venerdì 1 novembre 2013

Una Spending review a favore del sociale

Si potrebbe legare la Spending review ai vincoli sociali, privilegiando cioè quel che permette di aumentare il reddito e migliora la sua distribuzione.

di Roberto Romano, da sbilanciamoci.info

La legge di stabilità è lo strumento di politica economica del governo per antonomasia. I provvedimenti adottati devono non solo rispettare determinati vincoli di bilancio, sempre più stringenti con i recenti accordi europei, ma permettono di dispiegare il ruolo di agente economico da parte della pubblica amministrazione. Infatti, per definizione le politiche pubbliche sono asimmetriche, cioè si concentrano verso le aree e le persone che più di altre necessitano di misure particolari.

Quindi la legge di stabilità è qualcosa di più di un esercizio ragionieristico; presuppone una analisi della situazione economica del paese sufficientemente precisa per articolare al meglio le misure da adottare.

Il primo aspetto da sottolineare è l’allontanamento progressivo della crescita italiana dalla media dei paesi di area euro. La minore crescita dell’Italia, nel periodo preso in considerazione, è stata pari a meno 11,7 punti percentuali, cioè 175 mld di euro. Una enormità che traduce le differenze di struttura tra il nostro paese e l’Europa nel suo insieme. Ma il punto da sottolineare è il seguente: con il passare degli anni la crescita italiana è sempre più disallineata da quella dei paesi europei.


Indipendentemente dalla situazione economica dell’Italia, almeno rispetto alla media dei paesi europei, il debito pubblico è cresciuto in misura più contenuta di quello della Germania tra il 2000 e il 2012. Il debito pubblico tedesco ha registrato un tasso di crescita del 34,6%, contro una crescita dell’Italia del 16,9%. In qualche misura la minore crescita del debito pubblico italiano da conto della riduzione in valore della spesa pubblica di questi ultimi anni, non certo della crescita del Pil che, come già ricordato, è stata più bassa di 11 punti rispetto all’Europa.

Ma il dibattito sulla spesa pubblica ha trascurato una questione dirimente. Comparando gli investimenti pubblici italiani a quello degli altri paesi europei, in particolare la Germania, si osserva che gli investimenti pubblici sono certamente diminuiti, ma il rapporto con il Pil rimane sempre più alto di quello tedesco. In qualche misura si da conto dell’inefficacia dei progetti d’investimento pubblici adottati dall’Italia. Quindi non serve solo una crescita della spesa pubblica in nuovi investimenti; è necessaria una programmazione all’altezza della sfida del nuovo paradigma tecnologico. Se osserviamo i progetti d’investimento finanziati dalla Legge di Stabilità, è possibile comprendere le ragioni di struttura che inibiscono un certo moltiplicatore degli investimenti pubblici.

Il quadro programmatico della finanza pubblica

Per avere un quadro di riferimento coerente della finanza pubblica, è necessario riprendere la nota di aggiornamento del Def di settembre. In esso è delineato il quadro programmatico di finanza pubblica e gli obbiettivi che si intendono perseguire all’interno di una certa cornice macroeconomica. Il riferimento da prendere in esame è la crescita del Pil. Il Def indica una crescita del Pil dell’1% per il 2014, dell’1,7% per il 2015 e dell’1,8% nel 2016. Un impianto coraggioso alla luce del contesto economico descritto in precedenza, ma necessario per traguardare gli obbiettivi europei di finanza pubblica. Solo una crescita economica dell’1% migliorerebbe l’indebitamento netto: 3% per il 2013, 2,5% per il 2014, 1,6% per il 2015 e 0,8% per il 2016. In realtà, i conti pubblici sono migliori di quello che non si dica: l’indebitamento netto strutturale è ormai pari al meno 0,5% per il 2013, e allo 0,1% per il 2014. Quindi i provvedimenti legati ai tagli di spesa della passata legislatura hanno funzionato (troppo) bene.

