilazione di Mussolini, poiché io e altri, altro non
abbiamo fatto che firmare una condanna a morte pronunciata dal popolo
italiano venti anni prima».
L’esponente socialista concluse il suo comizio con le seguenti parole:
«Noi,
in questa rinnovata unità, siamo decisi a difendere la Resistenza, ad
impedire che ad essa si rechi oltraggio. Questo lo consideriamo un
nostro preciso dovere: per la pace dei nostri morti e per l’avvenire
dei vivi, lo compiremmo fino in fondo, costi quel che costi.»
Il 30 giugno Genova proletaria trasformò nella pratica le indicazioni di quest’orazione.
Genova, 30 Giugno 1960: No Pasaran!
Il
30 giugno 1960 è il culmine della mobilitazione che ha portato
all’annullamento del congresso del Movimento Sociale Italiano previsto
per il 2 luglio a Genova.
Durante
quei giorni i manifestanti sfidarono l’aria resa irrespirabile dai
lacrimogeni lanciati dalla polizia, i “caroselli” delle camionette che
si lanciavano contro di loro per inseguirli fino ai portici e ai
marciapiedi, i manganelli e le altre armi delle “forze dell’ordine”.
In
quei giorni venne fatta pagare alla canea reazionaria democristiana e
ai suoi servi in divisa il dovuto prezzo per la protezione politica e
militare data allo svolgimento del congresso missino.
Anche
i numeri, per così dire, parlano chiaro e testimoniano di come
manifestanti sul campo abbiano avuto la meglio sugli “uomini in divisa”.
Gli
scontri, infatti, si chiudono con un bilancio di 162 tra funzionari,
agenti ed ufficiali della «Celere» feriti e contusi contro una
quarantina di feriti tra i dimostranti.
La
vittoria dei giovani “con le magliette a strisce”, così come vennero
etichettati dalla stampa dell’epoca i protagonisti degli scontri, venne
fatta pagare a caro prezzo agli altri proletari che nelle settimane
successive scenderanno in piazza contro il governo Tambroni, sostenuto
esclusivamente dai voti della Democrazia Cristiana e dai fascisti del
Msi.
Il
livello dello scontro era tale, non solo per ciò che concerne
l’apparato impiegato dallo Stato, da poter parlare senza esagerazione
del 30 giugno come di un episodio di vera e propria “guerra di classe”.
Questo
è il racconto di un allora giovane proletario di Milano, Primo Moroni,
che insieme a suoi coetanei, così come tanti altri, arrivò in città:
«Quando
siamo arrivati da Milano con l’autostrada, lì quando si scende a Genova
dall’alto, avevano piazzato un cannoncino centoventi montato su un
camioncino degli ortolani, a controllare la strada. Dove cazzo l’avesse
tirato fuori non so bene, ma era un centoventi; io avevo fatto il
militare e sapevo quindi che quello era un centoventi… E poi c’erano le
armi, che sono state usate, non si è sparato, sono state usate come
deterrente. Sono state mostrate. Alla salita del Fondaco, un vicolo che
sale dalla vecchia Genova verso piazza de Ferrari. Ricordo che c’era una
libreria… E dalla salita del Fondaco è venuto fuori ‘sto gruppone, che
aveva dei moschetti e degli sten. E si sono schierati fuori, mentre la
polizia era dall’altra parte di piazza de Ferrari.»
I
moti di piazza del 30 sono preceduti da uno sciopero che in quel giorno
ha paralizzato l’economia della città (un altro sciopero dei portuali
il 25, in protesta contro il divieto prefettizio di un comizio, si era
concluso con scontri) e da una manifestazione oceanica che gli stessi
obiettivi fotografici non riescono a catturare interamente in un solo
scatto.
