contropiano
Cosa ci racconta la
relazione sulla Spending Review? Non lasciatevi ancora ingannare dal
fascino rassicurante delle parole in inglese, armatevi di curiosità e
seguiteci nella decostruzione di questa narrazione tossica dai risultati
dolorosi.
Secondo la Banca d’Italia, al 31 dicembre del 2016 il debito pubblico italiano era pari a 2.217,7 miliardi. Lo certifica il
Supplemento “Finanza pubblica, fabbisogno e debito”, in cui si
evidenzia un aumento di 45 miliardi rispetto a fine 2015, quando il
debito ammontava a 2.172,7 miliardi (132,3 per cento del Pil).
Nel 2014 il debito pubblico era di
2.134 miliardi (il 133,8% del Pil). In due anni è cresciuto di 83
miliardi (con relativo aumento degli interessi da pagarci sopra a
vantaggio di banche, assicurazioni, fondi di investimento italiani e
stranieri possessori dei titoli di debito) ma è aumentato anche il Pil
consentendo una riduzione percentuale ma non quantitativa. Quando “tutto
il male” (per mutuare i bellissimi romanzi di Stig Larsson) è
cominciato, ossia nel 1992, il debito pubblico era “solo” il 105,2% del
Pil. Ma da allora è entrato in vigore il Trattato di Maastricht e sono
cominciati i governi delle misure “lacrime e sangue” (Amato, Ciampi,
Prodi, Berlusconi) che dichiaravano come obiettivo strategico proprio la
riduzione del debito pubblico. I risultati ci dicono che in venticinque
anni di lacrime e sangue su pensioni, salari, salute, privatizzazioni
che hanno impoverito il paese, il debito è aumentato del 27,5% sul Pil.
Ieri è stata diffusa la relazione
sulla Spending Review, cioè i tagli della spesa pubblica affidati dopo
aver cambiato mano tre volte, al consigliere economico di Renzi,
l’israeliano Yoram Gutgeld.
La relazione ci dice che tra il 2014 e
il 2016 la spesa pubblica è stata tagliata per 3,6 miliardi nel 2014,
18 miliardi nel 2015, 25 miliardi nel 2016 e si punta a 29,9 miliardi
per il 2017. Tagli importanti dunque ma, paradossalmente, non sul piano
della spesa controllata attraverso il”metodo Consip” oggi finito sotto
processo per lo scandalo sull’assegnazione degli appalti. Qui infatti la
spesa è aumentata del 27% (ne riferisce il Sole 24 Ore di oggi a
pag.5).
Ma dove sono stati inferti i tagli? Qui viene fuori tutto il carattere di classe della spending review.
Leggiamo infatti dalla relazione che a
farne le spese sono state soprattutto le amministrazioni locali e i
lavoratori pubblici, diminuiti tra il 2013 e 2016 di ben 84mila unità. E
anche in prospettiva, quando si parla di tagli alla spesa si punta come
“spesa aggredibile” al personale (il 50% della spesa pubblica
aggredibile pari a 164 miliardi) e solo dopo ci sono i 135,4 miliardi
(41%) degli acquisti per beni e servizi pubblici (esattamente lì dove ha
fallito il “metodo Consip”). Insomma si è tagliato dolorosamente nella
carne e nel sangue della gente per poter avere a disposizione un
tesoretto da spendere per salvare le banche e finanziare l’aumento delle
spese militari.
Ricapitolando. Sono venticinque anni
che ci massacrano su ogni aspetto del lavoro e del welfare in nome della
riduzione del debito pubblico, ma questo invece di diminuire è
aumentato. Il paese da decenni è in avanzo primario (cioè spende meno di
quanto incassa) ma va in deficit a causa degli interessi da pagare sul
debito (ben 66,3 miliardi solo nel 2016). Scomparso già dagli anni
Novanta, il “Bot people”, questi interessi vanno ormai a rimborsare solo
banche, fondi di investimento italiani e stranieri, società finanziarie
e assicurazioni, cioè interessi meramente ed esclusivamente privati.
Lo Stato e le istituzioni locali
(Regioni, Comuni etc.) si sono sempre più de-responsabilizzate dalla
gestione dei servizi pubblici esternalizzando e privatizzando a man
bassa, lasciando così degradare complesivamente le città e il paese,
alimentando il razzismo e la guerra tra poveri per poter condurre più
tranquillamente e duramente la “guerra contro i poveri”.
Risultati? Boom della disuguaglianza
sociale, della disoccupazione, dell’impoverimento di massa, dello stato
di polizia, dell’analfabetismo funzionale e crollo delle aspettative
generali del paese (con una emigrazione di italiani all’estero che ormai
ha quasi raggiunto quella dell’immigrazione di stranieri in Italia).
Per fare cosa? Per compiere quale “destino” (quello di cui ha parlato la
Merkel) se non quello di essere un paese subalterno alle oligarchie
finanziarie e alle multinazionali che costruito l’Unione Europea, la
gabbia dell’euro e spingono sulla militarizzazione e la guerra? Un
destino comune agli paesi Pigs che stà perà producendo asimmetrie
dolorose e visibili all’interno stesso del nostro paese tra il nucleo
integrato con l’Unione Europea (Lombardia, Emilia, parte del Nordest
dove c’è quel 20% di imprese che rappresenta l’80% dell’export e del
valore aggiunto in Italia) e il resto del paese che sta andando alla
malora.
E’ questo il meccanismo da spezzare
per rimettere in modo un processo di cambiamento politico e sociale di
segno almeno progressista prima ancora che comunista.
Per questo il 1 luglio ci si vede a
Roma, per provare con Eurostop a rimettere in campo questo processo,
lasciando andare alla deriva la “sinistra” esistente, residuale, ormai
inservibile a tale scopo.
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mercoledì 21 giugno 2017
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