Contemporaneamente alla riduzione dell’indebitamento netto, dovrebbe realizzarsi anche una crescita dell’avanzo primario dal 2,9% del Pil del 2014 al 4,5% del Pil del 2016, unitamente ad una contrazione del rapporto debito/Pil dal 132% del 2014 al 125% del 2016. Al netto della spesa per il servizio del debito, la progressiva crescita dell’avanzo primario significa una contrazione secca della domanda aggregata. Più in particolare, la legge di stabilità riduce la domanda interna di quattro punti, condizionando la crescita del Pil, sempre che vi sia una bilancia dei pagamenti in pareggio. Ma se utilizzassimo l’avanzo primario al fine di consolidare la domanda aggregata, sarebbe possibile una crescita del Pil del 4,5%, a cui occorre aggiungere le maggiori entrate, per un ammontare non inferiore a 25 mld di euro.

Il quadro programmato delineato dal governo rimane comunque incerto. Il problema è che nonostante l’incremento della pressione fiscale di circa due punti dal 2011 a oggi, e la diminuzione nominale della spesa pubblica primaria, il debito pubblico è aumentato di 12 punti. Il governo Letta confida nella combinazione tra avanzo primario e il differenziale tra crescita e interessi da oggi al 2017; il fine è quello di rispettare la regola del debito pubblico europea, introdotto con il six pact, in base al quale il rapporto debito/Pil deve ridursi di almeno 1/20 l’anno rispetto al tetto massimo del 60%. Una scommessa, giocata interamente sulla crescita del Pil, difficile da conseguire con questi avanzi primari.

La legge di stabilità

Il governo ha più volte sostenuto che la legge di stabilità prevede interventi per 27,3 mld di euro per il triennio 2014-16, di cui 11,6 mld solo per il 2014. Ma un conto è la manovra economica , cioè la variazione delle poste che fanno capo al bilancio dello stato, un altro conto è l’effetto della legge di stabilità sui conti pubblici. Infatti, le due voci hanno un significato economico profondamente diverso.

Al netto della manovrina per il 2013 di 2 mld di euro, con dei trucchi contabili che fanno storcere il naso, la legge di stabilità produce degli effetti sui conti pubblici in ragione delle maggiori-minori spese-entrate fiscali della manovra economica; la manovra economica ricompone le maggiori-minori entrate e spese, cioè definisce la politica economica. Il che cosa si modifica ha delle enormi implicazioni sull’intera struttura di bilancio.

In generale, la manovra economica, cioè le operazioni tra maggiori e minori entrate, le maggiori e minori spese, solo per il 2014, non è inferiore a 23.528 mln se utilizziamo lo schema del saldo netto da finanziare; oppure 21.157 mln se consideriamo lo schema (europeo) dell’indebitamento netto della pubblica amministrazione. La puntualizzazione è quanto mai necessaria. Infatti, minori o maggiori spese, oppure maggiori o minori entrate fiscali non sono neutrali per il bilancio pubblico, così come non sono neutrali per l’economia del paese.

Consideriamo la cosiddetta clausola di salvaguardia nel suo complesso (2015-2016), che possiamo stimare in 12.500 mln. La clausola di salvaguardia contabilizza 10 mld di euro di maggiori entrate che, in realtà, sono variazioni delle aliquote d’imposta nella misura delle agevolazioni e delle detrazioni concesse ai cittadini, mentre i rimanenti 2.500 mln di spending review sono dei veri e propri tagli lineari. Gli effetti sulla composizione della manovra economica e sull’economia in generale non sono proprio identici: da un lato si riduce il peso dell’economia pubblica nell’insieme del sistema economico, comunque discutibile, dall’altra si compromette l’equità orizzontale e verticale delle imposte. Quindi, la composizione della manovra economica non è neutrale né per il sistema economico, né per le famiglie.

Diversa è l’analisi degli effetti della legge di stabilità sui saldi di finanza pubblica. “Correttamente” il governo cifra gli effetti della legge di stabilità per il 2014 in 12.943 mln e in 12.841 per il 2015. Ai fini dei saldi finali di finanza pubblica fanno premio gli effetti della legge di stabilità, ma in termini di politica economica è significativamente più importante la manovra economica nel suo insieme. Inoltre, analizzando l’andamento delle entrate tributarie tra il 2013 e il 2015, assieme all’andamento delle spese finali della pubblica amministrazione, si osserva che la variazione delle entrate fiscali, in particolare quella tributaria, è del 5,3%, mentre la spesa pubblica si comprime dello 0,4%. Quindi la componente fiscale, sostanzialmente attribuibile alla cosi detta clausola di salvaguardia, ha un peso maggiore di quella della spesa.

