Quando
si parla di reddito di base (RdB) sarebbe necessario fare chiarezza,
perché il dibattito sia teorico che politico, soprattutto in Italia, è
molto confuso: reddito di esistenza, di base, minimo garantito, di
dignità, di autonomia, di inclusione, salario sociale, vengono usati
come sinonimi delle diverse proposte, come semplici etichette che
nascondono, in realtà, cose molto diverse.
Il RdB è una proposta molto
chiara e specifica: il pagamento regolare di un reddito (in moneta, non
in natura, come è, in genere, il welfare),
su base individuale (non familiare, come sono spesso i sostegni al
reddito in Italia), universale (per tutti, indipendentemente dalla
condizione lavorativa) e incondizionato (non vincolato ad un requisito
lavorativo o alla volontà di offrirsi nel mercato del lavoro) [1].
Questa nuova forma di welfare viene
presentata spesso dai sostenitori come “la” proposta di politica
economica per superare la precarietà e la disoccupazione dilagante, in
questa nuova fase di accumulazione capitalistica e, a maggior ragione,
oggi, in questo periodo di crisi.
Tale
proposta viene giustificata teoricamente con la ricerca di una
giustizia redistributiva (Rawls), del superamento o arginamento della
povertà e dal ricatto del lavoro (Rodotà), o della riappropriazione dei
frutti della cooperazione sociale (Negri). Spesso, in un’ottica
tipicamente keynesiana, si giustifica il RdB come una “regolazione
istituzionale” per rendere stabile il cosiddetto post-fordismo (un
sostegno ai consumi delle famiglie, nella speranza che questi facciano
crescere l’economia), così come la crescita salariale in relazione alla
produttività avrebbe stabilizzato il fordismo dei Trent’anni gloriosi.
Peccato che la crescita postbellica fosse dovuta alle componenti
autonome della domanda aggregata (investimenti privati delle imprese,
spesa pubblica, esportazioni nette positive), in un contesto
macroeconomico più stabile di quello attuale e in una situazione
internazionale irripetibile, di capitalismo da guerra fredda.
Contrariamente al mito fordista, i consumi sono stati trascinati e,
quando le lotte nella produzione hanno morso, il modello è saltato.
Ciascuna di queste giustificazioni mostrano come il RdB sia una proposta di redistribuzione che non va ad intaccare le cause della
disuguaglianza di reddito e ricchezza, della precarietà del lavoro,
della povertà e delle condizioni di vita insostenibili. Il RdB vorrebbe,
semplicemente, mitigarne gli effetti nefasti.
Effettivamente, misure
come il RdB possono rendere più sopportabile precarietà e disoccupazione
nel breve periodo, ma non le eliminano. Semmai le cristallizzano e le
congelano, soprattutto quando pensate isolatamente, come la panacea di
tutti i mali, al di fuori di un pacchetto di proposte più
onnicomprensivo, teso ad intaccare non solo gli effetti ma anche le
cause di precarietà e disoccupazione. Presentata singolarmente,
sganciata da altre rivendicazioni, si trasforma in un riformismo dal
volto umano: si accetta il capitalismo così come è, generatore di
disoccupazione, precarietà, condizioni materiali di vita insostenibili,
cercando di lenirne gli effetti. Ecco perché questo tipo di proposta può
trovare sostenitori appartenenti a diversi schieramenti politici.
