lunedì 10 febbraio 2020

La bivaccofobìa.

Da più di vent'anni in tante città vengono eliminate le panchine, trasformando in indice di pericolosità sociale il semplice sedersi in spazi pubblici. Un teoria di fanta-criminologia volta a ghettizzare i più poveri.


Non è un segreto: il «decoro» e la «sicurezza» rappresentano il core business dell’azione politica a livello locale e nazionale, il ritornello di una canzone pop di sicuro successo che la maggior parte degli elettori italiani adora ascoltare senza alcuna variazione sul tema. 
La logica conseguenza è sotto gli occhi di tutti: le politiche securitarie rappresentano il pilastro portante dell’operato degli amministratori delle nostre città e contribuiscono a incentivare un’insanabile guerra tra poveri all’insegna della violenza quotidiana: venditori di rose, prostitute, clochard, ambulanti, senzatetto e artisti di strada occupano i primi posti nelle liste di proscrizione delle nostre municipalità. 

È sufficiente dare uno sguardo fugace alle cronache nazionali per rendersi conto di come la retorica del «decoro cittadino» sfoci in veri e propri atti di bullismo istituzionale: nel maggio dello scorso anno, la giunta di centrodestra di Venezia, guidata dal sindaco Luigi Brugnaro, ha riformato il regolamento di polizia e sicurezza urbana della città, disponendo espressamente il sanzionamento della prostituzione.
In quell’occasione, il sindaco ha giustificato la decisione alla luce del fatto che «Bisogna smettere di credere che si prostituisca solo chi è in una situazione di bisogno, o che tutte le ragazze in strada siano vittime di tratta. Sanzionare solo il cliente, agire solo sulla domanda, non è più sufficiente». Due mesi dopo, a Genova, un venditore di ombrelli è stato inseguito, ammanettato e arrestato da una pattuglia composta da ben dieci agenti di Polizia Locale. L’operazione è stata successivamente commentata dal coordinatore di Arci Liguria, Walter Massa, che ha parlato di «violenza quotidiana inaudita». Nella stessa città, solamente poche ore prima, Pedro, un mimo che da quindici anni per sbarcare il lunario si esibisce come statua vivente, era stato multato ai sensi del Tulps perché il trucco di scena ne impediva il riconoscimento.
Nel suo – bellissimo – saggio La buona educazione degli oppressi (Edizioni Alegre, 2019), Wolf Bukowski ripercorre una lunga serie di narrazioni tossiche di questo tipo: cronache dolosamente distorte che, di giorno in giorno, vengono propinate all’opinione pubblica per persuaderla della necessità di attuare politiche securitarie il più possibile stringenti, sino al punto che, parafrasando l’Autore, «le accuse di maleducazione e inciviltà e tutta la politica da pianerottolo si sono fatte politiche di parlamento, e da destra e da sinistra si fa a gara a chi le interpreta con maggior rigore».
Nella stesura di questo straziante – ma veritiero – taccuino di cronache di ordinaria discriminazione, Bukowski cita esplicitamente Furio Jesi, uno dei pensatori di sinistra più prolifici del secolo scorso, richiamando in causa il suo concetto di «idee senza parole». L’espressione è stata coniata da Jesi per indicare quegli artifici retorici di stampo tipicamente conservatore (come «Patria», «Tradizione», «Italianità», «Famiglia» e, ovviamente, l’abracadabra del neoliberismo, «Decoro e Sicurezza», tutti rigorosamente in maiuscolo) di cui la destra si serve per orientare il comportamento delle masse popolari.
Si tratta di astrazioni che vengono vendute come aprioristicamente insindacabili, intangibili in partenza e, di conseguenza, non suscettibili di alcun tipo di critica. La forza di queste parole-feticcio sarebbe da ricercare in un processo di idealizzazione che la destra porta a compimento attraverso una sapiente «opera di manipolazione dei materiali mitologici». Questo arsenale di parole-chiave dal sicuro successo verrebbe quindi sacralizzato attraverso il continuo richiamo a un passato mitico, un locus amoenus ancestrale – ormai inaccessibile – in cui il decoro permeava ogni singolo scampolo di vita sociale. Come scrive Jesi, quella di destra è «la cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile. La cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari […]. Una cultura insomma fatta di autorità e sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire». Una dimensione eterna in cui ci si vestiva in ordine, capelli corti, i treni arrivavano in orario, le strade erano linde ai limiti della patologia e, soprattutto, il bivacco era una pratica sconosciuta.
