sabato 16 maggio 2015

I conti non tornano.


I contro-pilastri di una politica di sinistra contro le ricette liberiste di Renzi dovrebbero essere la difesa dei beni comuni e del patrimonio pubblico; un piano del lavoro fondato sulla dignità e i diritti delle persone; il ruolo degli investimenti pubblici; la difesa del welfare e dei diritti.

manifesto Giulio Marcon
Le scelte di Renzi seguono il corso delle poli­ti­che euro­pee all’insegna di auste­rità e neo­li­be­ri­smo. Quat­tro sono i pila­stri (ben evi­denti nel Def e nella legge di sta­bi­lità) di que­ste poli­ti­che ita­liane ed euro­pee: le pri­va­tiz­za­zioni, la pre­ca­riz­za­zione del mer­cato di lavoro, il soste­gno agli inve­sti­menti pri­vati (con l’assenza degli inter­venti pub­blici) e la ridu­zione della spesa pubblica.
I quat­tro contro-pilastri di una poli­tica di sini­stra dovreb­bero essere, all’opposto: la difesa e la valo­riz­za­zione dei beni comuni e del patri­mo­nio pub­blico; 
un piano del lavoro fon­dato sulla dignità ed i diritti delle per­sone; 
il ruolo dell’intervento e degli inve­sti­menti pub­blici; 
la difesa del wel­fare e dei diritti. 
E insieme a que­sti, una poli­tica di redi­stri­bu­zione del red­dito fon­data su una poli­tica di giu­sti­zia e pro­gres­si­vità fiscale.

Le poli­ti­che euro­pee — oltre ad essere pro­fon­da­mente sba­gliate– non hanno fun­zio­nato e non stanno fun­zio­nando: dall’inizio della crisi la disoc­cu­pa­zione è aumen­tata media­mente di 5 punti ed il debito pub­blico nell’eurozona è pas­sato dal 65% al 95% sul Pil. Cre­scita non ce n’è, stiamo sem­pre ai con­fini della defla­zione, l’occupazione resta al palo. L’austerità non è la solu­zione, è il problema.
Le poli­ti­che ita­liane hanno seguito l’onda euro­pea e anche que­ste non hanno fun­zio­nato: la disoc­cu­pa­zione è arri­vata ad oltre il 12%, la capa­cità pro­dut­tiva del paese è calata del 25% dall’inizio della crisi i poveri sono diven­tati oltre 6 milioni di poveri.
Nel frat­tempo Renzi ha dato tutto quello che poteva dare alla Con­fin­du­stria (abro­ga­zione dell’articolo 18, ridu­zione dell’Irap, sgravi fiscali, ecc.), ha can­cel­lato i diritti dei lavo­ra­tori e ridotto sel­vag­gia­mente la spesa sociale.
Le strade da seguire? Né Jobs Act, né Sblocca Italia né Buona Scuola
Altre sono le strade che andreb­bero seguite. Non abbiamo biso­gno del Jobs Act (a favore delle imprese e della pos­si­bi­lità di licen­ziare), ma –come pro­pone Sbi­lan­cia­moci– di un Wor­kers Act, fon­dato sui diritti dei lavo­ra­tori e della buona occu­pa­zione. Non abbiamo biso­gno dello Sblocca Ita­lia (a favore dei petro­lieri e dei con­ces­sio­nari di auto­strade), ma di un vero Green Act, come sosten­gono le asso­cia­zioni ambien­ta­li­ste. Non abbiamo biso­gno della Cat­tiva Scuola (che dà soldi alle scuole pri­vate e tra­sforma i pre­sidi in datori di lavoro) ma della rige­ne­ra­zione della scuola pub­blica, come chie­dono le cen­ti­naia di migliaia di stu­denti ed inse­gnanti scesi in piazza lo scorso 5 maggio.
Sono tre le mosse imme­diate– nei pros­simi sei mesi– per un «pro­gramma minimo» per uscire dalla crisi.
  1. Rimet­tere in discus­sione i vin­coli dei trat­tati euro­pei, libe­rando risorse pub­bli­che per gli inve­sti­menti (pub­blici). Por­tando il rap­porto deficit-pil al 4% –come in Fran­cia– si pos­sono recu­pe­rare almeno 20–25 miliardi da desti­nare ad un piano del lavoro fon­dato sugli inve­sti­menti pub­blici, le «pic­cole opere» (lotta al dis­se­sto idro­geo­lo­gico, messa in sicu­rezza delle scuole) e un Green New Deal capace di ali­men­tare nuove pro­du­zioni e con­sumi. Si tratta di una scelta anche di carat­tere stra­te­gico: biso­gna uscire dalla crisi in un modo diverso da quello con cui ci si è entrati, cam­biando il modello di sviluppo.
  2. Inve­stire nella scuola, nella ricerca e nell’innovazione e nel wel­fare –por­tando gli stan­zia­menti alla media dei paesi dell’Unione Euro­pea– rispet­tando gli impe­gni presi con la stra­te­gia «Europa 2020». Senza inve­sti­menti cor­posi in que­sta dire­zione, non solo ven­gono meno i diritti sociali, ma anche la capa­cità di darsi una eco­no­mia di qua­lità. Vanno stan­ziati almeno 5 miliardi di euro che si potreb­bero recu­pe­rare tagliando del 20% la spesa mili­tare, can­cel­lando gli F35 e fer­mando la folle impresa delle grandi opere, Tav innanzitutto.
  3. Serve un piano di lotta all’evasione e di misure per la giu­sti­zia fiscale fina­liz­zato alla lotta alla povertà. Una pic­cola patri­mo­niale del 5 per 1000 sulle ric­chezze finan­zia­rie sopra il milione di euro e una auten­tica Tobin Tax (che col­pi­sca tutti i pro­dotti e le tran­sa­zioni finan­zia­rie) potreb­bero pro­durre 10 miliardi di get­tito che andreb­bero desti­nati a soste­nere i red­diti e le pen­sioni più basse. In que­sto con­te­sto andreb­bero costruite le fon­da­menta per l’introduzione di un red­dito di cit­ta­di­nanza universale
I soldi per que­ste tre alter­na­tive ci sono. Quella che manca è una visione poli­tica orien­tata al supe­ra­mento del para­digma dell’austerità, del modello neo­li­be­ri­sta e –nello stesso tempo– la capa­cità (o la volontà) di libe­rarsi da un gro­vi­glio di inte­ressi subal­terno ai mer­cati finan­ziari, alle grandi imprese, alle ren­dite di posi­zione e mono­po­li­ste delle cor­po­ra­zioni di varia provenienza.
Si tratta di costruire allora le gambe di que­ste pro­po­ste alter­na­tive nella mobi­li­ta­zione sociale di tutti i giorni, attra­verso un’alleanza tra movi­menti, buona poli­tica, pro­te­sta sociale per «cam­biare rotta» ad un paese che –con le poli­ti­che di Renzi– rischia di essere con­dan­nato alle dise­gua­glianze, alla pre­ca­rietà e alla vit­to­ria degli inte­ressi di pochi. L’esito non è scon­tato, ma cam­biare si può.

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