Ci sono tanti modi per finire una carriera politica. Quello che la sorte ha riservato a Nichi Vendola è uno dei peggiori, proprio perché Nichi Vendola non era tra i politici peggiori. Aveva iniziato bene, con un impegno sincero contro le mafie e l’illegalità. Aveva pagato dei prezzi, ancor più cari di quelli che si pagano di solito mettendosi contro certi poteri, perché faceva politica da gay dichiarato in un paese sostanzialmente omofobo e da uomo di estrema sinistra in una regione sostanzialmente di destra. Ancora nel 2005, quando vinse per la prima volta le primarie del centrosinistra e poi le elezioni regionali in Puglia, attirava vastissimi consensi e altrettanti entusiasmi e speranze. E forse li meritava davvero.
Poi però è accaduto qualcosa:
forse il potere gli ha dato alla testa, forse la coda di paglia dell’ex
giovane comunista ha avuto il sopravvento, o forse quel delirio di
onnipotenza che talvolta obnubila le menti degli onesti l’ha portato a
pensare che ogni compromesso al ribasso gli fosse lecito, perché lui era
Nichi Vendola. S’è messo al fianco, come assessore alla Sanità (il più
importante di ogni giunta regionale) un personaggio in palese e quasi
dichiarato conflitto d’interessi, come Alberto Tedesco. S’è lasciato
imporre come vicepresidente un dalemiano come Alberto Frisullo, poi
finito nella Bicamerale del sesso di Gianpi Tarantini, a mezzadria con
Berlusconi. Ha appaltato al gruppo Marcegaglia l’intero ciclo dei
rifiuti, gratificato da imbarazzanti elogi del Sole 24 Ore quando la
signora Emma ne era l’editore. Ha attaccato, con una lettera di chiaro
stampo berlusconiano, il pm Desirée Di Geronimo che indagava su di lui.
Ha incassato un’archiviazione da un gip risultata poi in rapporti
amichevoli con lui e la sua famiglia. Ha stretto un patto col diavolo
del San Raffaele, il famigerato e non compianto don Luigi Verzé,
consegnandogli le chiavi di un nuovo ospedale a Taranto da centinaia di
milioni. E si è genuflesso dinanzi al potere sconfinato della famiglia
Riva, chiudendo un occhio o forse tutti e due sulle stragi dell’Ilva. Il
fatto che, come ripete con troppa enfasi, non abbia mai preso un soldo
dai Riva (diversamente da Berlusconi e Bersani), non è un’attenuante,
anzi un’aggravante. Non c’è una sola ragione plausibile che giustifichi
il rapporto di complicità “pappa e ciccia” che emerge dalla telefonata
pubblicata sul sito del Fatto fra lui e lo spicciafaccende-tuttofare dei
Riva: quell’Archinà che tutti sapevano essere un grande corruttore di
politici, giornalisti, funzionari, persino prelati. Un signore che non
si faceva scrupoli di mettere le mani addosso ai pochi giornalisti non
asserviti. In quella telefonata gratuitamente volgare, fatta dal
governatore per complimentarsi ridacchiando con il faccendiere della
bravata contro il cronista importuno, non c’è nulla di istituzionale:
nemmeno nel senso più deteriore del termine, nel più vieto luogo comune
del politico scafato che deve tener conto dei poteri forti e delle
esigenze occupazionali. C’è solo un rapporto ancillare e servile fra
l’ex rivoluzionario che si è finalmente seduto a tavola e il potente che
a tavola ha sempre seduto e spadroneggia nel vuoto della politica e dei
controlli indipendenti, addomesticati a suon di mazzette. Il darsi di
gomito fra gli eterni marchesi del Grillo, “io so’ io e voi nun siete un
cazzo”. Questo ovviamente in privato, mentre in pubblico proseguivano
le “narrazioni” e le “fabbriche di Nichi”. La poesia sulla scena, la
prosa dietro le quinte. La telefonata con Archinà è peggio di qualunque
avviso di garanzia, persino di un’eventuale condanna. Perché offende
centinaia di migliaia di elettori che ci avevano creduto, migliaia di
vittime dell’Ilva e i pochi politici che hanno pagato prezzi altissimi
per combattere quel potere malavitoso. Perché cancella quello che di
buono (capirai, in otto anni) è stato fatto in Puglia. Perché diffonde
il qualunquismo del “sono tutti uguali”. Perché smaschera la doppia
faccia di Nichi. Perché chi ha due facce non ce l’ha più, una faccia.
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