Difendere la rete è un dovere politico, civile e morale. Si tratta
della principale intelaiatura della biblioteca dei saperi dell’età
digitale e mettere bavagli è un delitto. Per questo c’è da avere la
massima attenzione a temi sensibili come il copyright, evitando assurde
invasioni nel legittimo campo parlamentare da parte di un organo
amministrativo come l’Agcom. Così vanno respinti i tentativi di mettere
censure, che costantemente riaffiorano come riflesso dell’impotenza del
ceto politico.
il manifesto Vincenzo Vita
Proprio per questo, però, non è credibile fare ostruzionismo contro
la tassazione delle entrate dei grandi gruppi (da Google ad Amazon, i
cosiddetti «over the top»), che operano anche in Italia con successo. Il
tema è entrato nella discussione pubblica per un emendamento proposto
al progetto di legge di stabilità presso la commissione bilancio della
Camera, teso a regolarizzare la posizione fiscale delle nuove imprese
cross-mediali. Queste ultime superano furbamente i concetti di tempo e
di spazio dell’era analogica domiciliandosi dove le aliquote sono
inferiori, come l’Irlanda o il Lussemburgo. Esattamente come fanno
diversi evasori eccellenti, di cui la cronaca parla con frequenza. Alla
faccia dell’equità. Non è serio, e bene sarebbe che si desse prova di
responsabilità con un atteggiamento e una cultura egemonici rispetto
alla società dell’informazione.
Senza assumere tale fisionomia, i grandi soggetti della rete
rimarranno confinati nelle sottoculture «devianti», tollerati ma non
assunti a protagonisti di un altro modello produttivo. È una sfida
seria. Google, per citare il caso più noto, raccoglie ormai circa 500
milioni di euro di pubblicità solo in Italia, subito dopo le vecchie
televisioni e compete con i maggiori gruppi editoriali. Del resto,
l’advertising on-line è l’unico comparto in crescita (+18% nel primo
quadrimestre del 2013, dati Nielsen) in un periodo del tutto recessivo. A
livello internazionale la stessa Google è la regina della raccolta nel
«mobile», 4,6 miliardi di dollari e il 52% del settore; e bene si
difende con il 33,2% nell’on-line (dati emarketer). Amazon sta via via
soppiantando le librerie e il resto della nomenclatura dei nuovi ricchi è
noto. Non si comprendono le polemiche, piuttosto artificiose e
strumentali, che fanno del male alla credibilità della rete. Lasciamo
stare la dialettica in seno al Movimento 5Stelle, o qualche commento
ammaliato dal fascino discreto dei padroni digitali (accadeva, eccome,
con Rai e Mediaset). Il tempo sarà galantuomo. Ci si prenda cura,
piuttosto, dell’economia politica del sistema.
Ecco, allora, un’ipotesi redistributiva favorevole a chi fatica a
vivere in un mercato concentrato prima e dopo la famosa rivoluzione
tecnologica: si aggiunga una norma finalizzata a finanziare il fondo per
l’editoria non profit, ora del tutto insufficiente, e l’emittenza
locale.
Già si sentono le voci stizzite degli interessati, come si sono
sempre sentite (e subite) quelle di Publitalia o Sipra di fronte a
propositi omologhi. Ma ben poco avviene per pura solidarietà. È lo stato
democratico a dover difendere la libertà di informazione, indirizzando
il futuro verso una globalizzazione aperta e socialmente consapevole.
Non verso un far-west ancor più prepotente e selvatico.
Insomma, se è grottesco ingaggiare una guerriglia con gli «over the top»
per la pubblicazione di qualche articolo carpito da una rassegna stampa
o immaginare leggine medioevali per filtrare la rete, altro è prendere
atto dei nuovo percorsi del valore. Una piccola «patrimoniale» digitale.
Chi si scandalizza indirizzi gli anatemi verso i tagli della spesa
sociale o la condizione precaria in cui vivono e lavorano gli e-worker. O
guardino al resto d’Europa. Se c’è un giudice a Berlino, vale per tutto
e non solo quando fa comodo.
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giovedì 14 novembre 2013
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