mercoledì 12 febbraio 2020

La disoccupazione tecnologica è qui; e non sarà “il mercato” ad evitarla

contropiano di Francesco Piccioni
Ricordate i primi allarmi per la devastante disoccupazione tecnologica che si stava preparando a vallo della forte spinta all’automazione nei processi produttivi? Sono passati solo cinque anni, e quello che era un tema da addetti ai lavori con qualche passione per gli scenari futuribili sta diventando ora preoccupazione vissuta in prima persona dagli ultimi terminali periferici di un sistema centralizzato e distante: gli operai.

Solo l’edizione salernitana di un quotidiano certo non progressista – Il Mattino – espone sinteticamente i dati principali di un rapporto Censis-Eudaimon dal titolo sicuramente “poco attrattivo”, dedicato al welfare aziendale (quasi un ossimoro, conoscendo la passione delle imprese per il “risparmio”). I media mainstream, ovviamente, osservano un pudico silenzio…
Contrariamente al rapporto dell’anno precedente, però, quello presentato pochi giorni fa prende di mira immediatamente l’impatto dell’automazione su produzione e occupazione.
I dati al 2018 mostrano che sono stati installati 9.800 nuovi robot in Italia: un numero che ci colloca al settimo posto nella graduatoria internazionale, dopo economie avanzate o con una manifattura altamente tecnologica come Cina (154.000), Giappone (55.200), Usa (40.400), Corea del Sud (37.800), Germania (26.700).
Allora se la transizione verso le frontiere più avanzate della tecnologia è strategica per stare al passo coi tempi e generare ricchezza valore, c’è tanta strada da fare per le imprese italiane.”
Insomma: gli investimenti in robot produttivi sono ancora scarsi, qui da noi, ed è dunque prevedibile che aumenterà nei prossimi anni (pena l’espulsione dal mercato mondiale).
Anche perché le imprese variamente considerabili “a medio-alta tecnologia e knowledge intensive” presentano dinamiche economiche profondamente diverse da quelle “normali”.
in un decennio segnato da una profonda crisi economica e dal mancato rilancio, i trend di queste imprese comparati con quelli dell’economia italiana rivelano una più alta capacità di performance. Infatti, nell’ultimo decennio (fig. 2):
– il valore aggiunto delle imprese ad alta e media tecnologia e knowledge intensive segna +7%, mentre nello stesso periodo il Pil dell’economia italiana segna una variazione reale negativa del – 4,1%
– +51,3% è l’incremento delle esportazioni di prodotti hi-tech (per un valore complessivo nel 2018 pari a 35,9 miliardi di euro, 10,3% del totale), mentre +16,6% è il valore delle esportazioni relativo al totale economia;
– +5,8% la crescita degli occupati in settori a medio-alta tecnologia e knowledge intensive (+110.000 in termini assoluti), mentre nello stesso periodo il totale economia segna +0,5%.”
Queste imprese sono “competitive”, crescono in profitti e occupazione. Ma sono una frazione minoritaria del comparto industriale. Tutte le altre, complessivamente intese, degradano, si restringono, fuggono (delocalizzazione verso Paesi con salari inferiori).
Già questo fa capire che si va aprendo una faglia visibile tra “performatività” delle imprese ad alta tecnologia e equilibri sociali (sempre meno gente occupabile in attività “solide”, sempre più precarietà, supersfruttamento, bassi salari, disoccupazione di massa).
La verifica avviene proprio sul terreno salariale, con quella che il Censis chiama La tecnopolarizzazione dei salari: “nel 2017, fatto 100 il salario medio di un lavoratore occupato nel comparto industria e servizi, quello di un lavoratore occupato in settori medio alto tecnologia e knowledge intensive è pari a 184,1, mentre quello di un lavoratore occupato nel resto delle imprese è 93,5. Una differenza di 90,6 punti percentuali“.
