lunedì 10 febbraio 2020

La democrazia è in crisi, ma Marx ci può aiutare.

Il filosofo di Treviri viene considerato principalmente un economista ma è stato un pensatore politico e i suoi scritti offrono molte idee per affrontare la crisi di rappresentanza dei nostri attuali sistemi istituzionali.


Negli Stati uniti e in Europa è ormai comune a sinistra l’idea che le istituzioni democratiche siano sull’orlo del fallimento. 
Dalla campagna di Bernie Sanders per una rivoluzione politica negli Usa contro l’establishment, fino alla proposta di Rebecca Long-Bailey di abolire la Camera dei Lord britannica per dare una «scossa sismica» al paese, la sinistra mostra la consapevolezza del fatto che un ordine sociale più giusto va di pari passo con una spinta per la democratizzazione dei sistemi politici contemporanei.
I problemi sono evidenti: il controllo delle élite politiche ed economiche sui processi decisionali e legislativi, la tendenza del potere esecutivo ad agire svincolato dal controllo degli altri poteri, una classe politica al di sopra delle leggi e lontana dalla gente. 

I sistemi politici contemporanei tendono ad alienare gli individui che ne fanno parte e fanno di tutto per ostacolare qualunque tipo di cambiamento.
Tuttavia, quale sia effettivamente il tipo di cambiamento da promuovere, a sinistra, per affrontare questi problemi, non si è ancora data una risposta definitiva.
Alcuni spunti possono venirci dagli scritti politici di Karl Marx, anche se ciò potrà sorprendere coloro abituati a considerare Marx un pensatore economico, con poco o nulla da dire sulle istituzioni politiche.

È vero che Marx non ha mai prodotto una teoria delle istituzioni articolata, ma il fondatore del materialismo scientifico era allo stesso tempo un militante comunista e i suoi scritti presentano critiche circostanziate e raffinate al costituzionalismo liberale e al modello della rappresentanza, oltre che un abbozzo di struttura delle istituzioni comuniste che avrebbero dovuto sostituirle.
Molte idee, come la possibilità di poter revocare in qualsiasi momento gli eletti, la prevalenza del potere legislativo sull’esecutivo, o ancora l’idea di aprire gli organi dello Stato, specialmente la funzione pubblica, ai proletari furono ispirate a Marx dall’esperienza della Comune di Parigi, l’esperimento di autogestione popolare della capitale francese durata da marzo a maggio del 1871. Ma queste idee erano in linea con la tradizione del pensiero politico radicale, che va dai cartisti britannici ai democratici francesi e gli anti-federalisti statunitensi (una tradizione che Karma Nabulsi, Stuart White e io esploriamo nel nostro prossimo libro, intitolato Radical Republicanism).
Sarebbe senz’altro un errore considerare queste idee di Marx come un progetto politico compiuto: i suoi scritti non contengono dettagli sufficienti (le famose «ricette per l’osteria dell’avvenire») e in ogni caso nessun pensatore dovrebbe essere trattato come se fosse depositario di verità eterne.
Tuttavia, per chi, a sinistra, si pone il problema di rendere più democratiche le istituzioni politiche contemporanee, gli scritti di Marx rappresentano una risorsa importante cui attingere.
Il padre del comunismo ci ricorda, innanzitutto, la centralità della democrazia per il socialismo.
Non solo, infatti, la democrazia è un prerequisito essenziale per costruire la società socialista, ma la necessità di democratizzare il sistema politico nasce dallo stesso principio della democratizzazione del sistema economico attraverso l’abolizione dello sfruttamento di classe, ovvero dal desiderio che le persone prendano il controllo delle strutture e delle forze che inquadrano la loro vita sociale.

«Il suffragio universale è l’equivalente del potere politico per la classe operaia»

