sabato 24 giugno 2017

Per Stefano Rodotà, per i beni comuni

 dinamopressDecide Roma
Per limitare quel «terribile diritto», come definiva la proprietà privata, ha studiato, scritto e lottato in prima persona. Definendo i beni comuni come terzo spazio tra pubblico e privato. Lo abbiamo incontrato nelle lotte, nelle lotte lo ricorderemo.
Non siamo bravi a scrivere necrologi o coccodrilli, né ci entusiasma accodarci alla schiera di tanti che – in gran parte ipocritamente – oggi ricordano e compiangono Stefano Rodotà. Eppure, ci sentiamo in dovere scrivere qualche parola, con l’animo di chi si trova improvvisamente un po’ più solo in una lotta, e proprio per questo sa da domani di dover lottare con ancora maggiore convinzione.
Cioè che ci lega a Stefano Rodotà è, più di ogni altra cosa, la lotta per i beni comuni.

Per arrivarci, ai beni comuni, Rodotà è partito insegnando a chiamare la proprietà privata con il suo nome più sincero: «Il terribile diritto». Uno studio ormai classico, del 1981, che definiva con lucidità scientifica la proprietà privata moderna, frutto delle rivoluzioni borghesi e fissata nei codici moderni, e contemporaneamente poneva le basi solide per il rinnovo della critica e della lotta contro quel diritto, garantito sì dagli ordinamenti del mondo intero, ma non per questo meno terribile, vettore di esclusione sociale in grado di perpetuare all’infinito le diseguaglianze. Uno sforzo teorico, quello di Rodotà, per molti versi inedito, in grado di coniugare il più classico dei temi comunisti con sorprendente rigore giuridico e fiducia costituzionale.
Un’impostazione, peraltro, mai rimasta isolata, ma che al contrario ha formato una nuova generazione di giuristi che in questi anni si è messa al servizio delle battaglie per i commons, una delle principali fonti di ispirazione per le tante esperienze di lotta che hanno fatto dell’Italia un laboratorio per i beni comuni.
Rodotà aveva ben chiara – e riusciva a spiegarla con il massimo della naturalezza e della semplicità possibile, anche al più non-giurista dei suoi ascoltatori – una concezione dei beni comuni come terzo tra pubblico e privato: un terzo, però, che non ignorava il due, il pubblico e il privato, ma anzi affrontava di petto i limiti dell’uno e dell’altro. Ancora nel 2012, nel suo compendio intellettuale «Il diritto di avere diritti», tornava a scrivere parole di incredibile attualità, soprattutto oggi a Roma: «Anche la proprietà pubblica deve essere liberata dai tradizionali schemi astratti che ancora la imprigionano, demanio e patrimonio, a vantaggio di una classificazione che muova dalle funzioni proprie dello Stato e delle sue articolazioni fino a contemplare beni di cui deve essere garantita la miglior utilizzazione economica possibile. La proprietà privata, dal canto suo, non soltanto è stata relativizzata rispetto agli schemi escludenti ogni interesse diverso da quello del proprietario. Deve pure essere intesa e regolata in funzione delle attitudini dei beni che la costituiscono, riportato, sia pure con modalità peculiari, al fatto che si vive in società». Di qui, l’idea dei beni comuni, che sono quei beni funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali della persona, e che come tali vanno affidati alla gestione diretta delle comunità che ne valorizzano il potenziale e ne traggono i benefici, forzandone la titolarità pubblica o privata oppure riconoscendone la titolarità immediatamente comune, secondo lo schema dell’uso civico.
Rodotà non si è mai accontentato di individuare ed indicare agli altri, con postura accademica, la via: no, ha sempre provato a percorrerla, in prima persona, mettendosi alla testa o al fianco, a seconda dei momenti e delle opportunità. Questo è il senso dell’esperienza della Commissione Ministeriale da lui presieduta, che nel 2007 aveva avanzato una proposta complessiva di riforma del Codice civile nel senso – finalmente – di un suo adeguamento al dettato della Costituzione (soprattutto dell’art. 42). I lavori della Commissione sono diventati noti a livello europeo e mondiale. Le sue proposte, rifiutate a livello parlamentare, da un Parlamento ottuso e autoreferenziale, hanno influenzato e ancora influenzano la giurisprudenza di molti ordinamenti nazionali e sovranazionali, le amministrazioni locali, come pure le sperimentazioni giuridiche prodotte dal basso.
Con lo stesso spirito aveva raccolto la sfida della Costituente dei Beni Comuni al Teatro Valle, dal 2012, insieme a molti altri, confrontandosi stavolta direttamente con le esperienze di autogoverno, di riappropriazione dal basso, di uso civico urbano: l’incarnazione in corpi e in lotte di anni di produzione teorica. Con lucidità, rigore, una verve polemica instancabile ed una incredibile passione aveva affrontato quella straordinaria discussione che, forse, sarebbe potuta andare molto più lontano di dove si è fermata.
La battaglia che «Decide Roma» conduce quotidianamente, affinché l’Amministrazione romana di oggi - governata dal Movimento che sembrava volesse Rodotà Presidente della Repubblica – riconosca i beni comuni urbani, ha un enorme debito nei confronti di Stefano Rodotà. Ci ha aiutato a trovare le parole per dirlo, le parole per esprimere un sincero e motivato odio nei confronti della proprietà esclusiva, le parole per rendere intellegibile a tutti l’altezza e l’importanza per la sfida di ribaltare il moderno regime del possesso, così violento, così ingiusto. Avremmo voluto chiedere, presto, a Rodotà di tornare a discutere con noi, di aiutarci ad alzare forte a Roma la voce di chi sente l’urgenza che questo riconoscimento giuridico dei beni comuni, proprio nella città dove l’autogoverno e l’autogestione hanno costituito un vero diritto dal basso. Perché il diritto non deve essere appannaggio e strumento del potere dall’alto, ma anche arma e scudo per i contropoteri dal basso, così come Stefano Rodotà ricordava ogni volta che poteva. Lo ricorderemo noi.

Nessun commento:

Posta un commento