A
queste mobilitazioni va aggiunto l’attivo sabotaggio di una parte della
popolazione cittadina nei confronti dei congressisti accorsi nel
capoluogo ligure che ha reso per loro Genova una città tutt’altro che
ospitale: i ferrovieri terrorizzavano gli incauti congressisti che
incontravano sui vagoni prefigurandogli scenari apocalittici, i taxisti
portavano gli stessi da tutt’altra parte rispetto all’hotel a cui erano
destinati, i lavoratori alberghieri erano tutto meno che gentili e
servivano pietanze non proprio invitanti…
Questa
reazione popolare era sostenuta da un percorso organizzativo che
durava all’incirca da un mese, non privo di occasioni di frizione e
scontro con i fascisti e la polizia, percorso in cui si mobilitarono
principalmente i giovani proletari e i vecchi partigiani, non solo
liguri.
Dal rapporto del mese di giugno del prefetto di Genova Pianese si può leggere:
«Il
MSI ha scelto Genova per il 6° congresso nazionale… Tale notizia ha
provocato viva reazione negli ambienti partigiani che si propongono
scioperi ed azioni di piazza. Anche il senatore Terracini, nel comizio
tenuto il 2 corrente a Pannesi, ha affermato che la scelta di Genova è
un’offesa ai valori della città decorata con la medaglia d’oro e che
bisogna riunire tutte le forze della resistenza per tale occasione.»
Il
30 giugno, le indicazioni della dirigenza dei partiti della sinistra
istituzionale, che invitano alla calma e temono “provocazioni”, sono
superate dall’azione dei proletari che come un fiume in piena travolgono
la timidezza e la moderazione di questi, costretti ad inseguire e a
legittimare la pratica autonoma dei giovani lavoratori, degli studenti,
dei vecchi partigiani e dei proletari in genere.
Così
racconta Giusy Giani, poco più che ventenne all’epoca dei fatti e
frequentatrice del Circolo Culturale Gobetti di Via XX settembre, che
non indietreggiò di fronte alla violenza poliziesca:
«Io
però non avevo paura, vivevo quel momento in modo un po’
adolescenziale, come una sfida, pensando: “Questo è il momento nel
quale si misura il mio vero valore: devo scoprire se sono una persona
che vuole lottare per la giustizia sociale oppure se sono una che si
lascia spaventare”».
Per
lei, come per altri suoi coetanei, quel momento d’autodeterminazione
della propria esistenza segna una rottura con la pacificazione sociale
imposta fino allora con la repressione poliziesca e la timidezza delle
organizzazioni della sinistra istituzionale.
Le
giovani leve della classe operaia e gli studenti universitari si
trovano per la prima volta fianco a fianco in un’unità d’intenti che non
solo non soccombe alla polizia e impedisce il congresso missino, ma
manda in crisi il governo e da allora fino alla creazione di Alleanza
Nazionale. Viene così “marginalizzato” il peso politico pubblico dei
neo-fascisti che saranno comunque utilizzati in seguito dalla classe
dirigente e dal blocco sociale dominante come manovalanza per le trame
golpiste e le stragi di stato che dal 12 dicembre ’69, con Piazza
Fontana, fino agli anni Ottanta inoltrati, saranno al centro della
strategie dello stato “nato dalla Resistenza”.
Cronaca del 30 giugno e del 1 luglio
Facciamo una breve sintesi di come si svolsero i fatti il 30 giugno e il giorno successivo.
Il
30 la manifestazione si era conclusa senza problemi in piazza della
Vittoria con il comizio del segretario della Camera del Lavoro. La
maggior parte dei dimostranti per tornare a casa dovevano attraversare
per forza la centrale piazza de Ferrari dove centinaia di camionette
bloccavano il flusso della gente che doveva pregare i militi per potere
passare.
Venne
fatta partire la carica improvvisamente, senza che il responsabile di
piazza indossasse la fascia tricolore e facesse i tre canonici squilli
di tromba, fu una carica violenta con le camionette che si muovevano in
mezzo alla folla, i lacrimogeni subito adoperati copiosamente e i
manganelli fatti crepitare.
Ma i manifestanti non indietreggiarono, si riversarono contro i mezzi delle forze dell’ordine.
Sedie
dei bar, assi di legno, ciottoli, pietre, mattoni, paletti di ferro e
relative catene, persino i ferri delle tende dei bar divennero le “armi”
improvvisate del popolo.
