giovedì 6 febbraio 2020

U.S.A. “Which Side Are you On?” La posta in gioco delle elezioni USA.

Qualcosa ci dice che l’elezione presidenziale che si svolgerà il 3 novembre negli Stati Uniti non sarà business as usual, specie se dalle primarie del Partito Democratico, iniziate questo 3 febbraio nello Iowa, emergerà come vincitore l’outsider Bernie Sanders.
 
 

Come affermava Marco D’eramo, prima delle precedenti elezioni presidenziali: «presentarsi come candidato affermando di essere socialista era come concorrere a un posto di maestro elementare dicendo di essere pedofilo».
Perché la storia del socialismo “a stelle e a strisce” è lunga quando la rabbiosa reazione delle classi dominanti al sentir pronunciare la sola parola.
Donald Trump è solo l’ultimo di una lunga lista ed anche nel discorso sullo stato dell’Unione l’altro ieri ha tuonato contro “il socialismo”. In questo caso si trattava della Medicare For All, cioè della campagna per una sanità pubblica universalmente gratuita promossa, proprio da Sanders e fatta propria da una settantina tra deputati e senatori.
Un’idea quelle cure mediche per tutti, che i sondaggi indicano da tempo essere vista favorevolmente dalla stessa base repubblicana.
È chiaro che l’establishment democratico ha più paura di una vittoria alle primarie di Sanders che di una vittoria di Trump alle presidenziali; e il “pasticciaccio” nella gestione della conta dei voti in Iowa ci dice proprio questo.
È l’unico che può competere con Trump e strappargli parte di quella base sociale che ne ha permesso la vittoria alle scorse elezioni presidenziali.

Diciamo che dopo il “Superbowl”, l’elezione nel piccolo stato rurale era forse l’evento più globalmente mediatizzato. Ufficialmente è andato “in tilt” il sistema di conteggio digitale dei voti espressi nei 1.700 caucus delle 99 contee di questo Paese a maggioranza bianco, con una popolazione in età avanzata, dove governa una repubblicana.
Il candidato “centrista” dichiara la sua vittoria ben prima di qualsiasi risultato ufficiale, giusto per oscurare mediaticamente lo score di Sanders – il cui staff forniva autonomamente circa la metà dei risultati dei caucus in cui si era votato e che davano il senatore del Vermont come vincitore -, l’attenzione mediatica scema e viene “rioccupata” dal Trump con il suo caustico discorso e la scenica reazione di Nancy Pelosi, e poi dal voto del Senato sull’impeachment.
Pura rappresentazione bi-polare in cui tertium non datur e pessima figura dell’apparato democratico, sfruttata da Trump che aveva vinto le primarie con il 97,1% delle preferenze!
I segnali erano già evidenti, fin dalle affermazioni ostili di Hillary Clinton contro Sanders – «non piace a nessuno», aveva affermato – che si era spinta a dire che in caso di una sua vittoria alle primarie non lo sosterrà, non restituendogli per così dire il favore: pur uscito sconfitto della primarie nelle scorse elezioni presidenziali, Sanders fece comunque l’endorsement per Hillary.
Diciamo che le affermazioni della Clinton, per reazione, hanno reso oggi ancora più credibile Sanders agli occhi di una parte rilevante dei ceti popolari, e netta la disapprovazione del Deep State per il senatore de Vermont.
A questa presa di posizione si aggiungono le insolite parole del New York Times, per cui lo sfidante di Trump avrebbe dovuto essere una sfidante, cioè o la centrista Amy Klobuchar, o la “sinistra” Elizabeth Warren – ex consigliera di Obama -, all’interno dello spettro degli 11 possibili candidati democratici.
May the best woman win”, cioè “che vinca la donna migliore”, in questa caso suona come il prodotto di un “femminismo liberal” da sinistra “sex and the city”, che ha come output obbligato: tutte meno che Sanders e le politiche che propone. Sintesi insomma di una “necessità di cambiare” il volto e il discorso pubblico dei “democratici”, ma senza smarrire il ferreo controllo “di classe” da parte del mondo finanziario.
Il programma della Warren ha in parte toni anti-establishment: dall’edilizia popolare alla scuola ed alla sanità per tutti, dalla tassazione alle grandi imprese agli investimenti green… Una possibile alleanza tattica con Sanders, se fosse sconfitta dalla competizione alle primarie, non è da escludere, ma non è certo una candidata “di rottura”; semmai in continuità con ciò che ha rappresentato l’Era Obama.
La Warren è secondo i sondaggi una dei quattro frontrunner insieme a Sanders – dato per favorito –, al “centrista vecchio” John Biden e l’auto-proclamatosi vincitore delle primarie in Iowa, il “centrista giovane” Pete Buttigieg.
Il tre volte sindaco di New York, nonché 13° uomo più ricco al mondo, Michel Bloomberg, dotato di una fortuna personale di 60 miliardi, scioglierà le sue riserve per la nomination democratica solo dopo il “supermartedì” del 3 marzo, quando in palio ci saranno 15 Stati e il 40% dei delegati alla Convention del partito.
Intanto ha investito da novembre 200 milioni in pubblicità e apertura di sedi su scala nazionale, facendo balenare l’ipotesi di iniettare – da solo – un altro miliardo nello scontro delle urne.
Ed in effetti dal punto di vista economico è l’unico a potere rivaleggiare con Trump, che ha raccolto 46 milioni nell’ultimo trimestre, 143 nel 2019, cifra che sale a 154 per l’ultimo trimestre e 463 quest’anno, se si tiene conto dei suoi fiancheggiatori, con 200 milioni tuttora a disposizione.
Tranne il tycoon, gli altri sfidanti democratici alla nomination hanno raccolto tutti insieme 300 milioni.
Sorprendentemente, chi dispone di più denaro tra loro per le elezioni è Sanders, che ha rastrellato 34,5 milioni nel quarto trimestre del 2019 e 100 milioni dal momento dellancio della candidatura.
Un finanziamento dovuto ad una ineguagliata rete di piccoli donatori, 5 milioni, con una media di meno di 20 dollari ciascuno!
Queste risorse economiche, insieme al suo programma “radicale”, alla massa critica dei suoi attivisti di base e all’endorsement di importanti settori della società (sindacati e gruppi di base), lo rendono un avversario ostico sia per l’establishment democratico che per Trump…
Nel mentre scriviamo, il “conteggio” delle schede nell’Iowa non è ancora ultimato ed il centrista Buttigieg è in vantaggio di un paio di punti su Sanders, ma ha ricevuto meno voti e hanno 11 delegati nazionali a testa. Intanto è già entrata nel vivo la campagna per il New Hampshire, le cui primarie si svolgeranno l’11 febbraio.
Il 22 dello stesso mese toccherà al Nevada e poi il 29 alla Carolina del Sud, prima appunto di marzo, che sarà decisivo per la nomination.
Mai come ora il Partito Democratico è spaccato, e sembra sensato supporre che, se l’establishment dovesse bruciare le sue carte in ognuna delle sue varianti contro Sanders, allora la discesa in campo del miliardario newyorkese sarebbe assolutamente probabile, anzi “necessaria”.

