lunedì 19 giugno 2017

Lo ius soli è un diritto: non è procastinabile, né si può temperare

 dinamopress Antonio Ciniero*
In Italia sono oltre un milione e duecentomila i ragazzi e le ragazze senza la cittadinanza italiana che hanno meno di vent’anni. Ragazze e ragazzi nati in Italia, oppure arrivati da piccolissimi, alcuni addirittura figli di genitori nati in Italia , che per lo stato italiano sono stranieri.  Ragazzi e ragazze che, in moltissimi casi, non si sono mai spostati dal suolo italiano, nemmeno per un solo giorno, la cuipermanenza in Italia è sottoposta ai dettami di quanto previsto dal Testo Unico sulle Migrazioni.

Il dibattito sullo ius soli di questi giorni, la bagarre scoppiata in Senato a causa dei senatori leghisti, l’astensione del movimento cinque stelle, sin dalla sua fondazione su posizioni dichiaratamente xenofobe e razziste (mi pare sia l’unico partito in Italia che preveda il possesso della cittadinanza italiana come requisito per potervi aderire), le manifestazioni fuori da Palazzo Madama organizzate della galassia della destra neofascista italiana, la timida proposta politica - e per molti versi limitata - elaborata dall’attuale maggioranza danno la tara del ritardo storico accumulato dal nostro paese, nonché, diciamolo chiaramente, della totale inadeguatezza dell’attuale compagine politica, e delle precedenti, nell’affrontare temi importanti, epocali, come lo sono quelli legati l’allargamento dei diritti (sociali, civili e politici) a coloro che ne sono privi, a cittadini che, allo stato attuale, vivono, in diversi ambiti, un’apartheid di fatto.
Le motivazioni addotte da chi oggi osteggia l’approvazione della proposta di legge sullo ius soli non hanno ragion d’essere. La paventata paura dell’arrivo massiccio di puerpere sulle coste italiane, l’artata confusione tra allargamento del diritto di cittadinanza e diminuzione dei diritti dei lavoratori, lo spauracchio del terrorismo e della sicurezza, immancabile tema che accompagna il discorso pubblico e le leggi sulle migrazioni nel nostro paese sin dal 1986 (anno della prima legge in materia), hanno polarizzato il dibattito pubblico in due fazioni contrapposte: chi osteggia e contrasta l’adozione del provvedimento sullo ius soli in virtù di argomentazioni che affondano le radici culturali nel retaggio del pensiero colonialista e razzista italiano, mai adeguatamente rielaborato (il primato del sangue, della nazione, del popolo, della cultura), e chi si fa portatore di istanze che rivendicano uno ius soli a metà, pensando di legare e subordinare un diritto fondamentale come quello di cittadinanza alla condizione amministrativa di soggiorno dei genitori del nascituro o a requisiti “culturali” fissati per legge.
Il riconoscimento di un pieno ed egualitario accesso alla cittadinanza è la premessa necessaria per un’azione politica che voglia muovere nella direzione dell’uguaglianza formale e sostanziale di tutti i cittadini. Chiaramente non basta la concessione della cittadinanza per garantire parità di condizioni, sarebbe ingenuo pensare ciò - il caso francese, dove lo ius soli vige sin dal 1800, lo mostra chiaramente - ma non si può, allo stato attuale, pensare di continuare a declinare l’accesso alla cittadinanza in base all’anacronistico (e discriminatorio)  diritto di sangue.
Abbiamo la necessità di ripensare radicalmente il sistema attraverso cui è possibile accedere alla cittadinanza italiana. Il quadro internazionale che caratterizza l’attuale momento storico e il tasso di mobilità umana degli ultimi anni (sempre più spesso si tratta di mobilità alla quale i singoli sono costretti, tanto da motivazioni politiche che economiche) non permettono più di postulare il legame tra nazionalità e cittadinanza.
Esiste un’alternativa praticabile a questo sistema di apartheid di fatto: l’istituzione di una cittadinanza fondata sulla residenza, una cittadinanza aperta e tendenzialmente transnazionale, una cittadinanza non più intesa come emanazione di un’istanza superiore (lo Stato o la nazione), ma come frutto di una convenzione tra cittadini. Solo rifuggendo dalle definizioni nazionali della cittadinanza si potrebbero porre le basi per evitare le forme di discriminazione e di inclusione subalterna a cui una parte dei cittadini nati e/o cresciuti in Italia continua ad essere sottoposta.
Oggi oltre un milione di italiani non riconosciuti come tali risultano di fatto “cittadini di seconda classe”, stigmatizzati a causa delle loro origini, o delle origini dei loro genitori, e delle caratteristiche presupposte delle loro culture di provenienza. Sono cittadini che continuano ad essere sottoposti a continuo controllo e sorveglianza, anche solo per il fatto di voler fare un semplice viaggio. Tutto ciò, semplicemente, non è accettabile, umanamente prima che politicamente!
Quanto più crescerà il ruolo attivo delle generazioni di italiani nati e/o cresciuti in Italia, tanto più sarà messo in discussione il precario equilibrio che oggi regge la convivenza tra autoctoni e nuovi cittadini, per lo meno questo è quello che ci insegna la storia dei paesi di antica immigrazione in Europa. Se fino ad oggi questo precario equilibrio è stato tenuto in piedi grazie alla grande adattabilità dei cittadini stranieri, difficilmente, e a giusta ragione, le generazioni socializzate agli stessi valori e copioni culturali dei loro coetanei italiani accetteranno come immutabile status quo la situazione attuale e le strutturali forme di discriminazione che contempla. Fosse anche solo per questo, il diritto alla cittadinanza piena per ius soli, senza le discriminanti limitazioni che contempla la proposta di legge in questi giorni in discussione, non è più procrastinabile, nemmeno di un giorno!

* Pubblicato su migr/azioni

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