In queste industrie il lavoro viene pagato il doppio, perché le competenze necessarie sono un fattore di maggiore rigidità e resistenza del lavoratore. Non è “intercambiabile” con chiunque altro, come avviene nelle mansioni a bassa o nulla esperienza pregressa. Qui, insomma, “l’esercito salariale di riserva” ha scarso peso come arma di ricatto padronale.
E infatti il Censis se ne mostra consapevole: questa forbice è “presumibilmente è destinata ad allargarsi ulteriormente, per effetto di una transizione tecnologica e digitale che nel tempo propagherà i propri effetti nel tessuto produttivo, con rischio di esclusione e scivolamento in basso di chi invece ne rimarrà fuori.”
Un dato di fatto, uno “spirito del tempo” che informa le reazioni – opposte – tra aziende e lavoratori circa il prossimo futuro. Le imprese sono ovviamente “tecno-entusiaste”, perché vedono la possibilità di ottenere profitti maggiori con un numero inferiore di dipendenti (e per un periodo più lungo, visto che ci sono più alte possibilità di sopravvivenza nella competizione). I lavoratori, al contrario, vedono nell’automazione un pericolo per se stessi.
Il tecnoentusiasmo delle aziende, reso evidente dai numeri, […] è una idea molto precisa fondata sulla consapevolezza di un positivo contributo su aspetti peculiari e decisivi per la vita di un’azienda.”
In dettaglio, pensano di far meglio in:
produttività, efficienza, competitività: è un aspetto richiamato dal 97,6% delle aziende per cui ci sarà un plus di produttività, efficienza e competitività […]
qualità del lavoro e della vita in azienda: per il 97% delle aziende ci sarà un miglioramento dei contesti aziendali e del lavoro propriamente detto […]
smart-working: per l’85,5% delle aziende si lavorerà di più in modalità remote, a distanza: è questo uno dei cambiamenti più tangibili che si avrà per effetto delle nuove tecnologie e che richiama una più flessibile modalità di esecuzione dei rapporti di lavoro […]
welfare aziendale: per l’88,5% delle aziende migliorerà nei prossimi la fruizione dei servizi che sono offerti ai propri dipendenti […] (meno dipendenti ci saranno, maggiori margini di “buon trattamento” si apriranno, ndr)
comunicazione: l’83% delle aziende migliorerà la comunicazione, ci sarà più scambio di informazioni all’interno dell’azienda
Si vede qui la differenza abissale tra la logica aziendale (fonadata sull’individualità della singola impresa) e la logica politica e sociale (una popolazione deve vivere in condizioni decenti in un determinato ambito territoriale, di qualsiasi estensione; ma “il mercato” questo non può garantirlo…).
Pur partendo da un punto di vista altrettanto individuale (preoccupazione per sé e i propri figli), i lavoratori esprimono anche inconsapevolmente proprio quell’”interesse generale” che ogni logica di impresa ignora per principio. E infatti lo sguardo sull’automazione e le nuove tecnologie è l’esatto opposto:
– per il 50,4% dei lavoratori si imporranno ritmi di lavoro più alti e una maggiore intensità di lavoro;
– per il 43% si dilateranno i tempi di lavoro, anche oltre l’orario normale;
– per il 42,2% si distruggerà il lavoro e si perderanno posti di lavoro;
– per il 32,7% non si lavorerà meglio e non migliorerà la qualità della vita in azienda;
– per il 28,2%, i lavori non saranno meno rischiosi e i lavoratori non saranno meno esposti al rischio di subire infortuni o danni nell’esercizio della propria professione.”
E non è affatto paradossale che proprio i lavoratori più anziani, quindi quelli meno abituati a “vivere” le nuove tecnologie come “normalità” sono quelli che comprendono meglio il pericolo che contengono:
i lavoratori 35-64enni rispetto ai millennial sono più convinti che le nuove tecnologie e processi di automazione distruggeranno il lavoro e faranno perdere posti di lavoro (43,7% contro il 36,6% dei lavoratori millennial) e che faranno lavorare peggio e non miglioreranno la qualità della vita in azienda (36,2% contro il 22,5%)”.
