L’esempio di Atene. Oggi la precarizzazione sistematica non ha
portato al maggiore controllo dei cittadini sulla propria occupazione e
sulla propria vita. Mentre i redditi, anche dei dipendenti, subiscono
una crescente erosione.
infosannio.wordpress.com (di Mirko Canevaro Il Fatto Quotidiano)
In un passo illuminante
dei Memorabili di Senofonte, Socrate domanda a un concittadino
impoverito, Eutero, come si guadagni da vivere. Col lavoro manuale,
risponde Eutero.
Socrate lo incalza: e quando da vecchio ti mancherà la forza come ti manterrai?
Eutero non sa rispondere.
Socrate ha la soluzione: abbandona questo
pesante lavoro ‘in proprio’ e mettiti alle dipendenze di un ricco,
trovati cioè un datore di lavoro.
La risposta di Eutero è inorridita: “Non potrei mai sopportare di
essere schiavo… Mi rifiuto di essere al servizio di un altro uomo!”.
In
questo scambio è racchiusa l’intera ideologia ateniese del lavoro:
nessuna vergogna nel lavoro manuale (la cui dignità è anzi stabilita e
difesa dalle leggi), ma il lavoro subordinato no, è indegno di un
cittadino – non è pensabile cioè che un cittadino, membro del demos
sovrano, possa subordinarsi a un altro cittadino.
Questo rifiuto di ogni forma di subordinazione si tradusse in una
vera e propria egemonia delle dinamiche democratiche non solo nella
forma dello Stato ma anche nella società civile: ogni organizzazione
operante nella città democratica, che fosse una società di mutuo
soccorso, un club religioso o un’associazione di commercianti, di
artigiani, di viticoltori, mimava nelle sue strutture di autogoverno,
fin nei minimi dettagli, i meccanismi democratici della polis.
C’era un Consiglio tirato a sorte, un’Assemblea, magistrature
anch’esse sorteggiate; si decideva insieme, democraticamente, su tutto,
con procedure identiche a ogni livello. Il governo democratico della
polis si reggeva cioè su un’abitudine pervasiva ai suoi processi, alle
sue procedure, riprodotte tali e quali nella sfera economica e in quella
sociale.
L’ipocrisia di fondo degli Ateniesi, che escludevano la
subordinazione dalle relazioni tra i cittadini ma al contempo ponevano
un’intera categoria – gli schiavi – nella condizione di subordinazione
più assoluta, non cambia la sostanza del problema: governarsi insieme
democraticamente al livello dello stato è incompatibile col relazionarsi
gli uni con gli altri, nel quotidiano, in modo autoritario.
Questa constatazione non è estranea alla riflessione moderna sul lavoro.
La ritroviamo ad esempio espressa con la consueta lucidità da
Vittorio Foa quando nella sua autobiografia, nell’interpretare
l’antifascismo come istanza di democratizzazione pervasiva della
società, parla di “struttura autoritaria, e persino dispotica, del
rapporto di lavoro, del rapporto tra capitale e lavoro”.
Foa rileva cioè l’incoerenza tra l’autoritarismo del rapporto di
lavoro – il contesto di socialità più diffuso e quasi fondativo della
vita sociale ed economica – da un lato, e un sistema politico che si
vuole democratico dall’altro.
La stessa istanza la troviamo espressa da Bruno Trentin, che in una
lettera del ‘75 a Berlinguer parla di trasformazione “nella società
attraverso nuovi organismi di potere democratico, istituzionali,
sindacali, popolari…”.
Questo stesso problema si ripropone oggi ancora più attuale – basta
sfogliare i volumi gemelli di Marta e Simone Fana Non è lavoro, è
sfruttamento! e Basta salari da fame!
Negli ultimi decenni la precarizzazione sistematica, contrariamente
alle promesse, non ha portato a un maggiore controllo dei lavoratori sul
proprio lavoro, sul proprio tempo, sulla propria vita. Non ha creato
alcuna orizzontalità dei rapporti di lavoro.
Al contrario ha sostituito alla verticalità strutturata, gerarchica,
della fabbrica fordista una verticalità ancora più estrema: quella di
rapporti diretti da prestazione talmente asimmetrici nelle rispettive
opzioni e nei rispettivi diritti da configurarsi come rapporti di puro
arbitrio, di dominio assoluto del datore di lavoro sul lavoratore.
A questi sviluppi si è accompagnata l’erosione drammatica dei redditi
da lavoro, non solo dei precari ma del lavoro dipendente in generale,
sempre più ricattabile e dunque sempre più soggetto all’arbitrio
padronale. Non è un caso che la demolizione degli spazi di autogoverno
democratico del lavoro e l’erosione dei redditi da lavoro (a favore di
quelli da capitale) siano stati gli obiettivi congiunti della riscossa
capitalista degli ultimi quattro decenni: i due processi si implicano a
vicenda, sono causa ed effetto l’uno dell’altro.
Ma questa erosione degli spazi di autogoverno democratico del lavoro
non può non avere conseguenze gravi sulla salute della nostra
democrazia.
Come si può pensare di avere un sistema democratico funzionante,
blaterare di cultura democratica, se la forma più diffusa e quasi
‘naturale’ di rapporto interpersonale tra i cittadini – il rapporto di
lavoro – è di tipo autoritario?
Manca l’abitudine, manca la scontatezza stessa del paradigma
democratico di dibattito, di interazione e di decisione orizzontale,
perché quel paradigma è limitato a pochissimi luoghi e momenti specifici
(se pure, ancora, a quelli!).
Atene, senza essere un modello, ci aiuta a mettere meglio a fuoco
questa pericolosa schizofrenia tra politica e lavoro, tra governo della
comunità e gestione del quotidiano, contrapponendovi l’idea di fondo che
i cittadini di una democrazia non possono essere reciprocamente
implicati, quotidianamente, in relazioni di tipo autoritario, pena
l’incapacità di agire da cittadini democratici.
Era vero allora ed è vero oggi: non ci può essere democrazia dove i
rapporti di lavoro rimangono il luogo del dominio dispotico dell’uomo
sull’uomo.
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