In generale, gli obbiettivi di finanza pubblica sono legati alla crescita del Pil. Una crescita importante se consideriamo le previsioni di avanzo primario, che è pur sempre una riduzione della domanda aggregata. Purtroppo il Pil non può crescere di 15 mld rispetto al 2013; si pensi agli investimenti fissi lordi crollati verticalmente in ragione della cancellazione del 20% della struttura produttiva; alla perdita del Pil a parità di potere d’acquisto pari a meno 16%, contro il meno 14% della Grecia; ai livelli di consumo ormai prossimi a quelli del 1992. Se la tendenza di crescita del Pil dell’Italia per il 2014 non sarà in linea con quella dall’Europa (euro), non sarebbe strana una manovra correttiva per centrare l’obbiettivo di indebitamento sul Pil del 2,5%.

Alcune proposte

Partirei dalla più importante misura della legge di stabilità, ancorché “nascosta” tra le pieghe della stessa legge. Infatti, la cosi detta Spending Review deve realizzare almeno un risparmio di 12 mld, ma il dibattito è ancora piegato su luoghi comuni che non aiutano una corretta applicazione. Un conto è armonizzare la spesa pubblica via costi standard, che dovrebbe essere una attività tipica della pubblica amministrazione; un altro conto è aggredire la formazione della spesa pubblica. Oggi nel bilancio dello stato, ma non solo in quello dello stato, ci sono delle poste di spesa che hanno poco a che fare con i costi standard: una parte non trascurabile della spesa pubblica, si pensi alla Tav, agli F35 ed altre opere simili, è soggetta a contratti (privatistici) stipulati dalla pubblica amministrazione. Se non realizzi il progetto, giustamente, si paga una penale. La Spending Review ha senso nella misura in cui aggredisce la formazione della spesa. Si tratta di rivedere le clausole, le tipologie e le modalità dei contratti e delle procedure degli appalti. Una operazione complicata, ma permetterebbe il mantenimento della spesa destinata allo stato sociale e, probabilmente, migliorerebbe la spesa pubblica in senso generale. Si potrebbe costituire una Commissione Parlamentare, affiancata da esperti e dalla Corte dei Conti, senza lasciare a fantomatici “nominati” la scelta della selezione della spesa da tagliare.

Proviamo a stilizzare alcune misure. Alcune spese sono certamente rinviabili; altre spese dovrebbero essere riviste sulla base del criterio dell’efficacia, cioè sulla loro capacità di realizzare reddito aggiuntivo. Infatti, alcune iniziative di spesa non producono reddito, ma rendita oppure opere che lasciano inalterata la struttura del paese. Per esempio il Mose e la Tav producono rendite, mentre le scuole private sono sostitutive di quelle pubbliche.

Per questo occorre una reale Spending Review, ma occorre darsi dei criteri. Un primo criterio potrebbe essere quello economico, cioè cosa riduce la crescita e cosa permette di aumentare il reddito; un secondo criterio potrebbe essere legato a vincoli sociali, cioè che cosa migliora la distribuzione del reddito; un terzo criterio sarebbe quello finanziario, cioè valutare l’impatto delle misure adottate sulle famiglie. Infatti, un conto è il taglio delle spesa pubblica che costringe le famiglie a sostituire la mancata spesa pubblica, un altro conto è l’efficacia dal lato della propensione marginale al consumo.

Il nodo è il seguente: seguire il criterio del bilancio a somma zero, cioè una Spending Review che rivede voce per voce la lista della spesa (e delle entrate).

Infine presterei una maggiore attenzione ai fondi comunitari che, tra diverse poste, valgono non meno di 110 mld (2014-2020). La Commissione europea pone dei vincoli macroeconomici interessanti. Questi vincoli sono da intendersi come crescita della specializzazione produttiva verso settori e attività ad alto contenuto tecnologico. Anche il piano nazionale solleva la questione. La Commissione pone il rafforzamento delle imprese in tale direzione, non il trasferimento o incentivi su questa materia. È un vincolo importante che potrebbe essere di buon auspicio se correttamente inteso. 

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