La volontà di recuperare questo passato mitico, ragionato, casto e composto, è la merce di scambio che i tanti sindaci-vigilantes danno in pasto all’opinione pubblica per ottenere una facile rielezione. Una crociata contro il degrado simboleggiata da una tendenza che, da più di un ventennio, viene riproposta in tutte le salse, senza soluzione di continuità: l’eliminazione delle panchine dagli spazi pubblici delle città. Ripercorrendo l’operato di alcune amministrazioni cittadine, dovremmo giungere alla conclusione che anche le sedute presenti nei parchi e nelle aree comuni abbiano finito con l’essere inglobate dalla «macchina mitologica» teorizzata da Jesi. La lunga corsa agli scranni comunali si gioca sulla pelle degli ultimi, colpendo senza pietà chi non detiene il privilegio di accedere alla ricchezza e inculcando il verbo della bivaccofobìa nella sfera percettiva degli elettori.
Già nel 1997 il sindaco leghista di Treviso, Giancarlo Gentilini, strenuo sostenitore della linea dura sulla sicurezza e fautore della cosiddetta «tolleranza a doppio zero» (sino al punto di meritarsi il soprannome di «sceriffo»), salì alla ribalta mediatica per aver disposto la rimozione delle panchine dalla città da lui amministrata, colpevoli di «venire utilizzate dagli immigrati», foraggiare il bivacco di extracomunitari e incentivare lo spaccio. Al tempo a rischiare l’eliminazione non furono soltanto le panchine, ma anche gli alberi, i cui rami «andavano segati» poiché venivano utilizzati dagli stranieri come appoggio per le proprie borse. La narrazione di Gentilini iniziò così a prendere corpo: un’innocua scenografia urbana si era trasformata improvvisamente in una minaccia.
Durante il suo mandato, Gentilini fece l’impossibile per dipingere la propria città come una sorta di Far West padano messo a repentaglio dalla presenza di pericolosissimi fuorilegge (leggasi: gli immigrati). Lo «sceriffo», rivendicando il titolo di garante supremo del decoro, impostò il proprio storytelling sul tema del «degrado morale», una piaga da estirpare il prima possibile, anche al costo di «tornare ai carri piombati». Non a caso, poche settimane prima dell’inizio di questa lotta senza quartiere nei confronti delle panchine cattive e degli alberi compiacenti, il sindaco lanciò una campagna per illuminare le mura cittadine poiché lì sotto, celati nel buio, stavano nascosti «ladri, puttane, culattoni e efebi negri e bianchi e loschi figuri che si aggirano di notte e non si vedono».
A distanza di più di vent’anni dal tentativo di ghettizzazione messo a punto da Gentilini, la narrazione del Carroccio in tema di sicurezza e decoro è rimasta immutata: nel giugno del 2018, l’amministrazione leghista di Mortara, guidata da Marco Facchinotti – per intenderci lo stesso sindaco che, nel 2015, aveva proibito ad alcuni profughi di allenarsi negli impianti sportivi del comune, dichiarando che «far giocare queste persone ci sembra uno sgarbo alle famiglie che portano i loro ragazzi a giocare a calcio. Non vogliamo che persone con uno status ibrido si allenino sui campi di calcio del Comune di Mortara» – ha pensato bene di eliminare le panchine dalla piazza del quartiere Pio X, ree di venire utilizzate da alcuni richiedenti asilo.
