Dalle carte di varie
operazioni delle forze dell'ordine emerge come le famiglie criminali
della città utilizzino gli aspiranti uomini di onore come pony express
delle pistole destinate agli omicidi. In cambio, la possibilità futura
di entrare nelle organizzazioni criminali. Don Francesco Preite: "Qui i
boss sono i veri eroi, perché per molti ragazzi rappresentano l'unica
speranza per trovare un lavoro".
Uno in particolare tra questi, all’epoca dei fatti, appena 17enne entra nelle grazie di un elemento di spicco del clan. Porta pistole agli adepti in un periodo di grande agitazione per la cosca. Siamo nel 2014 e di lì a poco – il 15 febbraio – sarebbe stato ucciso a colpi di kalashnikov il nemico di sempre del clan Misceo-Telegrafo, Donato Sifanno. Nei mesi precedenti all’omicidio, il baby custode riceve continui ordini: a testimoniare il solido rapporto tra il minorenne e il clan sono i tantissimi contatti telefonici, strumentali alla consegna di una o più armi (“eh… portami quella che mi … come si chiama… il motore che mi portasti l’altra volta, non quello grosso”). Anche in seguito a un semplice avvistamento del rivale, scatta l’ordine per il minorenne che viene chiamato anche di notte (“ehi mi sto mettendo le scarpe, sto arrivando”.” Ti chiamo di giorno e vieni di notte”. “Sto venendo”). L’armiere – a dispetto della sua giovane età – assume un ruolo importante all’interno del sodalizio, si guadagna la fiducia dei suoi superiori che non disdegnano di coinvolgerlo anche in un momento tanto importante come la preparazione di un omicidio.
Poche ore prima della morte di Sifanno viene intercettata l’ennesima telefonata in cui il ragazzo viene convocato per portare un’altra arma. Seppur il giovane fosse impossibilitato a raggiungere il suo interlocutore (“devo andare a Bari”) viene costretto a modificare i suoi impegni per eseguire l’ordine (“mo devi venire”). Di lì a breve il ragazzino avrebbe raggiunto il malvivente: si sarebbero dati appuntamento sul solito terrazzo, lontani da occhi indiscreti. Il 26 febbraio del 2014 gli uomini del Gico entrano nell’abitazione del 17enne e trovano una pistola semiautomatica, due caricatori, 242 cartucce e mezzo chilo di droga. Risale a 16 anni fa la storia che più di ogni altra scuote l’opinione pubblica (anche se evidentemente non abbastanza). Aveva 11 anni Davide quando qualcuno gli affida l’incarico di portare una pistola nascosta in uno strofinaccio, con 13 cartucce e il colpo in canna da una parte all’altra della città vecchia. I carabinieri fermano il piccolo, lui abbandona l’arma e si dilegua per i vicoli.
“Molti di questi ragazzi non hanno speranza” dice don Francesco Preite, parroco di uno dei quartieri più difficili di Bari. “A maggio scorso – prosegue – abbiamo promosso una campagna di sensibilizzazione ‘Disarmiamo la città’: abbiamo chiesto ai bambini del quartiere Libertà di consegnarci le loro armi giocattolo in cambio di uno spin fidget spinner. E’ stato un modo per sensibilizzare l’opinione pubblica su questo argomento, ma non basta”. E non sbaglia Don Francesco. Dal quartiere Libertà a Enziteto, dal San Paolo a Japigia, i miniboss sono agli angoli delle strade, minacciano con coltelli (quando va bene) i coetanei, li costringono a consegnare loro cellulari e pochi spiccioli. “La politica deve impegnarsi attraverso scelte concrete, da soli non possiamo farcela. Bisogna investire sulla prevenzione attraverso progetti unitari e non frammentari. Qui i boss sono i veri eroi – conclude – perché per molti ragazzi rappresentano l’unica speranza per trovare un lavoro”.
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