giovedì 29 giugno 2017

Mafie. La mafia dei cassonetti gialli: ecco come il crimine guadagna dagli abiti riciclati.

La mafia dei cassonetti gialli: ecco come il crimine guadagna dagli abiti riciclati I vestiti usati che lasciamo nei bidoni delle città sono al centro di un lucroso business delle cosche, che rivende quest materiali senza neppure farli pulire. Così funziona questo giro d'affari milionario.

 

L'Espresso Veronica Ulivieri

Dai cassonetti gialli italiani finiscono in Tunisia e da lì sulle bancarelle dei mercati africani, attraverso un lucroso traffico gestito dalle mafie, soprattutto la camorra. È così che i vestiti usati del nostro paese e del Nord Europa - quelli che appunto vengono depositati nei cassonetti gialli, nella convinzione di fare un atto generoso per qualcuno - gonfiano invece il portafoglio della criminalità organizzata. E non va meglio per i rifiuti plastici mandati in Cina: materiale in certi casi contaminato, inutilizzabile negli stabilimenti europei, diretto a fabbriche inesistenti e smistato a destinazione dalle organizzazioni criminali. In un groviglio di traffici illeciti di rifiuti che unisce Genova a Tunisi e Sfax, Trieste e Livorno a Tianjin.
Tipi diversi di oggetti riciclati, rotte differenti, che però si incrociano attraverso faccendieri e case di spedizione specializzate in export illegale, in grado di falsificare documenti e dare consigli su come aggirare i controlli.
È su questo mondo che sta facendo luce un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Firenze, che vede coinvolte 98 persone e 61 società, con ipotesi di reato di associazione a delinquere e traffico illecito di rifiuti. Un malaffare che riguarda imprenditori impegnati a ridurre i costi all’osso, intermediari con ventiquattrore piene di contanti, consulenti e prestanome italiani e cinesi.


Quello degli abiti di seconda mano è uno dei settori in cui gli affari girano più forte, ma in modo spesso opaco. «Buona parte delle donazioni di indumenti usati che i cittadini fanno per solidarietà finisce per alimentare un traffico dal quale camorristi e loro sodali traggono enormi profitti», ha rivelato uno degli ultimi report della fondazione antimafia Caponnetto. Ogni anno se ne raccolgono 110 mila tonnellate, per un giro d’affari di 200 milioni di euro che dalla Campania hanno portato anche su Prato gli interessi della camorra. Un settore contaminato da estorsione e usura e dalla presenza dei clan Birra-Iacomino e Ascione, sopravvissuto quasi indenne ai contraccolpi delle varie inchieste giudiziarie che negli anni lo hanno coinvolto, mai così ampie però come quella condotta dalla Dda di Firenze con Agenzia delle dogane e Corpo forestale.

Una delle prime è stata quella partita dall’omicidio di Ciro Cozzolino a Montemurlo, il paesino pratese degli stracci. “Ciro o’ pazzo” venne freddato nel 1999 perché aveva assunto il predominio nel commercio degli abiti usati, intralciando così gli affari del clan. Per il suo omicidio nel 2013 sono stati condannati all’ergastolo anche Giovanni Birra e Stefano Zeno, considerati i capi del clan Birra. L’anno prima, i magistrati fiorentini hanno condannato l’imprenditore toscano dei vestiti usati Franco Fioravanti. Per arricchirsi e lavorare tranquillo, gestiva la sua Eurotess con il genero di Zeno, Emanuele Bagnati, facendo l’interesse del clan.

Le aziende di Prato, dove secondo la Direzione nazionale antimafia il clan Birra-Iacomino detiene il monopolio del commercio di stracci, acquistano gli indumenti raccolti in Italia e nel Nord Europa e li rivendono soprattutto in Tunisia. Una volta presi dai cassonetti gialli gestiti formalmente da associazioni benefiche e cooperative sociali, quegli abiti dovrebbero essere selezionati e igienizzati. E invece in diversi casi il trattamento viene solo dichiarato sulla carta: a subire la “sterilizzazione” sono piuttosto i controlli delle autorità.