Marx credeva che il suffragio universale fosse un prerequisito essenziale del socialismo: all’apice del suo ottimismo, definiva il suffragio «l’equivalente del potere politico per la classe operaia».
Ma era preoccupato che il modello della rappresentanza parlamentare stesse minando alla base il potenziale emancipatorio del voto, concedendo agli eletti ampia discrezionalità sul voto e sulla condotta da tenere una volta entrati negli organi legislativi.
In questo sistema, infatti, le elezioni offrono la possibilità di sanzionare (si possono buttar fuori dal parlamento i fannulloni, per esempio), ma a parte questo i rappresentanti non sono formalmente legati ai desideri dell’elettorato. Marx riteneva che questo meccanismo generasse una classe di funzionari distanti dal popolo e più attenti ai propri interessi elitari che a quelli di chi li ha eletti.
Perciò Marx sostenne l’introduzione di diversi sistemi per ridurre il divario tra i cittadini e i loro rappresentanti nelle istituzioni.
Primo tra tutti, il vincolo di mandato (o mandato imperativo). 
Secondo questo istituto i cittadini possono revocare immediatamente i loro rappresentanti senza dover aspettare le successive elezioni.
Marx ironizzava su quei padroni che mostrano di fidarsi della loro personale capacità di «suffragio individuale», quando si tratta di «mettere a ogni posto l’uomo adatto, e se una volta tanto fanno un errore, sanno rapidamente correggerlo», ma inorridiscono al pensiero del suffragio universale, che darebbe quello stesso potere a tutti gli elettori.
Marx era a favore del mandato imperativo (o vincolo di mandato), in modo tale che il corpo elettorale potesse dare istruzioni giuridicamente vincolanti ai suoi rappresentanti, e ogni cittadino offrire un contributo diretto al processo legislativo vietando agli eletti di rinnegare le promesse fatte in campagna elettorale.
Marx era anche contrario ai mandati parlamentari troppo lunghi e sosteneva l’idea di indire elezioni con molta più frequenza rispetto al sistema borghese.
In particolare, commentando la proposta dei Cartisti di elezioni annuali, osservava [K. Marx, F. Engels, Opere complete, vol. 11, «I cartisti» p. 345] che le elezioni sono una delle «condizioni senza le quali il suffragio universale sarebbe una pura illusione per la classe operaia».
Unendo questa misura al suffragio universale, al voto segreto e all’introduzione dell’indennità parlamentare, per Marx è possibile trasformare l’istituto stesso della rappresentanza: «Invece di decidere una volta ogni tre o sei anni quale membro della classe dominante dovesse mal rappresentare il popolo nel parlamento, il suffragio universale doveva servire al popolo costituito in comuni» (K. Marx, F. Engels, La guerra civile in Francia, 1871).
In epoca più recente la sinistra è raramente riuscita a intercettare la rabbia contro una politica distante dai cittadini e che si ritiene al di sopra delle leggi, al contrario di quanto ha saputo fare la destra.
Boris Johnson e i suoi amici dei media hanno saputo abilmente incanalare l’indignazione della gente per il ruolo del parlamento britannico nei negoziati sulla Brexit con un racconto incentrato sull’opposizione tra «popolo» da una parte e «parlamento» dall’altra.
In Italia, il Movimento 5 stelle, populista e sostanzialmente di destra, deve il suo boom elettorale dei primi anni (ormai sgonfiato) alla campagna contro i politici corrotti e alla promessa di introdurre il vincolo di mandato in Italia.

Tutto ciò ha reso le cose più facili per i liberali, che hanno potuto tranquillamente rispedire al mittente qualunque critica al modello della democrazia rappresentiva, nonché le proposte di riforme come il mandato imperativo come frutto di idee populiste che non meritano di essere discusse.
Ma sarebbe un errore per la sinistra cedere spazio alla destra su questo terreno. E anche se le analisi di Marx non contengono per forza una ricetta adatta alla nostra configurazione istituzionale attuale, dovrebbero far parte del nostro arsenale critico quando riflettiamo sulla rappresentatività della istituzioni e su come far sì che i cittadini di una democrazia abbiano realmente voce in capitolo.

Critica dell’esecutivo

Nonostante le perplessità sulla democrazia rappresentativa, Marx considerava il parlamento il centro della politica democratica.
Uno dei grandi meriti della Comune di Parigi stava, per lui, nel fatto di aver assegnato incarichi di tipo ministeriale agli stessi membri del consiglio comunale, invece di creare un gabinetto separato con un presidente del consiglio.
Infatti, secondo Marx un esecutivo con troppi poteri era ancora più pericoloso di un sistema democratico dove i rappresentanti sono lontani dai cittadini.
Per questa ragione era particolarmente critico con la Costituzione francese del 1848 (che istituì la Seconda Repubblica francese), condannandone in particolare l’istituto del presidente della Repubblica eletto a suffragio diretto e dotato del potere di conferire la grazia, sciogliere i consigli, sottoscrivere trattati esteri e, soprattutto, nominare e destituire i ministri senza obbligo di consultare l’Assemblée nationale
Secondo Marx la Costituzione del ’48 dava al presidente della Repubblica «tutti gli attributi del potere regio», e privava il parlamento di «ogni reale influenza» sulla macchina dello Stato.
Di fatto, concludeva, questa Costituzione si limitava a sostituire una «monarchia ereditaria con una monarchia elettiva».
Uno dei motivi per cui Marx era un grande critico degli eccessi di potere dei funzionari sta nel fatto che rischiavano di sfuggire al controllo e alla sanzione popolare. 
Inoltre, l’autore del Manifesto del partito comunista diffidava anche della natura personale del potere presidenziale, con i leader che si autorappresentano come l’«incarnazione» dello «spirito nazionale» e credono di «[possedere] una specie di diritto divino» concesso però «per grazia del popolo» [K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, in Opere Complete, vol. 11, pp. 120-121; versione online).