Le
implicazioni sia teoriche che politiche del RdB variano sulla base di
come è effettivamente esplicitata la proposta: un livello di reddito che
permette effettivamente di scegliere tra offrirsi o non offrirsi sul
mercato del lavoro (cioè di uscire dalla “gabbia del lavoro salariato”);
o un livello che diventa una integrazione ad un reddito lavorativo (per
chi lavora) o un sussidio (per gli altri). Il primo tipo, che chiamo incompatibile,
deve essere decisamente superiore al salario medio e permettere
effettivamente di vivere senza lavorare. Il secondo tipo, che chiamo compatibile,
non permette di vivere senza lavorare, ma offre semplicemente una
integrazione al reddito (a chi già lavora) o un sussidio (agli altri),
universalizzando il numero dei beneficiari. Assumendo la teoria marxiana
del valore, secondo la quale si può distribuire solo quello che è stato
prodotto [2], il RdB incompatibile produce una frammentazione, a
livello globale, della classe lavoratrice. Se la classe lavoratrice dei
paesi ricchi può permettersi di vivere senza lavorare (o, almeno, di
fare questa scelta), chi produrrà la ricchezza da distribuire? La classe
lavoratrice dei paesi poveri. I paesi ricchi possono redistribuire RdB,
prodotto (e, andrebbe detto, estratto) dai lavoratori dei paesi poveri.
La classe lavoratrice dei paesi avanzati può permettersi di vivere
senza lavorare perché, per loro, lavora la classe lavoratrice dei paesi
poveri. Non è il mio modo di intendere il superamento del capitalismo e,
men che meno, un capitalismo dal volto umano. Nel caso di un RdB
compatibile, contro le intenzioni dei proponenti, si presenta il forte
rischio di spingere tutta la struttura salariale verso il basso, dovuto
all’effetto Speenhamland [3].
I capitalisti hanno tutto l’interesse a ridurre i salari, visto che la
classe lavoratrice percepisce anche il RdB. L’impresa assume, riducendo
il salario; il lavoratore, inizialmente, ottiene lo stesso reddito di
prima, ma in una spirale di deterioramento. Con il RdB come “pavimento”
il salario può essere ridotto sempre di più. Questa dinamica crea una
massa amorfa di persone che sopravvive ed un crollo della capacità
contrattuale di tutta la classe lavoratrice. Si corre così il pericolo
dell’instaurarsi di un compromesso malsano: i capitalisti offrono bassi
salari e lavori precari e i lavoratori li accettano perché, intanto, c’è
il RdB.
In
merito alla fattibilità pratica di tale proposta, due sono i problemi
che vorrei evidenziare, uno di carattere economico e l’altro politico.
Prima di tutto l’annosa questione del suo finanziamento. Il neoliberismo
imperante ha riformato il sistema di tassazione di tutti i paesi
avanzati, rendendolo molto poco progressivo. In assenza di una riforma
fiscale, che reintroduca un sistema veramente progressivo, e combatta
elusione ed evasione, il RdB finanziato dalla tassazione generale
diventa una semplice partita di giro tutta interna alla classe
lavoratrice: i lavoratori occupati pagano il RdB a coloro che non hanno
lavoro. Non mi sembra una misura il cui costo sia equamente distribuito
tra le classi sociali. La questione politica è non meno importante. Il
neoliberismo è riuscito pienamente a indebolire, sia politicamente che
sindacalmente, la classe lavoratrice. I movimenti dal basso esistono, ma
sono piccoli e frammentati. In questa situazione di debolezza temo che
questa proposta getti le basi per uno scambio con la sinistra “moderata”
(o anche con la destra “sociale”): accettazione, più o meno dichiarata,
della flessibilità in cambio di qualche sostegno al reddito,
probabilmente condizionato.
Va
anche ricordato che, nella realtà, non è mai stato introdotto un RdB
incompatibile [4], ma solo compatibile e, spesso, condizionato. È il
passaggio dal welfare al workfare state tipico del neoliberismo attuale. Workfare è un termine coniato dalla letteratura anglosassone per indicare un sistema di welfare assistenziale
che viene concesso, tuttavia, sotto certe condizioni (per esempio,
seguire dei corsi di formazione o di aggiornamento, aver svolto
determinati lavori utili o sociali, etc.). L’idea centrale è che gli
individui rimangono disoccupati per via di una benefit trap (trappola dei benefici) o di incentivi inadeguati (come sono considerati i sussidi alla disoccupazione). Il workfare,
quindi, vincola i sostegni al reddito alla dimostrazione di una volontà
di lavorare, qualsiasi sia il lavoro e/o il salario offerto. È la
stessa logica ortodossa che ha segnato il passaggio da politiche volte
al full employment (piena occupazione) a quelle volta alla employability (“occupabilità”):
nel primo caso, lo stato keynesiano si preoccupava che la forza lavoro
trovasse un’occupazione; nel secondo, lo stato neoliberista si preoccupa
che gli individui posseggano le giuste caratteristiche per trovarsi un
lavoro: poi sarà il mercato a conciliare domanda e offerta di lavoro.
