“Il boomerang”: lo riconosciamo, mai titolo fu più appropriato. Quei pochi lettori che ancora comprano il manifesto nella speranza di trovarvi se non un “quotidiano comunista” almeno un po’ di coraggio, ancora una volta saranno rimasti frustrati. Così, all’indomani della nuova grande giornata di assedio a Roma contro il vertice Letta-Hollande, in prima pagina campeggia un breve corsivo che è una summa dei più triti cliché della sinistra, quelli che l’hanno portata all’esaurimento. Non serve fantasia per immaginarli: il “migliaio di persone” di Roma (che diventano “5 mila” nella striminzita cronaca nascosta nelle pagine interne) “screditano” le ragioni delle 40mila persone che hanno sfilato sabato in Val di Susa e la “forza della non-violenza” (ah, da quanto non sentivamo questa litania, dai tempi di Bertinotti: a proposito, che fine hanno fatto lui e i suoi sodali, si sono forse dispersi nei fumi “non-violenti” dell’Ilva di Taranto?).
Tutto questo come se tra la manifestazione in Valle e l’assedio di Roma non ci fosse una continuità diretta. Come se il movimento No Tav non avesse discusso e deciso collettivamente, come sempre fa, di prendere parte alla costruzione del processo del #19O – processo ben più ampio e articolato, con il protagonismo dei movimenti dell’abitare, territoriali, studenteschi, dei lavoratori migranti. Come se questo movimento non si fosse connotato in questi anni per la straordinaria capacità di articolare livelli di lotta, figure ed espressioni soggettive differenti. Come se, soprattutto, fossero i media (dal Partito di Repubblica al Corriere, passando per gli utili idioti delle testatine di sinistra) a decidere chi fa parte del movimento No Tav e chi non ne fa parte, chi ne afferma le ragioni e chi le scredita.
Siamo alle solite: quando i No Tav lottano in valle contro la devastazione delle proprie vite sono accusati di sindrome Nimby, quando affermano la necessità di portare la valle in città sono accusati di violenza. La verità è che una manifestazione come quella del 20 novembre, in piena continuità con il #19O, mostra la forza di generalizzazione che il movimento No Tav ha conquistato. Oggi migliaia di giovani, precari, migranti, studenti e disoccupati in Italia e in Europa sostengono le ragioni del movimento No Tav non semplicemente per solidarietà né tanto meno per mera ideologia, ma perché quel movimento esprime i bisogni e la rabbia di chi subisce la crisi e non ne vuole più pagare i costi. Perfino nella “base” del Pd e della sinistra (se di “base” si può ancora parlare, per partiti divenuti scatoloni vuoti nelle mani di faccendieri e rentier della politica), così come tra le file dei suoi accademici, in molti comprendono e sostengono queste posizioni contro i suoi vertici. Anche solo ribadendo, ad esempio, che in tempi di una crisi sempre più dura le priorità sono la casa, il reddito, le scuole, gli ospedali e il welfare, e non certo un’opera inutile che puzza di mafia, speculazione e corruzione. Per questo oggi dire “no tav” significa dire “no all’austerity”, ovvero “una sola grande opera: casa e reddito per tutt@”. Oggi il Pd non è solo unpartito che sostiene il Tav: è il partito del Tav, in cui ci sono i suoi interessi economici (leggi sistema delle cooperative) e di legittimazione (leggi dimostrarsi la forza dell’ordine e della compatibilità). Attaccare i simboli di questo partito significa attaccare questi interessi, il Tav e l’austerity.
Ebbene sì, “il boomerang” ritorna sulla testa di chi l’ha lanciato, degli orfani di una sinistra e di un partito a cui fare le pulci, di chi ha scelto per sé l’eterno ruolo della mosca cocchiera. E di piccole mosche cocchiere, in quella storia giunta al capolinea, ce ne sono tante, sempre pronte a esaltare le rivolte in tutti i remoti angoli del pianeta per poi gridare al complotto e alla provocazione per le lotte sotto casa. Salvo poi, quando fiutano la convenienza, saltare sul carro dei vincitori. D’altro canto, con sprezzo del ridicolo, c’è chi fino al mattino del 12 ottobre aveva imboccato la “via modesta”, per poi tuffarsi la sera del 19 ottobre nella sollevazione generale. C’è chi (più o meno gli stessi) è passato dall’inciucio con Vendola all’affermare di aver sempre sostenuto che la sua infame risata di complicità con i padroni rappresenta la fine di quella sinistra istituzionale che fino a qualche mese fa, tutti insieme, volevano ricostruire. Tant’è, questi sono i tappi che il processo del #19O si sta impegnando a far saltare. E tutto sommato, anche le giravolte del ceto politico e intellettuale di movimento dimostrano la forza di quello che stiamo costruendo. Rottami come il manifesto, evidentemente, proprio non ci possono arrivare: non diciamo da un punto di vista politico (lì ogni speranza è morta), ma almeno – come fanno appunto i saltimbanchi di movimento – per mero calcolo di mercato...
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