Anna Lombroso
La Corte dei Conti nel rendere note le motivazioni per le quali era arrivata in Cassazione per almeno una delle vertenze aperte con la banca americana Morgan Stanley, i cui derivati finanziari stipulati con il Tesoro tra il 1994 e il 2012 hanno comportato una perdita di 3,8 miliardi, grazie all’applicazione di una serie di “clausole capestro” inserite in quei contratti speculativi e accettate dallo Stato Italiano, ha fatto un’offerta per chiudere la vicenda con la richiesta di 2,9 miliardi di risarcimento. Alla quale la Banca ha risposto di no.
La pronuncia della Corte parlava di procedure complicate, strumenti inadeguati, risorse professionali scarse e, nel migliore dei casi, impreparate, si, nel migliore dei casi perché sarebbe stato accertato che quelle “adottate dal ministero violavano le norme di contabilità generale dello Stato” e “in diversi casi sembravano orientate unicamente e senza un valido motivo a favorire la banca” tanto che per almeno due contratti, la ristrutturazione fu “proposta da Morgan Stanley senza validi motivi e accettata dal Mef senza esercitare alcun ruolo attivo”, nel corso di operazioni che hanno mutuato le regole dal tavolo del casinò dove è sempre il banco a vincere.
La Corte dei Conti sperava di chiudere la partita con la Holding senza rimettere in discussione la sentenza del 2018 che riconosceva invece la legittimità del versamento fatto dal ministero dell’Economia a Morgan Stanley tra fine 2011 e fine 2012, di circa 3 miliardi, in applicazione di una clausola di “Additional Termination Event” presente in alcuni contratti derivati, un pronunciamento che aveva fatto tirare un sospiro di sollievo ai vertici del Tesoro: il ministro in carica nel 2011, Vittorio Grilli, il suo predecessore Domenico Siniscalco, l’ex direttore del debito pubblico, Anna Maria Cannata, il direttore generale Vincenzo La Via. La stessa Corte in quel caso aveva infatti riconosciuto il «difetto di giurisdizione», che stabilisce che i giudici non possano sindacare le scelte discrezionali dei funzionari, se sono prese “nel rispetto della legge”.
Non passa giorno quindi che non si abbia conferma che la bilancia della giustizia, civile, penale, amministrativa pende sempre dalla stessa parte. Quella del “regime”, quello vero, totalitario, quello che detta e risponde solo alle sue stesse leggi che fa scrivere ai grandi studi al servizio del sistema finanziario, delle banche, delle multinazionali e adottare ed applicare da governi e parlamenti svuotati di poteri e competenze e da macchine statali ridotte alla ratifica notarile.
Era meglio nel Far West, dove sulla testa della Morgan Stanley sarebbe stata messa una bella taglia, dando ai cacciatori di criminali l’opportunità di sparare al ricercato portando alle autorità una reliquia in cambio della ricompensa.
Perché non ci voleva un tribunale, nemmeno quello allestito nel saloon, un giudice in sè solo negli intervalli tra una bevuta e l’altra, per capire che di quei malfattori era meglio non fidarsi. Bastava guardare alla sua storia: nata come banca d’affari fondata dai due capostipiti, Henry S. Morgan e Harold Stanley, costretta dal Glass-Steagall Act che imponeva la separazione tra attività bancaria tradizionale e attività bancaria di investimento a scegliere in quale settore agire, decise di operare come banca commerciale. E così sviluppa le ste stretgie tossiche tra alterne vicende: nel dicembre 2007 il 10% della banca viene acquistato dal governo cinese tramite la China Investment Corporation, poi a seguito dell’insolvenza dei mutui subprime, che l’aveva travolta nella sua onda lunga insieme a Lemhan Brothers e Goldman Sachs, dal 22 settembre 2008 cambia status diventando una holding bancaria con facoltà di raccogliere anche depositi a risparmio posta sotto la supervisione della Federal Reserve Bank (FRB) e della Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC).
Un curriculum che conferma come gli untori della peste, che in maniera assolutamente prevedibile è partita come nel 1929 proprio da là e che ha contagiato tutto il mondo, rimangano gli unici immuni insieme alla loro cricca di produttori di virus, sotto forma di fondi, subprime, hedge, niente di più che fiches della grande roulette globale, aiutati dalle agenzie di rating – le agenzie internazionali di valutazione del credito che classificano l’affidabilità di soggetti privati e pubblici – delle quali sono generosi finanziatori in modo da poter essere controllati e controllori.
È così che si salvano sempre, ricattando o comprando consenso favorito da quello stuolo di economisti al loro servizio, qualche volta prestati alla politica in modo da diventare sponsor e testimonial, sulla cui buona fede è meglio non scommettere, di misure acrobatiche e di equilibrismi azzardati.
E come si potrebbero chiamare altrimenti le disposizioni che hanno dato luogo ai 47 miliardi stimati di potenziale esborso fra il 2011 e il 2021 per tutti i derivati sottoscritti dallo Stato italiano? O la manovra da giocatori delle tre carte grazie alla quale ci è stato fatto digerire come una panacea la manovra imposta proprio dal Morgan Stanley affinchè i rischi sull’Italia – “accertati” dalle agenzie di rating – scendessero da 4,9 a 1,5 miliardi in tre giorni, grazie alla esecuzione, consigliata dall’alto e da fuori, ad alcune “modifiche relative alla ristrutturazione di contratti derivati”? modifiche che sono costate al nostro Paese, allora sotto l’oculata guida di Mario Monti, E l’Italia, circa 3,4 miliardi.
I cacciatori di taglie avrebbero il loro bel da fare andando indietro nel tempo, perché era a gennaio 1994, appena insediato il governo Dini, che il Tesoro aveva stipulato quel contratto capestro con il racket, una specie di ombrello sotto il quale dare “riparo” a tutte le operazioni speculative che le due parti avrebbero poi sottoscritto negli anni successivi.
Non li riavremo quei 2,9 miliardi. E non sarebbe male cominciare a appendere ai muri delle nostre città quei volantini con scritto wanted e le foto dei ministri (defunti compresi, per non dimenticare) e dei capi dei governi che si sono succeduti: Andreotti, Formica, Amato, Reviglio, Ciampi, Berlusconi, Tremonti, Prodi, Visco, Padoa Schioppa e quel Siniscalco che da Ministro aveva concluso i contratti per conto dello Stato italiano per poi pretenderne il pagamento una volta diventato prestigioso consulente della controparte.
Sarebbe una misura minima da mettere in atto, attaccare quei manifesti con quelle facce da galera sui muri dei nostri comuni e delle nostre regioni, comprese quelle che pretendono autonomia dopo queste buone performance, che hanno partecipato a questa orgia bulimica e suicida, istigati dai governi nazionali, ricattati dai diktat europei, vuoi per racimolare fondi a fronte dei tagli ai bilanci sempre più consistenti, vuoi per difendersi dai rischi di aumento dei tassi di interesse sui soldi presi in prestito tramite mutui o emissioni di titoli obbligazionari e che scelsero di ricorrere alla finanza creativa.
È grazie a questo che si allunga la lista dei comuni falliti, grazie a questo che viene rivendicata l’impotenza a agire nel nostro interesse, mentre i croupier fanno girare la pallina della roulette truccata e escono i numeri vincenti dei bari.
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