Trump senza rivali tra i repubblicani

Ma ora parliamo di Trump, o per meglio dire le scelte politiche concrete che ha fatto la sua amministrazione e gli interessi che rappresenta.
A dispetto di ciò che si pensa l’“Era Trump” non si è posta in discontinuità sostanziale con le politiche attuate dalle precedenti amministrazioni, tese a salvaguardare la declinante egemonia nord-americana nel mondo ed a tutelare gli interessi della parte più ricca del Paese.
Dal 2017 al 2019 gli USA hanno nettamente aumentato le truppe impiegate nel mondo. I soldati americani sono passati da 82 a 84 mila in Europa, da 30 a 44 in Arabia Saudita e nella regione del Golfo, in Afghanistan da 10 a 13 mila, in Iraq da 5 mila a 6 mila, in Siria da 50 a 900, in Africa da 6 mila a 7 mila, nelle Filippine da 0 a 250.
Altro che disimpegno!
Allo stesso modo, le spese per il Pentagono sono aumentate dai 605,8 miliardi di dollari del 2017 ai 750 proposti per quest’anno, con la volontà di mantenere il “controllo dei mari” (dagli Oceani passano il 90% delle merci del commercio mondiale), in particolare nel presidio dei suoi principali “colli di bottiglia”, una nuova corsa alla militarizzazione dello spazio, ed un rinnovato interesse per le svariate forme che assume l’arsenale nucleare come pilastro fondamentale della potenza militare.
Gli Stati Uniti inoltre, nonostante la guerra dei dazi, hanno aumentato il proprio deficit commerciale, passato da 735 miliardi di dollari del 2016 agli 874 del 2018!
In casa, Trump ha applicato il dumping fiscale, tagliando drasticamente le tasse alle imprese: nel 2018 le aliquote per le corporate sono passate dal 35% al 21%, una manovra del valore di 1.500 miliardi di dollari.
La politica dell’attuale inquilino della Casa Bianca – che vorrebbe dare un ulteriore impulso all’immissione di liquidità nell’economia facendo abbassare i tassi alla FED – è basata come sempre sull’immenso debito pubblico, aumentato nel corso del tempo di 23 mila miliardi di dollari!
Un debito pubblico detenuto anche dai suoi diretti concorrenti, con l’Eurozona che supera la Cina nel possesso di titoli di Stato Usa: 1.122 miliardi di dollari gli investitori dell’Eurozona, 1.089 l’11 gennaio di quest’anno.
Le varie misure di immissione di liquidità della BCE, il differenziale notevole tra la resa per esempio di un Bund tedesco decennale (-0,26%) e un Treasury decennale (1,78%), nonché la differenza tra un super-dollaro e l’Euro debole, non hanno stimolato gli investimenti in UE e nemmeno tanto agevolato le esportazioni verso gli USA – comunque aumentate, ma con una concorrenza sempre più agguerrita. In compenso hanno portato il valore dei titoli di stato USA in mano ad investitori dell’Eurozona da 502 miliardi nel 2011 a più di 1.200 miliardi – ben più del doppio – e a maggiori investimenti diretti negli USA.
Sembra paradossale, ma uno dei “grandi elettori” di Trump è proprio l’Unione Europea, co-artefice del successo economico che il Presidente americano ama declamare in ogni occasione.
La “tregua commerciale” con la Cina, che ha portato alla conclusione della “fase uno” dell’accordo commerciale – tutto da verificare e con una “fase due” da far partire probabilmente dopo le elezioni presidenziali -, il superamento del NAFTA con Canada e Messico attraverso un nuovo accordo, sono alcuni punti forti della della dote che the Orange Man può vantare in campagna elettorale; riassunta appunto in una “crescita moderata” attorno al 2%, anche se il settore manifatturiero è in contrazione, a differenza dei servizi, ed i salari sono stagnanti…
Se l’accordo con la Cina regge, l’agro-business, il settore energetico ed il manifatturiero statunitense avrebbero una notevole boccata d’ossigeno, aumentando il consenso politio lungo tutta la filiera interessata. Naturalmente il campo tecnologico rimane escluso e “la guerra fredda digitale” continua.