Lo faceva la Eurotess di Fioravanti, ed è quello che secondo le indagini della Dda di Firenze succedeva in altre aziende del distretto pratese. «La disinfestazione? Io ho la pistola, ti fo’ l’autocertificazione. (...) Se mi viene un controllo è sempre attaccata alla spina», dice un imprenditore intercettato dagli investigatori mentre parla al telefono con uno spedizioniere. Così, dentro ai container in partenza dal porto considerato di volta in volta più sicuro, finiscono nel migliore dei casi abiti non sanificati, oppure spesso direttamente i sacchetti buttati dai cittadini nei cassonetti gialli. Compresi oggetti di tutti i tipi finiti per sbaglio nei bidoni dei vestiti. «Dentro troviamo anche batterie esauste e attrezzi pericolosi», aveva detto già nell’ottobre 2015 alla commissione d’inchiesta del Parlamento sul ciclo dei rifiuti Edoardo Amerini, presidente del Consorzio abiti usati (Conau), che ha sede a Prato.

Proprio Amerini, friulano di nascita e residente a Treviso, è anche presidente e proprietario al 50 per cento di Tesmapri, colosso nella commercializzazione degli indumenti usati di Montemurlo. La società, che nel 2015 ha fatturato più di 16 milioni di euro, da sola tratta circa un terzo di tutti gli stracci raccolti in Italia. Amerini, anche lui indagato, è uno dei personaggi chiave del settore, rinviato a giudizio nel 2013 per traffico illecito di rifiuti insieme ai due soci, Antonio Bronzino, di Ercolano, e la pratese Federica Ugolini, figlia del fondatore di Tesmapri Aldo, il «re degli stracci» anche lui tra gli imputati nel processo iniziato quattro anni fa e ancora in corso.

Un crocevia di rapporti
Per la Dda di Firenze, Tesmapri è l’azienda che ha realizzato maggiori profitti dalle spedizioni considerate irregolari: inviando in Tunisia 25 mila tonnellate di rifiuti tessili avrebbe prodotto un giro d’affari di oltre 14 milioni di euro. È in buona compagnia: tra le società indagate ci sono infatti la Bz, che spedendo in Tunisia 6mila tonnellate di abbigliamento di seconda mano avrebbe generato un profitto di quasi 5 milioni di euro, la Viltex e la Eurofrip, che avrebbero guadagnato quasi 4 milioni di euro per 4mila tonnellate e la Eurotrading International, che inviando nel Paese insieme a Tesmapri circa 4mila tonnellate avrebbe beneficiato di quasi 3 milioni di euro.


Tesmapri è anche il crocevia di rapporti che non appaiono sempre trasparenti. L’azienda ha tra i suoi addetti commerciali il biellese Stefano Piolatto, condannato in passato per usura e allo stesso tempo anche consigliere della cooperativa veneta Integra, attiva nel settore degli indumenti usati. Nella compagine societaria dell’impresa di Montemurlo c’è stato anche l’ercolanese Giovanni Borrelli, «imputato anche di avere avuto ruoli in imprese in odore di camorra», come mette a verbale il deputato Stefano Vignaroli durante l’audizione in commissione Ecomafie di Amerini, che si difende: «Non si è mai presentato a nessun collegio sindacale».

Non solo: Tesmapri ha tra i suoi partner commerciali la società pratese ora in liquidazione Eurotrading International, guidata da Ciro Ascione, figlio di Vincenzo Ascione, entrambi indagati anche nell’inchiesta della Dda di Firenze. Quest’ultimo, originario di Torre del Greco e procuratore speciale della ditta di famiglia, è considerato dagli inquirenti «in collegamento d’interesse» con il clan Birra-Iacomino. È stato condannato all’ergastolo e poi assolto nel 2004 per l’omicidio di Ciro Cozzolino. Un pentito lo ha di nuovo accusato nel 2009, ma non poteva essere processato di nuovo per lo stesso reato. Oggi Vincenzo Ascione è latitante in Tunisia, dove si occupa sempre del business degli abiti usati ed è stato condannato in primo grado insieme al figlio per usura ai danni di un autosalone del pistoiese. Nell’inchiesta della Dda di Firenze c’è anche un’altra azienda pratese ora fallita, la New Trade dei fratelli Franco e Nicola Cozzolino, già coinvolta nella riconversione-bluff della fabbrica Golden Lady di Gissi, in Abruzzo. Secondo gli investigatori avrebbe dichiarato igienizzazioni di abiti in realtà mai avvenute.

