“Non volevo fare un film militante sull’omosessualità, ho trattato questa coppia come una coppia qualsiasi”. Abdellatif Kechiche
5 / 11 / 2013
Pierre
Carlet de Chambalain de Marivaux, comunemente noto come Marivaux, è
considerato il più importante commediografo di Francia del XVIII
secolo. Nelle sue opere l’innamoramento ricopre sempre un ruolo
centrale - con i personaggi che cercano di mascherarsi per scoprire
se sono corrisposti - attraverso un sottile gioco psicologico. Nella
lingua francese il suo nome ha dato origine al verbo “marivauder”,
che indica lo scambio di proposte galanti. Può essere utile
considerare la cosa approcciando La
vita di Adele, ultimo
lavoro del franco-tunisino Abdellatif Kechiche, Palma d’oro a
Cannes 2013.
Ricordando che il primo film che lo ha reso noto (La
schivata, 2003) era
imperniato sulla rappresentazione dei “Giochi dell’amore e del
caso” messa in scena da una giovanissima compagnia meticcia, apre
ora il suo film in una classe di liceo durante una lezione sul
messaggio filosofico de “La vita di Marianne”, dove viene
analizzato il desiderio allo stato nascente. Incrociando
l’ispirazione fornita ancora una volta da Marivaux con quella che
gli è derivata da “La vita è un colore blu”, graphic novel di
Jiulie Maroh, dove l’autore ha trovato l’amore tra due donne e la
vicenda di una maestra. Suggestivo mix letterario.
Capitolo
1. Adele, liceale quindicenne che sta mettendo a fuoco le coordinate
della propria sessualità, incrocia Emma, un po’ più adulta
studentessa di belle arti dai capelli blu. Colpo di fulmine, passione
incandescente, amore totale e totalizzante. Capitolo 2. Adele è
diventata maestra d’asilo, Emma artista affermata. Tutto diviene
più difficile. Per sviluppare questo semplice assunto Kechiche ci
mette tre ore. Il che ha reso insofferenti parecchi spettatori. Ai
quali potrebbe essere ricordato che il primo montaggio era di cinque
ore, ridotte a tre per poter presenziare a Cannes, due e mezza durava
Cous Cous (20
minuti solo per un pranzo in famiglia) e due e tre quarti il
bellissimo, temerario e sottovalutato Venere
nera. Personalmente
avrei pagato volentieri una cifra per vedere anche le due ore
tagliate. Perché Kechiche necessita di un tempo diverso da quello
convenzionalmente assegnato alla durata di un film. Quando indaga la
scuola e l’insegnamento, dei quali vuole rendere misurabile
l’importanza sia che ci si trovi in un liceo che in una scuola
materna. Quando descrive le relazioni tra adolescenti nella loro
irripetibile commistione di affetto e crudeltà. Quando rappresenta
la diversità solo apparentemente impercettibile delle appartenenze
sociali, quando sottolinea l’importanza culturale del consumo del
cibo quale rito collettivo, quando mette in evidenza lo scetticismo
del suo sguardo su una certa parte del mondo dell’arte e della
cultura. Quando deve mettere sulla schermo senza ellissi e senza
sottrazioni la fisicità del desiderio.
Su
questo punto le cronache si sono parecchio soffermate, soprattutto in
ragione di una sequenza di quasi dieci minuti, che invece è
naturale, né volgare né eccitante, per quanto intensamente
interpretata. Non l’unica. Necessaria, coerente, anche se il brusio
contestualmente percepibile in sottofondo ricorda che il nostro è
massimamente un pubblico di frustrati, che in sala mette il cellulare
in modalità silenzioso e davanti al sesso esibito ridacchia e
tossisce (a proposito: in questo film non compare nemmeno un
telefonino). Sottolineatura energica della non comune partecipazione
delle due interpreti, dalle quali il regista ha preteso il massimo
attraverso estenuanti sessioni di lavorazione: turni fino a 14 ore,
qualcosa come 750 ciak. Ottenendo che recitassero in stato di totale
abbandono, di eliminazione di ogni artificio professionalmente
gestibile, di mancanza di autocontrollo: non a caso, con uno strappo
al protocollo, il presidente della giuria Spielberg ha esteso anche a
loro l’assegnazione della Palma d’oro. Questa percepibile
sofferenza ha reso possibile lavorare per primissimi piani su
dettagli intimi e dolorosi, svelando emozioni, psicologie e
coscienze. Se la personalità di Emma è meno sviscerata perché non
è in oggetto la “sua” vita, di Adele ci sembra un po’ alla
volta di scoprire tutto: della fragilità, della (relativamente)
modesta autostima, della certezza delle scelte, della caparbietà,
del poter arrivare a sentirsi sola, della vulnerabilità inscritta
nella condizione sociale. Del suo non essere lesbica, nel senso
convenzionale di appartenenza a un genere, pur avendo un’altra
donna quale assoluto oggetto di desiderio.
Kechiche
rivendica ancora una volta orgogliosamente le sue origini e la sua
cultura franco-tunisine, proponendosi come il miglior regista
francese di questo tempo assieme a Michael Haneke, guarda caso
austriaco d’origine. Da tutta la sua cinematografia traspare una
attenzione nei confronti del mondo francese che sembra passare
attraverso il filtro delle sue radici maghrebine per formulare
comunque una critica, in diversa misura esplicitata, al modo di
essere dei francesi. In questo film è una suggestione che viene
relegata sullo sfondo di alcune scene d’insieme, emerge in
trasparenza come il fondale della città di Lille (identificabile
solo perché ne sentiamo fare il nome) per farsi più nitida nei
quadri familiari, nelle dinamiche di invidia e aggressività, di
perimetrazione di gruppo, di socialità modaiola. Una critica alla
società europea del nostro tempo, al suo ceto medio dominante, alla
sua debolezza sul terreno dei diritti, attenuata dalla malinconia che
si annuncia all’inizio della narrazione e si accentua nel finale.
Critica che comunque cede davanti all’affetto verso due donne
diversamente giovani che sanno parlarci sinceramente della loro
generazione, del sistema delle relazioni, della naturalezza della
sessualità anche nella sua declinazione omosessuale, delle
contraddizioni che squarci di cronaca nera periodicamente ci
rimandano, dei sentimenti e delle passioni, degli errori e delle
rivincite. Un incontro che stravolge la vita, una folgorante storia
d’amore, un contesto di differenza di classe, un destino che gioca
contro: c’è tutto quello che ci riguarda. Compreso lo sguardo
sospeso di Adele, che quando nell’ultima sequenza si allontana
dandoci le spalle indossa l’abito acquistato da tempo per
l’occasione. Di colore blu.
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