Non dovesse bastare, nell’agosto dello scorso anno, la giunta leghista di Ferrara, nel tentativo di realizzare l’utopia del proprio predecessore, ha dato il via all’operazione «Parchi sicuri», disponendo la rimozione di ben 150 panchine dagli spazi pubblici della città, con l’obiettivo dichiarato di sottrarle «ai luoghi tipici dello spaccio» per ricollocarle «in altre aree verdi». A darne l’annuncio l’assessore alla Sicurezza e vicesindaco Nicola Lodi, che ha ricondotto questo provvedimento nell’ambito di una più generale «lotta dura a chi spaccia nei parchi, a chi bivacca e a chi pensa di fare da padrone nei parchi giochi». Lo stesso Lodi – a tutti gli effetti un Gentilini 2.0 – non ha mancato di illuminare la cittadinanza circa i risvolti positivi del proprio provvedimento in un comunicato stampa d’annunciazione:
«Con oggi prende il via l’Operazione Parchi Sicuri e il primo passo concreto è togliere le panchine allo spaccio per darle ai cittadini. I nostri parchi devono essere popolati da bambini e anziani e non da chi vende morte e usa gli spazi pubblici per i propri affari illeciti. A cosa serve togliere una panchina? Tanto per cominciare a non concedere comodità ai criminali e poi, soprattutto, a poter sanzionare e segnalare, senza ulteriori passaggi, il primo spacciatore che bivaccherà per terra».
Ecco che, nel racconto (perché di questo si tratta) di Lodi, eliminare le sedute pubbliche diventa il tassello fondamentale di una strategia volta a «non concedere comodità ai criminali», e il semplice atto di stendersi su una panchina si trasforma in un comportamento indecoroso, un sintomo di pericolosità sociale da reprimere il prima possibile. Naturalmente, però, viene consapevolmente omesso che, proprio di quelle panchine, usufruiscono quotidianamente un gran numero di anziani e bambini, proprio le categorie sociali che il provvedimento si fregia di voler proteggere a ogni costo e che, invece, saranno costretti a «bivaccare per terra» assieme al peggio del peggio della microcriminalità ferrarese (anche in questo caso, leggasi: gli immigrati).
Puntualmente ritratte come una sorta di punto d’incontro congegnato ad hoc per attirare tossici, accattoni e delinquenti, le panchine si sono trasformate in un vero e proprio indice di pericolosità sociale, perlomeno sul piano della percezione: più panchine ci sono, più delinquenti e spacciatori di morte vi si stabiliranno in pianta stabile per contrabbandare droghe, sbronzarsi, urinarvi sopra e, perché no, spaccare qualche bottiglia; è questo l’assioma che gran parte dei nostri amministratori vorrebbe far passare come una legge universale: una teoria di fanta-crimonologia a tinte xenofobe, certo, ma anche un tormentone su cui i tanti sindaci anti-degrado che popolano lo stivale basano i destini della propria sopravvivenza politica.
Anche la strategia di de-panchinizzazione degli spazi pubblici rientra nel novero delle idee senza parole di jesiana memoria, esattamente come tutte le narrazioni tossiche di cui lo «sceriffo» di turno si serve per fomentare la paranoia securitaria, nel tentativo di normalizzare un immaginario in cui smontare delle panche, multare un mimo o imporre le manette a un ambulante vengono fatti passare come dei mali necessari, resi indispensabili dall’obiettivo supremo di «mantenere il decoro». Una caccia alle streghe 2.0, strumentale a fare tabula rasa degli ultimi, raffigurandoli come pericolosi criminali da recintare in appositi lazzaretti. È proprio inoculando questa retorica velenosa che vengono innalzati i muri di divisione che ben conosciamo: da un lato «noi» (i presunti civili), dall’altro «loro» (i presunti incivili, che coincidono sempre con chi fatica a mettere insieme il pranzo con la cena). Del resto, abbiamo ben poco di cui stupirci: l’elettorato italiano ha sempre avuto un debole per il bullismo istituzionale. E se è vero che tenere fede alla promessa di assicurare il decoro è un vero e proprio marchio di fabbrica della destra contemporanea, allora le panchine rappresentano lo specchietto per le allodole perfetto.

* Giuseppe Luca Scaffidi è un articolista freelance. È laureato in scienze politiche e internazionali e scrive di attualità e cultura per varie testate, tra cui The VisionForbes e Videodrome.

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