E’ un fatto oggettivo, ma vissuto sulla propria pelle. Più hai avuto tempo di vedere le conseguenze dell’introduzione dell’automazione, meno “speranze” nutri sulla possibilità di essere “risparmiato” dal suo avanzare. Mentre chi è nato “dentro” le nuove tecnologie si illude di poter trovare spazio anche in un ambito produttivo sempre più automatizzato.
Stesso discorso per le diverse posizioni assunte nell’organizzazione del lavoro. Più semplice è la mansione svolta, più appare facile la sua “sussunzione” da parte delle macchine.
E infatti:
– per il 53,6% di dirigenti e direttivi, il 51,3% degli impiegati, il 46,4% degli operai ed esecutivi imporranno ritmi di lavoro più alti e una maggiore intensità di lavoro;
– per il 39,3% di dirigenti e direttivi, il 43,4% degli impiegati, il 42,9% degli operai ed esecutivi dilateranno i tempi di lavoro, anche oltre l’orario normale;
– per il 35,7% di dirigenti e direttivi, il 40,8% degli impiegati, il 48,8% degli operai ed esecutivi distruggeranno il lavoro e faranno perdere posti di lavoro;
– per il 25% di dirigenti e direttivi, il 27% degli impiegati, il 33,3% degli operai ed esecutivi i lavori non saranno meno rischiosi e i lavoratori non meno esposti al rischio di subire infortuni o danni nell’esercizio della propria professione;
– per il 21,4% di dirigenti e direttivi, il 30,7% degli impiegati, il 42,9% degli operai ed esecutivi non faranno lavorare meglio, non miglioreranno la qualità della vita in azienda.
Neanche con l’automazione, insomma, “staremo tutti sulla stessa barca”. E le previsioni sul futuro sono altrettanto differenziate in base alla professione o, come sarebbe giusto dire, alla classe sociale di appartenenza.
Su una cosa, invece, le differenze quasi scompaiono: con l’avanzare dell’automazione i salari saranno più bassi e tenderanno a scomparire anche le residue tutele dei lavoratori dipendenti, a qualsiasi livello di inquadramento.
– il 53,6% di dirigenti e direttivi, il 57,3% degli impiegati, il 63,1% degli operai ed esecutivi sono convinti che nel futuro si finirà per guadagnare meno di ora;
– il 53,6% di dirigenti e direttivi, il 49,1% degli impiegati, il 52,4% degli operai ed esecutivi pensano che in futuro si avranno meno tutele, garanzie e protezioni.”
Possiamo fermarci qui, per trarre qualche riflessione più politica.
Se la percezione della crisi occupazionale derivante dall’automazione diventa “consapevolezza di massa” (non ancora “coscienza di classe”) si apre un diverso terreno di intervento sia a livello sindacale che politico. Non è più materia da “convegni”, ma un tema che sta dentro – con il linguaggio popolare, non certo con quello della sociologia o scientifico – le preoccupazioni della “nostra gente”, del “blocco sociale di riferimento” che va ricostruito.
E ovviamente il problema non si risolve con una reazione da “luddisti del terzo millennio” (la critica retrograda contro il progresso tecnologico), ma con l’imposizione di una scala di priorità opposta a quella aziendal-mercatista.
In parole povere: se “il mercato” e le imprese non possono più (ammesso e non concesso che l’abbiano mai fatto) garantire occupazione e quindi condizioni di vita decenti per la popolazione, allora si pone concretamente il problema di rompere l’attuale sistema di produzione e di vita.
L’ideologia non c’entra nulla. Se vivere così è impossibile per la maggioranza della popolazione si deve individuare un altro e opposto modo di produrre e distribuire ricchezza. Le imprese capitalistiche hanno fatto il loro tempo, questo è chiaro

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