Esiste,
inoltre, una problematica questione di genere. Alcune femministe
sostengono che il RdB potrebbe rappresentare la remunerazione del lavoro
per la riproduzione, internalizzando così la variabile di genere.
Personalmente, valgono qui le stesse obiezioni che alcune femministe
sollevarono negli anni ’70 circa il salario al lavoro domestico. Il RdB
congela la situazione esistente, poiché non contesta l’uso della
forza-lavoro né per la produzione né per la riproduzione. Si creerà,
anche in questo caso, un compromesso malsano: le donne che svolgono il
lavoro per la riproduzione ricevono il RdB, all’interno di una struttura
sociale che non mette mai a tema questa divisione di genere del lavoro
riproduttivo. Inoltre, il congelamento della divisione di genere del
lavoro di riproduzione implica, necessariamente, quello della divisione
di genere nel lavoro produttivo, poiché, ieri come oggi, la
partecipazione delle donne al mercato del lavoro è fortemente
condizionata dalle responsabilità familiari. Ciò si traduce
nell’accettazione delle disparità di genere che esistono, ancora oggi,
nel mercato del lavoro. Un RdB come risposta alla “questione di genere”
dimostra molto chiaramente come questa proposta, presa singolarmente,
non faccia altro che mantenere lo status quo.
Non
credo quindi che, preso singolarmente, il RdB possa fornire una
risposta all’insicurezza sociale. Proposte di politica economica “di
classe” dovrebbero essere a tutto tondo, concentrandosi su tutti gli
elementi che determinano le attuali condizioni di lavoro e di vita. Al
contrario la proposta del RdB è sempre presentata a sé stante: si
propone il RdB come l’unica soluzione dell’insicurezza sociale,
mantenendo inalterati gli altri elementi del sistema. Non capisco,
inoltre, perché il RdB venga proposto in contrapposizione ad altre rivendicazioni. L’insicurezza sociale non si risolve solo con una trasferimento monetario, come è il RdB, ma soprattutto con condizioni lavorative più sane e con un welfare in beni/servizi veramente universale e funzionante.
Una
politica economica “di classe” con l’obiettivo della riunificazione di
un mondo del lavoro sempre più debole e frammentato deve essere,
necessariamente, più onnicomprensiva e non limitarsi alla richiesta di
“un reddito per tutti e tutte”. Ritengo la proposta del RdB accettabile solamente se inserita
in un quadro più ampio. Prima di tutto, andrebbero discusse la messa al
lavoro, il contenuto del lavoro, il “cosa, come, quanto e per chi si
produce”, accompagnando la discussione con proposte di riduzione della
giornata lavorativa e di aumenti salariali. Inoltre, andrebbe
rivendicata la cancellazione di tutta la legislazione che ha introdotto
precarietà e flessibilità, e delle riforme pensionistiche che hanno
allungato la vita lavorativa riducendo, contemporaneamente, le pensioni.
Infine, ma non meno importante, andrebbe ripensato tutto il sistema del welfare (sia
i trasferimenti monetari, all’interno dei quale si colloca il RdB, che
l’offerta di beni/servizi), rendendolo veramente universale e gratuito,
accompagnandolo ad una revisione del sistema fiscale, per renderlo più
equo e più progressivo, combattendo veramente elusione ed evasione.
Queste proposte eviterebbero fasulle contrapposizioni tra “redditisti”,
da un lato, e “lavoristi” e “salarialisti” dall’altro, e permetterebbero
l’apertura di un vero dibattito sulle condizioni di lavoro e di vita
oggi.
1. Fonte: www.basicincome.org/basic-income
2.
