dinamopress Antonio Ciniero*
In
Italia sono oltre un milione e duecentomila i ragazzi e le ragazze
senza la cittadinanza italiana che hanno meno di vent’anni. Ragazze e
ragazzi nati in Italia, oppure arrivati da piccolissimi, alcuni
addirittura figli di genitori nati in Italia , che per lo stato italiano
sono stranieri. Ragazzi e ragazze che, in moltissimi casi, non si sono mai spostati dal suolo italiano, nemmeno per un solo giorno, la cuipermanenza in Italia è sottoposta ai dettami di quanto previsto dal Testo Unico sulle Migrazioni.
Il dibattito sullo ius soli di
questi giorni, la bagarre scoppiata in Senato a causa dei senatori
leghisti, l’astensione del movimento cinque stelle, sin dalla sua
fondazione su posizioni dichiaratamente xenofobe e razziste (mi pare sia
l’unico partito in Italia che preveda il possesso della cittadinanza
italiana come requisito per potervi aderire), le manifestazioni fuori da
Palazzo Madama organizzate della galassia della destra neofascista
italiana, la timida proposta politica - e per molti versi limitata -
elaborata dall’attuale maggioranza danno la tara del ritardo storico
accumulato dal nostro paese, nonché, diciamolo chiaramente, della totale
inadeguatezza dell’attuale compagine politica, e delle precedenti,
nell’affrontare temi importanti, epocali, come lo sono quelli legati
l’allargamento dei diritti (sociali, civili e politici) a coloro che ne
sono privi, a cittadini che, allo stato attuale, vivono, in diversi
ambiti, un’apartheid di fatto.
Le motivazioni addotte da chi oggi osteggia l’approvazione della proposta di legge sullo ius soli non
hanno ragion d’essere. La paventata paura dell’arrivo massiccio di
puerpere sulle coste italiane, l’artata confusione tra allargamento del
diritto di cittadinanza e diminuzione dei diritti dei lavoratori, lo
spauracchio del terrorismo e della sicurezza, immancabile tema che
accompagna il discorso pubblico e le leggi sulle migrazioni nel nostro
paese sin dal 1986 (anno della prima legge in materia), hanno
polarizzato il dibattito pubblico in due fazioni contrapposte: chi
osteggia e contrasta l’adozione del provvedimento sullo ius soli in
virtù di argomentazioni che affondano le radici culturali nel retaggio
del pensiero colonialista e razzista italiano, mai adeguatamente
rielaborato (il primato del sangue, della nazione, del popolo, della
cultura), e chi si fa portatore di istanze che rivendicano uno ius soli a
metà, pensando di legare e subordinare un diritto fondamentale come
quello di cittadinanza alla condizione amministrativa di soggiorno dei
genitori del nascituro o a requisiti “culturali” fissati per legge.
Il
riconoscimento di un pieno ed egualitario accesso alla cittadinanza è
la premessa necessaria per un’azione politica che voglia muovere nella
direzione dell’uguaglianza formale e sostanziale di tutti i cittadini.
Chiaramente non basta la concessione della cittadinanza per garantire
parità di condizioni, sarebbe ingenuo pensare ciò - il caso francese,
dove lo ius soli vige sin dal 1800, lo mostra chiaramente - ma
non si può, allo stato attuale, pensare di continuare a declinare
l’accesso alla cittadinanza in base all’anacronistico (e
discriminatorio) diritto di sangue.
Abbiamo
la necessità di ripensare radicalmente il sistema attraverso cui è
possibile accedere alla cittadinanza italiana. Il quadro internazionale
che caratterizza l’attuale momento storico e il tasso di mobilità umana
degli ultimi anni (sempre più spesso si tratta di mobilità alla quale i
singoli sono costretti, tanto da motivazioni politiche che economiche)
non permettono più di postulare il legame tra nazionalità e
cittadinanza.
Esiste un’alternativa praticabile a questo sistema di apartheid di
fatto: l’istituzione di una cittadinanza fondata sulla residenza, una
cittadinanza aperta e tendenzialmente transnazionale, una cittadinanza
non più intesa come emanazione di un’istanza superiore (lo Stato o la
nazione), ma come frutto di una convenzione tra cittadini. Solo
rifuggendo dalle definizioni nazionali della cittadinanza si potrebbero
porre le basi per evitare le forme di discriminazione e di inclusione
subalterna a cui una parte dei cittadini nati e/o cresciuti in Italia
continua ad essere sottoposta.
Oggi
oltre un milione di italiani non riconosciuti come tali risultano di
fatto “cittadini di seconda classe”, stigmatizzati a causa delle loro
origini, o delle origini dei loro genitori, e delle caratteristiche
presupposte delle loro culture di provenienza. Sono cittadini che
continuano ad essere sottoposti a continuo controllo e sorveglianza,
anche solo per il fatto di voler fare un semplice viaggio. Tutto ciò,
semplicemente, non è accettabile, umanamente prima che politicamente!
Quanto
più crescerà il ruolo attivo delle generazioni di italiani nati e/o
cresciuti in Italia, tanto più sarà messo in discussione il precario
equilibrio che oggi regge la convivenza tra autoctoni e nuovi cittadini,
per lo meno questo è quello che ci insegna la storia dei paesi di
antica immigrazione in Europa. Se fino ad oggi questo precario
equilibrio è stato tenuto in piedi grazie alla grande adattabilità dei
cittadini stranieri, difficilmente, e a giusta ragione, le generazioni
socializzate agli stessi valori e copioni culturali dei loro coetanei
italiani accetteranno come immutabile status quo la situazione
attuale e le strutturali forme di discriminazione che contempla. Fosse
anche solo per questo, il diritto alla cittadinanza piena per ius soli,
senza le discriminanti limitazioni che contempla la proposta di legge in
questi giorni in discussione, non è più procrastinabile, nemmeno di un
giorno!
* Pubblicato su migr/azioni
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