Numerose
camionette s’incendiarono, si costruivano barricate, mentre altre
persone giungevano dai vicoli, dove i mezzi delle forze dell’ordine non
potevano entrare ed erano facile preda della collera popolare che
rovesciava dalle finestre su di loro qualsiasi cosa.
Gli scontri durarono ore.
Finì
tutto alle otto quando il presidente dell’ ANPI, non senza difficoltà, a
bordo di una macchina scortata dalla polizia arrivò in piazza per
convincere i manifestanti a rinunciare allo scontro, perché Prefettura e
Questura si erano impegnate a ritirare le forze di polizia.
La
situazione tornò alla calma non senza problemi, e quello stato di
quiete era del tutto apparente perché la tregua servì ad entrambi gli
schieramenti per prepararsi al giorno successivo
Così
mentre le polizia si preparava per cingere la città in un vero e
proprio stato d’assedio con tanto di filo spinato, la Genova proletaria
si adoperava per il giorno seguente per il quale era stato proclamato
uno sciopero generale di 24 ore.
Circolavano
voci di “calate in massa” di fascisti verso Genova dove scontri con i
fascisti, protetti dalla “Celere” avvenivano qua e là, con i missini che
avevano la peggio. Tutto questo in una città con blocchi ovunque e
mezzi dei militi che scorrazzavano a tutta velocità.
Così
lo storico Renzo del Carria ricostruisce quei momenti: «Ma tutta Genova
la notte tra l’1 e il 2 luglio scende ancora una volta nella lotta di
strada in un clima pre-insurrezionale: venti trattori agricoli, alla
testa di una colonna proveniente da Portoria, avanzano per abbattere
gli sbarramenti di filo spinato con cui la polizia aveva isolato piazza
de Ferrari e via XX Settembre. Nei quartieri del porto nella notte di
vigilia si erano confezionate centinaia di bottiglie molotov; nella
cinta industriale intorno alla città si erano ricostruite le vecchie
formazioni partigiane armate pronte a scendere in città», in molti
quartieri si erano erette barricate di pietre e di legname.
Così
il governo, capisce di avere perso la partita e revoca il permesso al
congresso dopo avere cercato invano di farlo svolgere a Nervi,
ottenendo come contropartita il mantenimento dell’ordine da parte dei
partiti di sinistra.
La solidarietà con gli arrestati, la difesa politica al processo, le condanne
Quella
giornata avrà anche come conseguenza l’inevitabile accanimento
giudiziario contro i manifestanti: 50 arrestati durante la giornata
(con una età media di 28 anni e di cui la metà non aveva più di 25 anni)
e i successivi processi. Questi non vennero lasciati soli, ma venne
garantito a loro e alle loro famiglie il necessario supporto durante il
periodo detentivo e l’adeguata assistenza giudiziaria.
Questa la testimonianza d’Eraldo O., un partigiano dell’ANPI:
«Sì, ci assumemmo il fardello di queste famiglie, che io ricordo con particolare commozione, perché molti ormai non ci sono più.
I parenti venivano da noi a chiedere “ma come è stato possibile, non hanno fatto nulla di male”, e noi non avevamo risposte.
Però,
e questo è un fatto unico nella storia, tutte le mattine con un
carretto portavamo a questi detenuti nel carcere di Marassi quanto
occorreva per vivere una giornata meno carceraria possibile. […]
Ricordo che a ognuna di queste famiglie ogni mese veniva corrisposto lo
stipendio che il detenuto avrebbe percepito se fosse stato in libertà.