A leggere oggi queste righe negli Stati uniti viene da pensare a Donald Trump. In effetti, si possono ravvisare alcuni intriganti parallelismi tra Trump e Luigi Bonaparte, il presidente che rovesciò la Seconda Repubblica francese sfruttando proprio le falle della Costituzione del 1848.
Il problema di fondo è il carattere imperiale della presidenza degli Stati uniti, svincolata com’è dalla supervisione del Congresso (condizione, peraltro, attivamente sostenuta in passato dal Partito democratico americano).
Ma problemi analoghi affliggono anche la costituzione britannica, e sono stati sfruttati sia da Tony Blair durante la seconda guerra in Iraq, sia più di recente da Boris Johnson per la Brexit.
Infine, la costituzione francese attuale, adottata nel 1958 sotto la presidenza di Charles de Gaulle, è stata specificamente concepita per concentrare tutto il potere nelle mani del presidente e dell’esecutivo, e non a caso oggi Emmanuel Macron ne abbraccia con grande entusiasmo l’eredità.

Gli scritti di Marx, comunque, ci ricordano di non confondere la critica del parlamentarismo (basata sull’idea che i funzionari eletti siano i primi attori dei progetti di riforma) con un attacco generico e qualunquista alla democrazia parlamentare in quanto tale.
I parlamenti esistenti lasciano indubbiamente molto a desiderare, e storicamente il rapporto tra la sinistra di movimento e le sue varie rappresentazioni parlamentari è sempre stato estremamente problematico.
Ma la risposta a questi problemi non possono essere i tribunali, né l’idea di mettere un socialista al timone dello stesso esecutivo onnipotente attuale, né, per quel che vale questa opzione, rinunciare completamente ad avere una rappresentanza parlamentare. 

Quello legislativo è il più democratico dei tre poteri dello Stato, per questo i federalisti statunitensi che hanno fondato la nazione hanno inteso limitarne i poteri.
E per questo la sinistra democratica dovrebbe difendere questo potere dall’intrusione degli altri due, esecutivo e giudiziario.