Diamo due cifre: 77,7 miliardi di prodotti manifatturieri in più, nei prossimi due anni, dovrebbero essere acquistati dalla Cina (auto, componentistica, aerei, microchip soprattutto); 52,4 miliardi di LNG, Gpl e materie prime petrolifere americane; 32 miliardi di prodotti agricoli e 37,6 in servizi.
L’accordo è più ampio, e non è possibile qui vederlo nel dettaglio; ci limitiamo a dire che oltre la “pace valutaria” ed altri aspetti, nel settore dei servizi, la Cina ha acconsentito infine all’apertura del suo mercato e all’accesso delle aziende americane del settore bancario, assicurativo, finanziario, delle società di consulenza e di rating, eliminando molte delle barriere esistenti.
Una manna dal cielo per la finanza USA!
Non sappiamo quale sarà il destino dell’accordo, ma è un vettore di maggiore dipendenza reciproca dei due giganti economici, comunque in conflitto tra di loro.
È chiaro che ciò che rende possibile la politica interna degli Stati Uniti è la sua politica estera, Se la seconda si modificasse, anche solo parzialmente, cadrebbe l’edificio costruito sulla possibilità praticamente illimitata di “stampare dollari”, contrarre un colossale debito pubblico di cui nessuno chiede conto, con l’ulteriore effetto retro-attivo di finanziare così la propria politica bellicista.
L’aggressività statunitense in politica estera – specie nel suo “cortile di casa” – non è un fatto “contingente”, ma strutturale e strutturante della sua storia.
Trump è quindi un “buon partito” per quel famoso 1% ed il Deep State, non c’è che dire, considerando che ha di fatto “annichilito” qualsiasi competitor all’interno dei Repubblicani ed offre una narrazione ed una soluzione “da destra” a quella crisi delle élite che aveva investito anche gli States.
Sa catturare il consenso di fasce di subalterni e allo stesso tempo mostra di essere il migliore interprete anche per l’apparato militare-industriale del “destino manifesto” degli States. Appare evidente la volontà di determinare un piano politico e di chiamare ad un ri-allineamento complessivo i suoi alleati, come dimostra l’uscita dall’accordo sul nucleare iraniano a maggio del 2018 e il recente “Patto del Secolo” con cui vorrebbe liquidare la questione palestinese.
Che questo gli riesca, è un altro paio di maniche…
I due principali ostacoli sono, sul “fronte esterno”: l’emergere di un mondo multi-polare, il processo di de-dollarizzazione, l’accordo strategico russo-cinese e le varie resistenze contro l’Impero ed i suoi alleati sul tricontinente. Sul fronte interno, invece, la capacità di dare rappresentanza politica alle classi subalterne, escluse dal “patto sociale” suggellato dall’ideologia del “suprematismo bianco”, e proporre una politica estera alternativa, sono opzioni oggi concretamente rappresentate, con tutti i loro limiti, dall’outsider Sanders e da nessun altro esponente democratico.
Trump contro Sanders sarebbe uno scontro epocale, una sorta di unicum nella Storia nord-americana, perché polarizzerebbe radicalmente la scelta tra gli ipotetici indirizzi essenziali di una potenza imperialista declinante in una fase critica, che avrebbero quindi precisi riflessi su tutto il pianeta.
Il popolo americano sarebbe finalmente costretto ad interrogarsi sul tipo di società in cui vorrebbe vivere. Mentre fin qui la “narrazione” sull’american way of life non aveva nessuna alternativa o incrinatura.
Which side are you on?”, ovvero “Da che parte Stai?”. Recitava così una delle più famose canzoni della working class statunitense, ora più che mai attuale.

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