Ricordo anche che avevamo un calendario dove segnavamo l’indirizzo di
queste persone nel giorno in cui l’ufficiale giudiziario avrebbe dovuto
mettere i sigilli (siamo arrivati anche a questo), e allora noi
versavamo ogni volta 5.000 lire chiedendo il rinvio del sequestro
dell’appartamento. All’ANPI vennero anche addebitate le spese
processuali, gli avvocati della difesa erano quasi tutti volontari e
operavano gratuitamente, ma le spese del processo ammontavano ad una
decina di milioni, all’epoca una cifra enorme, che noi non avevamo
proprio»
Questa
la testimonianza di G.B. Lazagna, il vice-capo partigiano “Carlo”, che
si è occupato anche della difesa degli imputati per i fatti del ‘60:
«Esisteva
già un’organizzazione che si chiamava “Solidarietà Democratica”,
formata nel ’48 per assistere l’ondata dei processi penali a seguito del
14 luglio. […] Naturalmente operavamo tutti gratuitamente, era nella
tradizione risorgimentale e non se ne parlava nemmeno di emettere
parcella. Le arringhe di difesa in genere erano fondate su argomenti
politici come la salvaguardia dei valori della Costituzione e della
libertà personale, sulla legittimità della resistenza – che poi era
stato l’argomento della mia tesi di laurea con Terracini – in caso di
gravi provocazioni. Cercavamo sempre di inserire l’argomento
dell’oltraggio di avere di nuovo il boia Basile a Genova. Noi avevamo
una visione politica dei fatti e consideravamo queste reazioni la
giusta risposta al neofascismo che si stava riorganizzando. Per 25
imputati mettevamo in genere una decina di avvocati, che perseguivano
questa posizione politico-giuridica.»
Il
processo, che si celebra nel 1962 a Roma, e che avrà 43 imputati di cui
sette detenuti e trentasette a piede libero, si concluderà con la
condanna di 41 dei 43 accusati a pene superiori a quattro anni.
L’arringa
finale di Terracini, di cui riportiamo un breve stralcio, da il senso
della difesa politica non solo di quegli imputati ma di quella giornata:
«Io
credo di poter dire, interpretando l’animo degli assenti, che in questi
43 tutti si riconoscono i 100.000 del 30 giugno – professori,
impiegati, studenti, professionisti, i quali rifiutano una distinzione,
una divisione che è tutto artificio, nutrita di vecchi pregiudizi,
insidiosa e grave di danni per gli imputati e umiliante per coloro verso
i quali si pensa esprima invece deferenza e considerazione. Questi 43
rappresentano, così come sono e chi sono, la maturità politica di tutta
la popolazione di Genova, dalla quale appunto quel giorno è pervenuto lo
slancio generoso che li ha spinti alla protesta»
Gli altri centri dei “Fatti di luglio
A S.Ferdinando (RC) il primo luglio si svolgono sciopero
e corteo di un migliaio di braccianti, che si reca alla Camera del
Lavoro, dove si tiene un’assemblea. Dato il numero dei partecipanti non
tutti riescono ad entrare nella sede e sostano sulla piazza antistante
alla Camera del Lavoro. I Carabinieri allora chiudono a chiave
dall’esterno la porta dell’edificio e poi caricano i lavoratori in
piazza, sparando anche colpi di moschetto e di mitra.
Un bracciante viene ferito gravemente.
Intanto
i manifestanti da dentro riescono a sfondare la porta e escono in
piazza, i carabinieri li accolgono con spari ad altezza d’uomo, a causa
dei quali vengono feriti altri due scioperanti.
La reazione dei manifestanti costringe i Carabinieri a indietreggiare, sparando, fino alla caserma.
Cariche e sparatorie durano circa un’ora e mezza, oltre ai tre feriti, numerose donne e bambini vengono picchiati.
A Licata (AG) il 5 luglio si svolge uno sciopero contro il governo Tambroni
Carabinieri
e polizia fatti affluire da altre località dopo numerosi scontri
provocano la morte di un commerciante ucciso da raffiche di mitra alla
stazione ferroviaria.
La giornata si conclude con il ferimento di 24 manifestanti, tra cui tre gravi e di due carabinieri.
A Roma
il 6 luglio una manifestazione contro il governo Tambroni e per la
commemorazione dei caduti della Resistenza a Porta San Paolo, a cui è
stata revocata all’ultimo momento l’autorizzazione, viene violentemente
caricata dalla polizia e dai carabinieri a cavallo. L’intero quartiere
reagisce. Un agente che cade dalla propria jeep durante un “carosello”
si ferisce gravemente, morendo a pochi giorni di distanza. Venti
manifestanti vengono feriti, mentre tre, portati in questura, verranno
torturati.
