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Per limitare quel «terribile diritto», come definiva la proprietà privata, ha studiato, scritto e lottato in prima persona. Definendo i beni comuni come terzo spazio tra pubblico e privato. Lo abbiamo incontrato nelle lotte, nelle lotte lo ricorderemo.
Non
siamo bravi a scrivere necrologi o coccodrilli, né ci entusiasma
accodarci alla schiera di tanti che – in gran parte ipocritamente – oggi
ricordano e compiangono Stefano Rodotà. Eppure, ci
sentiamo in dovere scrivere qualche parola, con l’animo di chi si trova
improvvisamente un po’ più solo in una lotta, e proprio per questo sa da
domani di dover lottare con ancora maggiore convinzione.
Cioè che ci lega a Stefano Rodotà è, più di ogni altra cosa, la lotta per i beni comuni.
Per arrivarci, ai beni comuni, Rodotà è partito insegnando a chiamare la proprietà privata
con il suo nome più sincero: «Il terribile diritto». Uno studio ormai
classico, del 1981, che definiva con lucidità scientifica la proprietà
privata moderna, frutto delle rivoluzioni borghesi e fissata nei codici
moderni, e contemporaneamente poneva le basi solide per il rinnovo della
critica e della lotta contro quel diritto, garantito sì dagli
ordinamenti del mondo intero, ma non per questo meno terribile, vettore
di esclusione sociale in grado di perpetuare all’infinito le
diseguaglianze. Uno sforzo teorico, quello di Rodotà, per molti versi
inedito, in grado di coniugare il più classico dei temi comunisti con
sorprendente rigore giuridico e fiducia costituzionale.
Un’impostazione,
peraltro, mai rimasta isolata, ma che al contrario ha formato una nuova
generazione di giuristi che in questi anni si è messa al servizio delle
battaglie per i commons, una delle principali fonti di
ispirazione per le tante esperienze di lotta che hanno fatto dell’Italia
un laboratorio per i beni comuni.
Rodotà
aveva ben chiara – e riusciva a spiegarla con il massimo della
naturalezza e della semplicità possibile, anche al più non-giurista dei
suoi ascoltatori – una concezione dei beni comuni come terzo tra pubblico e privato:
un terzo, però, che non ignorava il due, il pubblico e il privato, ma
anzi affrontava di petto i limiti dell’uno e dell’altro. Ancora nel
2012, nel suo compendio intellettuale «Il diritto di avere diritti»,
tornava a scrivere parole di incredibile attualità, soprattutto oggi a
Roma: «Anche la proprietà pubblica deve essere liberata dai tradizionali
schemi astratti che ancora la imprigionano, demanio e patrimonio, a
vantaggio di una classificazione che muova dalle funzioni proprie dello
Stato e delle sue articolazioni fino a contemplare beni di cui deve
essere garantita la miglior utilizzazione economica possibile. La
proprietà privata, dal canto suo, non soltanto è stata relativizzata
rispetto agli schemi escludenti ogni interesse diverso da quello del
proprietario. Deve pure essere intesa e regolata in funzione delle
attitudini dei beni che la costituiscono, riportato, sia pure con
modalità peculiari, al fatto che si vive in società». Di qui, l’idea dei
beni comuni, che sono quei beni funzionali all’esercizio dei diritti
fondamentali della persona, e che come tali vanno affidati alla gestione
diretta delle comunità che ne valorizzano il potenziale e ne traggono i
benefici, forzandone la titolarità pubblica o privata oppure
riconoscendone la titolarità immediatamente comune, secondo lo schema dell’uso civico.
Rodotà
non si è mai accontentato di individuare ed indicare agli altri, con
postura accademica, la via: no, ha sempre provato a percorrerla, in
prima persona, mettendosi alla testa o al fianco, a seconda dei momenti e
delle opportunità. Questo è il senso dell’esperienza della Commissione Ministeriale
da lui presieduta, che nel 2007 aveva avanzato una proposta complessiva
di riforma del Codice civile nel senso – finalmente – di un suo
adeguamento al dettato della Costituzione (soprattutto dell’art. 42). I
lavori della Commissione sono diventati noti a livello europeo e
mondiale. Le sue proposte, rifiutate a livello parlamentare, da un
Parlamento ottuso e autoreferenziale, hanno influenzato e ancora
influenzano la giurisprudenza di molti ordinamenti nazionali e
sovranazionali, le amministrazioni locali, come pure le sperimentazioni
giuridiche prodotte dal basso.
Con lo stesso spirito aveva raccolto la sfida della Costituente dei Beni Comuni
al Teatro Valle, dal 2012, insieme a molti altri, confrontandosi
stavolta direttamente con le esperienze di autogoverno, di
riappropriazione dal basso, di uso civico urbano: l’incarnazione in
corpi e in lotte di anni di produzione teorica. Con lucidità, rigore,
una verve polemica instancabile ed una incredibile passione
aveva affrontato quella straordinaria discussione che, forse, sarebbe
potuta andare molto più lontano di dove si è fermata.
La battaglia che «Decide Roma»
conduce quotidianamente, affinché l’Amministrazione romana di oggi -
governata dal Movimento che sembrava volesse Rodotà Presidente della
Repubblica – riconosca i beni comuni urbani, ha un enorme debito nei
confronti di Stefano Rodotà. Ci ha aiutato a trovare le parole per
dirlo, le parole per esprimere un sincero e motivato odio nei confronti della proprietà esclusiva,
le parole per rendere intellegibile a tutti l’altezza e l’importanza
per la sfida di ribaltare il moderno regime del possesso, così violento,
così ingiusto. Avremmo voluto chiedere, presto, a Rodotà di tornare a
discutere con noi, di aiutarci ad alzare forte a Roma la voce di chi
sente l’urgenza che questo riconoscimento giuridico dei beni comuni,
proprio nella città dove l’autogoverno e l’autogestione hanno costituito
un vero diritto dal basso. Perché il diritto non deve
essere appannaggio e strumento del potere dall’alto, ma anche arma e
scudo per i contropoteri dal basso, così come Stefano Rodotà ricordava
ogni volta che poteva. Lo ricorderemo noi.
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