Da Prato però non partono solo gli indumenti usati, ma anche i ritagli tessili delle tante ditte cinesi di abbigliamento che hanno messo radici nella città. In questo caso i rifiuti vanno in Vietnam e in Cina, e a effettuare le spedizioni verso l’estremo oriente sono le stesse aziende cinesi, spesso prestando il proprio nome per qualche centinaio di euro: è sufficiente mentire sul contenuto dei contenitori e sperare di non essere sbugiardati dai controlli.

Ma le imprese cinesi del tessile sono buone per tutte le situazioni: a Prato si prestano a fare da paravento anche a spedizioni di scarti plastici. Gli altri anelli della filiera del malaffare sono gli spedizionieri e un manipolo di faccendieri cinesi in stretto contatto con le imprese della madrepatria, sempre a caccia di plastica da pagare bene e subito, senza troppe domande.

Quei container abusivi
Le esportazioni di rifiuti plastici in Cina sono permesse a patto che organizzatore dell’esportazione e destinatario abbiano specifiche licenze rilasciate dalle autorità di quel Paese. In molti casi, tutto si gioca sull’interpretazione della norma: per molte imprese italiane la plastica pronta per il riciclo è una semplice merce e dunque non deve rispettare questi requisiti, per le autorità doganali bisogna attenersi alla normativa cinese, più restrittiva. Un orientamento confermato anche da alcune sentenze della Cassazione. Ma al di là del cavillo normativo, le indagini della Dda di Firenze hanno individuato centinaia di spedizioni di plastica in cui si usavano licenze di terzi, a volte conniventi e ricompensati per il disturbo, altre volte persino ignari. Container che a destinazione potrebbero essere stati presi in consegna da organizzazioni criminali cinesi, e smistati in impianti abusivi.

Così negli anni un mare di plastica è finito a saziare, non sempre in maniera lecita, l’industria cinese affamata di materiali. Carichi in certi casi anche contaminati e inutilizzabili negli stabilimenti europei, a volte fatti passare attraverso le dogane con una qualifica diversa da quella reale. «Ne abbiamo tre (container) che non hanno dentro le polveri, ma hanno dentro i 400 ppm di metallo. Va bene. Non se ne accorgono neanche, è sempre andata», dice un’imprenditrice, intercettata al telefono con un intermediario.

«Quando non si segue l’iter autorizzativo corretto, si perde la tracciabilità del rifiuto. Così c’è il rischio che certi scarti anche contaminati di cui si sono smarrite le tracce ci tornino indietro sotto forma di oggetti come biberon e giocattoli dannosi per la salute e frutto di pratiche di concorrenza sleale», spiega la direttrice del consorzio Polieco Claudia Salvestrini, che ha denunciato il problema in più di un’audizione parlamentare.

E c’è anche l’evasione
Dietro ai traffici si cela spesso anche l’evasione fiscale: i carichi vengono pagati prima della partenza con bonifico da parte dell’azienda cinese, ma nella pratica il conto è più salato e viene saldato di persona dai faccendieri. «Digli a Jimmy (…) di preparare 25 mila euro al nero e li portiamo», dice al telefono intercettato un intermediario italiano a una collega cinese, che subito lo bacchetta per la troppa disinvoltura: «Non dire per telefono nero o bianco, dai…».

Secondo le indagini della Dda, a commettere le irregolarità sarebbero stati anche colossi del settore del riciclo, come la trevigiana Aliplast e la bergamasca Montello, entrambe indagate. La prima, che fattura quasi 90 milioni di euro, è stata acquisita dalla multiutility Hera. La seconda invece, con un giro d’affari di 80 milioni, è l’impianto più grande d’Italia in cui gli imballaggi della raccolta differenziata vengono trasformati in materiale riutilizzabile nei processi produttivi: tratta ogni anno 150 mila tonnellate di rifiuti plastici. Secondo le stime contenute nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, Montello, con quasi duemila tonnellate di materiali spediti, avrebbe generato un giro d’affari illecito di 1,3 milioni di euro, a cui si aggiungono altri 1,2 milioni provenienti da un altro “lotto” di spedizioni da oltre 4.500 tonnellate.

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