Il 7 luglio a Reggio Emilia
un comizio contro il governo Tambroni che si dovrebbe tenere in un
teatro si trasforma in una manifestazione di 20.000 persone che
affollano la piazza principale di fronte al teatro. Viene negato il
permesso di posizionare degli alto-parlanti nella piazza. La polizia
carica facendo caroselli, appoggiata dai carabinieri. Le forze
dell’ordine sparano per ammazzare e uccidono cinque persone, tra cui due
ex partigiani, mentre negli scontri rimangono feriti altri 21
dimostranti.
L’8 luglio a Palermo una
manifestazione di protesta contro i fatti di Reggio Emilia si trasforma
in una battaglia vera e propria a causa delle cariche con le jeep della
polizia che spara: tre manifestanti vengono uccisi mentre una donna
muore mentre chiudeva la finestra del proprio appartamento. Altri 36
manifestanti vengono feriti da colpi d’arma da fuoco.
Lo stesso giorno, sempre in Sicilia a Catania durante
uno sciopero contro il governo Tambroni polizia e carabinieri sparano
lacrimogeni a cui i dimostranti rispondono con lanci di sassi ed
erigendo barricate. La polizia inizia i caroselli. Muore un edile
disoccupato prima ferito, poi colpito ripetutamente da più agenti con il
manganello e poi “finito” a colpi di rivoltella da un poliziotto.
Vengono feriti sette dimostranti.
Giacomo Marchetti
***
Avevo
vent’anni il 30 giugno 1960. Ero nato all’inizio della seconda guerra
mondiale. Mio padre “Ce” (Francesco) era un lavoratore del porto di
Genova, un “camallo”, anche mio nonno lo era stato prima di lui. Fece in
tempo a partecipare da richiamato alla guerra sul confine
italo-francese, divenne militante del Partito Comunista e come molti
altri lavoratori si impegnò nella Resistenza al Nazifascismo.
Finita
la scuola nel 1959 scelsi il porto come palestra delle mie aspirazioni.
Il luogo mi aveva sempre affascinato e i racconti che avevo sentito
fare in famiglia – anche i tre fratelli maschi di mio padre erano
portuali – per quanto affascinanti non erano certo all’altezza di quanto
in prima persona riuscivo a vedere e a mettere in memoria. In compagnia
eravamo 8000 lavoratori autogestiti impegnati tutti i giorni in
chiamate, a turni di lavoro, mansioni e professioni necessarie alla
merce che venivano dislocati nei luoghi più disparati sulla banchina, le
navi, i magazzini, i piazzali, camion e vagoni per sbarcare e imbarcare
sulle navi la merce che arrivava e partiva per il mondo intero. La
confusione era massima ma tutti con pochissimi ordini apparenti
riuscivamo come tante formichine a far funzionare questo grande
crogiolo.
Il
dopoguerra fra il 1948 e il 1960 fu caratterizzato in Italia dal
governo democristiano. Per le classi subalterne piegate dalla necessità
di ricostruzione e dalle difficoltà delle condizioni di vita furono
certamente anni difficili. Lentamente ma inesorabilmente la
restaurazione capitalistica mise all’angolo la classe operaia e grazie
al consenso di borghesia, ceto medio e Vaticano, represse anche
politicamente il mondo del lavoro che tanto aveva dato nel periodo della
guerra. La sperequazione sociale, la disoccupazione ma anche
l’immigrazione dal Sud Italia, i bassi redditi e i consumi inadeguati
misero pian piano in discussione i diritti generali e crearono una
piattaforma politica tesa a sdoganare anche i lati più oscuri del
capitalismo verso la destra e i fascisti.
Erano
trascorsi appena 15 anni da quel 25 Aprile 1945 quando durante una
delle tante crisi di governo a chiara maggioranza DC Tambroni primo
ministro pensò che fosse arrivato il momento di utilizzare i voti del
M.S.I. per arrivare alla maggioranza in Parlamento. Un momento dopo il
partito neo fascista indisse a Genova il congresso del partito il 30
giugno. Invitò anche all’introduzione un ex gerarca che aveva guidato a
Genova la repressione della guerra partigiana. Per la curiosità ricordo
il cognome del galantuomo (Basile). Ma non avevano fatto bene i conti
con i genovesi: con chi aveva liberato la città dall’esercito tedesco,
con le organizzazioni democratiche e sindacali, con tanta avanguardia
comunista ma principalmente con tutti quei giovani che volevano una vita
migliore e non ripetere gli errori dell’anteguerra.
