sabato 24 giugno 2017

Diaz, la politica irresponsabile

Fonte: Il ManifestoAutore: Daniela Preziosi
I leader italiani e in generale le classi dirigenti «hanno affinato modelli collegiali e ultraprotettivi della burocrazia» specializzati nella raffinata arte di arrendersi «di volta in volta all’impossibilità di ricostruire le catene di comando e dunque individuare chi abbia sbagliato». È l’upgrade di un antico male, il consociativismo, quello passato in rassegna in «Irresponsabili. Il potere italiano e la pretesa dell’innocenza» (Rizzoli, 288 pagine, 18 euro) scritto con documentazione ragionata fin nel dettaglio da Alessandra Sardoni, conduttrice di Omnibus (La7) e inviata parlamentare.

Sardoni sceglie alcune vicende recenti come paradigmatiche delle «vie di fuga» dalle responsabilità. Il G8 di Genova, i destini paralleli ma opposti dei ministri Lupi e Cancellieri, il pasticciaccio degli esodati della ministra Fornero, i vantaggi reciproci del guerra fra politica e giustizia, la narrazione postuma del «complotto» che nel 2011 disarcionò Berlusconi. Ne deriva un desolante catalogo di incolpevoli, inconsapevoli, revisionisti, imbrogliatori di matasse, doppiopesisti, professionisti dell’elusione del punto.
L’introduzione parte dal fuoriclasse Matteo Renzi. Che promette «la responsabilità è mia, ci metto la faccia, se non passa la riforma del senato lascio la politica». E poi non lo fa. Ma il conformista di sinistra non si illuda. Con rigoroso uso di un unico metro, Sardoni non risparmia anche quelli che entrano nel racconto da «buoni», nella parte delle vittime. O da capri espiatori, doppi tragici degli incolpevoli.
Così è nel capitolo sulla Diaz dove si ripercorre «l’irresistibile ascesa del capo della polizia» De Gennaro. L’accertamento delle responsabilità giudiziarie – da cui viene assolto – è un percorso accidentato che arriva fino ai nostri giorni. Con quelle politiche va anche peggio: si ferma subito. Non si dimette il capo della Polizia anzi da lì la sua già smagliante carriera ha persino una svolta positiva. Non si dimette il ministro degli Interni Scajola, né il guardasigilli Castelli, che arriva alla caserma Bolzaneto e non vede nulla. Non si dimette il vicepremier Fini: stava in un luogo in cui non doveva, la caserma di Forte San Giuliano. Il magistrato Alfonso Sabella, coordinatore di Bolzaneto per il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, si trasforma poi in tutore della trasparenza. Anche per lui il gip non rileva responsabilità penali. Ma nella sentenza lascia scritto che «la situazione complessiva – e la sensibilità istituzionale che è lecito attendersi da un magistrato – avrebbero probabilmente consigliato maggiore attenzione e prudenza». Il reato di tortura a sedici anni di distanza non è stato approvato. «In qualsiasi altro paese si sarebbe dimesso» diventa il motto di una classe dirigente adolescente, in continua ricerca di alibi, per la quale «scartare la responsabilità personale è funzionale alla conservazione del potere, qualunque esso sia».

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