Trasformare la burocrazia

Già solo prendendo in considerazione queste idee di Marx sulla rappresentanza e sul parlamento si dovrebbe intraprendere un’ampia e seria riforma della maggior parte delle democrazie rappresentative contemporanee.
Tuttavia, è soprattutto con la concezione della burocrazia che il modello marxiano si allontana nel modo più radicale dai sistemi politici attuali.
Marx ha proposto una trasformazione fondamentale dello Stato che metta la classe operaia al centro della pubblica amministrazione.
Ha proposto di rendere la burocrazia eleggibile e di sottometterla allo stesso vincolo di mandato che voleva veder applicato per i rappresentanti politici.
Agli occhi di Marx, questa riforma avrebbe trasformato lo Stato dal corpo separato e alieno che era, che governava sul popolo, in un corpo sottoposto al controllo popolare.
«La Comune si sbarazza completamente della gerarchia politica e sostituisce i capi altezzosi del popolo con personale revocabile in ogni momento; rimpiazza una responsabilità illusoria con una responsabilità reale dal momento che questi delegati agiscono permanentemente sotto il controllo del popolo» (Primo abbozzo di redazione per La guerra civile in Francia (1871), in K. Marx – F. Engels, La comune di Parigi, Savona-Savelli, Napoli 1971, pp. 218-219).
Questi commenti rispecchiano la sua diffidenza, a tratti il disgusto perfino, nei confronti dei burocrati, che deve suonare abbastanza paradossale a chi è abituato ad associare Marx allo statalismo burocratico.
Per Marx i burocrati sono una «casta addestrata», «un esercito di parassiti dello Stato», una classe di «sicofanti e sinecuristi pagati profumatamente», e sostiene che i lavoratori sono in grado di svolgere gli affari di governo in modo «più modesto, coscienzioso ed efficiente» rispetto ai loro presunti «superiori naturali».
È una visione indubbiamente attraente: troppo spesso la gente comune è soggetta ai capricci dei burocrati, rimbalzati in vortici senza fine solo per assicurarsi i mezzi di sussistenza.
Ma in una società moderna e complessa come la nostra, questa visione si scontra inevitabilmente con ostacoli molto alti: tra cui l’incapacità materiale di mandare avanti la macchina dello Stato per assenza di competenze tecniche degli amministratori, o il rischio che questi ultimi vengano manipolati dai grandi interessi economici a causa della loro inesperienza.
È difficile immaginare di creare una burocrazia realmente democratica senza modificare anche la sfera economica complessiva, in modo che le persone abbiano molto più tempo per partecipare alla pubblica amministrazione e voglia di assumersi questi compiti.
Gli scritti di Marx, tuttavia, non offrono indicazioni precise su come far funzionare concretamente questo piano di democratizzazione della burocrazia. Se proprio aveva in mente un modello, l’autore del Manifesto del partito comunista pensava forse all’antica Atene, dove i cittadini governavano a rotazione assumendo posizioni amministrative sulla base di un sorteggio (questa caratteristica della democrazia ateniese era peraltro poco nota e poco considerata all’epoca in cui Marx scriveva).
Di recente questo aspetto della democrazia antica è riemerso nelle teorie della democrazia, e in alcuni esperimenti pratici, come un modo per rispondere al fallimento della rappresentanza.
Uno degli strumenti più in voga è quello, per esempio, delle assemblee cittadine: gruppi di persone estratte a sorte che hanno il compito di deliberare e formulare raccomandazioni su determinati progetti politici o sulle riforme costituzionali.
Le assemblee cittadine sono state utilizzate per discutere gli emendamenti costituzionali in Irlanda, per elaborare proposte di riforma elettorale nella Columbia Britannica e in Canada, nello stato di Ontario.
Inoltre, nel Regno Unito attualmente è in corso una campagna per includerle nelle future convenzioni costituzionali.
Il teorico politico statunitense John McCormick ha avanzato una proposta molto interessante per l’introduzione di una versione moderna dell’istituzione Tribuno della plebe dell’antica Roma. 
L’organo dovrebbe avere cinquantuno membri estratti a sorte tra la popolazione escludendo il 10% più ricco, e avrebbe il potere di proporre leggi, indire referendum e mettere sotto accusa i pubblici funzionari.
Questo tipo di sorteggio potrebbe essere un modo per realizzare alcune delle aspirazioni di Marx per un sistema politico in cui i cittadini svolgano direttamente compiti di governo e di pubblica amministrazione.

Il Marx democratico

Marx era convinto che la rappresentanza fosse un enorme progresso rispetto ai regimi assolutisti che rimpiazzava, ma allo stesso tempo non era d’accordo nell’identificarla con la democrazia in quanto tale. Sosteneva, invece, che realizzando i cambiamenti istituzionali sopra descritti si sarebbe ottenuto un sistema politico con «istituzioni realmente democratiche».
Queste riforme sono vitali per far avanzare il socialismo nella sfera economica: è stato un grave errore pensare che bastasse semplicemente prendere il controllo delle istituzioni statali esistenti e limitarsi a volgere il timone verso il socialismo.
Un errore che, del resto, lo stesso Marx ha riconosciuto in alcune occasioni: «La classe operaia – scriveva nella prefazione del 1872 al Manifesto del Partito comunista – non può semplicemente prender possesso della macchina statale bell’e pronta e metterla in moto per i propri fini».
Se il potere politico doveva rimanere «nelle mani della classe operaia», è imperativo per il popolo «trasformare la macchina dello Stato, la macchina governativa delle classi dirigenti in una macchina governativa propria».
Questa rimane una delle più importanti intuizioni politiche di Marx, il fatto che una radicale trasformazione economica deve andare di pari passo con una radicale trasformazione politica. 
Ignorare la seconda mina la prima. In un’epoca in cui il socialismo sta risorgendo ma è ancora fragile, le riflessioni di Marx sulla democrazia popolare meritano senz’altro di essere rilette con attenzione.

Altra questione è come le metteremo in pratica, ma questo dipende solo da noi.

*Bruno Leipold insegna Teoria politica alla London School of Economics and Political Science. Questo articolo è uscito du Jacobinmag.com. La traduzione è di Riccardo Anntoniucci.

Nessun commento:

Posta un commento