Noi
portuali insieme agli operai delle fabbriche, ai tranvieri, ma anche
con categorie del pubblico impiego caratterizzammo ogni singola vertenza
la presenza in piazza dando spesso origine a scaramucce con le forze
dell’ordine. Ci organizzammo in fabbrica e nel porto, ma ci organizzammo
anche nei quartieri e nelle sezioni nei circoli democratici nei partiti
con una forza e una capacità sempre crescente. Anche tanti giovani
disoccupati manifestavano forse per la prima volta la loro presenza
assieme agli antifascisti e agli operai. Il mondo della scuola e
dell’università che non aveva mai brillato di soverchia presenza nel
dibattito politico manifestava sdegno e presenza coerente.
La
CGIL nella sede di Vico Tana in via Balbi divenne forse in quei momenti
il luogo in cui più alto si unificò il rifiuto totale alle scelte di
governo. Noi portuali poi eravamo una storia a parte. La grande quantità
di giovani e di compagni prima e dopo il lavoro si organizzavano e
partecipando alle differenti riunioni, manifestazioni e volantinaggi ma
principalmente nei quartieri coi dirigenti dell’ANPI e sindacalisti
preparavano un’adeguata resistenza. Il congresso del MSI non si doveva
fare a Genova e il governo Tambroni piano piano diventava il secondo
obiettivo da cancellare. E piano piano con la forza di un antifascismo
crescente anche la città tutta si preparò. E non bastò la stampa né la
polizia né i carabinieri e neppure le mitragliatrici dietro i cavalli di
frisia che delimitavano alcune zone (ricordo quella a lato di via XX
Settembre, direzione porto e quelle in cima a via Balbi davanti
all’hotel Savoia) riuscirono a dissuadere gli antifascisti genovesi.
La
CGIL dichiarò lo sciopero politico generale. Il centomila partecipammo
alla manifestazione di piazza della Vittoria con un comizio rovente di
Pertini, ma fu verso le 6 della sera allo sfollare dal comizio che in
piazza De Ferrari ci trovammo una quindicina di camionette della famosa
celere di Padova che presidiavano la piazza dell’attuale Palazzo della
Regione e forse per sfida assieme a un centinaio di manifestanti ci
sedemmo sui bordi della vasca. Forse ci furono urla, forse vennero
lanciate alcune monetine contro i poliziotti certo è che in un momento
il capitano scatenò gli agenti contro noi che a mani nude cominciammo a
resistere ma anche a organizzarci. Il capitano finì nella vasca, alcune
camionette presero fuoco e la gente ognuno di noi cominciò a battersi
trovando strumenti adatti alla difesa.
In
tre ore di battaglia la polizia non guadagnò un metro, anzi a più
riprese rischiò di essere travolta, fortunatamente non usò le armi come a
Reggio Emilia e nel Sud Italia e si andò avanti tutta la sera fino a
mezzanotte quando venne concordata una tregua e una possibile
trattativa. Fu una grande vittoria, il congresso saltò e poi anche
Tambroni dovette rassegnare le dimissioni. In piazza durante gli scontri
incontrai anche il mio papà che mi diede un sonoro scapaccione e mi
disse di tornare a casa per dire alla mamma che tutto andava bene. Aveva
47 anni lo ricordo con la sua canottiera bianca e con la sua attenzione
e baldanza sempre attento e determinato a battersi per le sue idee e i
suoi valori.
Il
30 giugno per me fu il giorno in cui compresi che anche dal basso con
lotte giuste e determinate si possono raggiungere obiettivi quasi
impossibili. E quella giornata preparò tanti magnifici anni che
sarebbero poi arrivati.
Bruno Rossi
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