L’interpretazione operaista, poi degenerata in quella post-operaista,
ha fatto un feticcio del “frammento sulle macchine” nei Grundrisse di
Marx. Non solo ne è stata tratta una filosofia a disegno della storia
(dalla sussunzione formale a quella reale), ma la si è poi degradata a
sequenza di figure sociologiche del mondo del lavoro (operaio di
mestiere, operaio massa, operaio sociale, lavoratore cognitivo
cosiddetto immateriale, immediatamente “produttivo”, perno del
cognitariato, e così via). Il tutto all’insegna di notevoli confusioni
concettuali e interpretative. Il brano di Marx è non poco problematico:
si presenta come una troppo facile teoria del crollo quando lo stadio
delle macchine evolve nel primato del general intellect, a causa della riduzione del tempo di lavoro diretto contenuto nelle merci che ne consegue. Ne Il Capitale Marx
stesso chiarirà che la riduzione del tempo di lavoro individuale non è
affatto in contrasto con l’aumento del tempo di lavoro totale; il quale è
anzi sistematicamente spinto dalla lotta di concorrenza dei molti
capitali e della simbiotica espansione dell’estrazione di plusvalore
assoluto e di quello relativo. Come spesso capita, l’errore di ieri, che
aveva una sua grandezza, si riproduce ai nostri giorni in forme
degenerate e impoverite. Nel discorso post-operaista di oggi, dove si
proclama spesso l’esaurimento della teoria del valore, si fa grande
confusione tra, da un lato, la produttività di valore d’uso, di
ricchezza (cui certo contribuisce il general intellect,
e che è però appannaggio del capitale che include in sé il lavoro
concreto) e, dall’altro, la produttività di valore e di denaro (che
resta funzione esclusiva del lavoro astratto, il lavoro vivo
eterodiretto dal capitale). E si afferma l’esaurimento del lavoro
salariato, quando esso ancora si espande su scala planetaria. Si
pretende che la cooperazione sociale del lavoro sia un parto autonomo
del lavoro che “attualisticamente” muoverebbe il capitale, e non,
invece, l’esito della forma determinata dell’inclusione del lavoro
dentro il capitale. Si confonde l’attività di produzione e di consumo:
se è vero che il consumatore oggi partecipa, più che in passato, alla
definizione del valore d’uso sociale della merce (la figura del prosumer),
ciò non ha nulla a che vedere con una generica produttività della
“vita” in quanto tale, tesi che ha raggiunto vette di involontaria
comicità. E si potrebbe proseguire. Su tutto ciò si vedano le
condivisibili critiche di Riccardo Bellofiore e Massimiliano Tomba in
due loro scritti a quattro mani: la postfazione al bel volume di Steve
Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo (Edizioni Alegre, 2008); ed il capitolo “The Fragment on the Machines” and the Grundrisse. “The Workerist Reading in Question”, nel volume Beyond Marx. Theorising the Global Labour Relations in the Twenty-First Century, a cura di Marcel van der Linden e Karl Heinz Roth (Brill, 2014, pp. 345-367).
3. La Speenhamland Law viene analizzata da Polanyi ne La grande trasformazione (1984,
Einaudi, capitolo settimo): essa introduce un sistema di sussidi da
aggiungere ai salari, in relazione al prezzo del pane. Polanyi sostiene
che questo sistema: “introduceva una innovazione sociale ed economica
come quella del «diritto al vivere»”. E prosegue: “Nessuna misura fu mai
più universalmente popolare. I genitori venivano liberati dal peso
economico dei loro figli e i figli non erano più dipendenti dai
genitori; i datori di lavoro potevano ridurre i salari a volontà e i
lavoratori erano al sicuro dalla fame sia che lavorassero sia che non
lavorassero.” (sottolineature mie). Più avanti, prosegue: “Alla lunga il
risultato fu agghiacciante. […] Poco a poco la gente della campagna fu
immiserita.”
4. I paesi che hanno una misura di RdB incompatibile si contano sulle dita di una mano monca. Per quanto ne so, l’Alaska.
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