Il 14 gennaio la Commissione europea ha presentato il piano da 1.000 miliardi di euro in 10 anni per sostenere e realizzare l’European Green Deal (EGD) e il 15 gennaio il Parlamento europeo ha dato il suo voto favorevole all’inizio del percorso verso un continente decarbonizzato entro il 2050 e una giusta transizione che non lasci nessuno indietro, ma il dibattito sui media italiani sembra ridursi al calcolo di quanti soldi l’Italia potrà avere per risolvere emergenze, delicate e complesse e finora non risolte, quali quelle dell’ex Ilva di Taranto.
Il commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni precisa che nel nostro Paese potranno arrivare centinaia di milioni, anche certamente da investire in situazioni delicate quale quella dell’ex Ilva, grazie ad una revisione e possibilmente una correzione della la normativa europea sugli aiuti di Stato che però, ha precisato il 14 gennaio, deve essere “in linea con gli obiettivi politici del Green Deal”.
Una revisione che la Commissione europea ha stabilito debba essere definita entro il 2021 e che nelle dichiarazioni di Gentiloni “includerà un riferimento agli investimenti pubblici sostenibili nel contesto della qualità dei conti pubblici.”
C’è, quindi, molto da fare per il governo Conte 2 che finora ha solo abbozzato le linee di intervento del New Green Deal italiano nella Nota di Aggiornamento al Def (NADEF) e previsto nella legge di bilancio 27 miliardi di euro sino al 2034 a vario titolo (nel pacchetto di investimenti c’è di tutto) a questo scopo.
C’è solo da augurarsi che non ci si limiti redigere un cronoprogramma e che ci sia un salto di qualità nelle indicazioni programmatiche sulla transizione verde che dovrebbero aprire entro febbraio la seconda fase dell’attività di governo.
E non si tratta della solita giaculatoria, perché il presidente del Parlamento europeo Davide Sassoli ha dichiarato negli scorsi giorni, rivolgendosi agli europarlamentari che: “Il Green Deal è la scommessa di un nuovo modello di sviluppo europeo, ci saranno 50 provvedimenti legislativi nei prossimi due anni.”
Il governo del nostro Paese deve chiarirsi le idee in fretta, non solo per tenere il ritmo incalzante delle sollecitazioni che verranno da Bruxelles e Strasburgo, ma per capire quali siano le linee di intervento e gli obiettivi di fondo di una rivoluzione che o rivede i paradigmi produttivi e della spesa pubblica o non è.
Nella NADEF si dice che il Green New Deal dovrà improntare la riconversione dei processi produttivi verso la Quarta rivoluzione industriale, affermazione condivisibile, ma l’Europa (tra i 20 provvedimenti citati da Sassoli) si ripromette entro il marzo 2020 – cioè in pratica domani – di varare Strategia industriale europea e un piano d’azione per l’economia circolare (che abbia al suo interno anche una politica sulla produzione sostenibile), nonché una nuova direttiva sul clima che definirà impegni vincolanti per i vari Paesi membri e sarà accompagnata da una revisione dei meccanismi ETS, sulle emissioni di gas serra.
La Commissione europea sembra voler mettere i piedi nel piatto, anche se il Parlamento europeo (come vedremo tra poco) chiede obiettivi ancora più ambiziosi.
Ma l’Italia deve chiarirsi finalmente con onestà intellettuale cosa vuole che sia portato al di fuori del perimetro degli aiuti di Stato e soprattutto dotarsi di una politica industriale.
Sembra ovvio, ma non lo è per niente, visto che un miope ricorso al laissez faire, alle forze spontanee del mercato, è stata l’ideologia e la prassi di molti dei governi italiani anche di centro-sinistra, a meno che non si trattasse, di volta in volta, di salvare Alitalia o intervenire con oltre 10 decreti per mettere una pezza alla crisi industriale dell’Ilva, tutelando malamente lavoro e ambiente.
In Europa, nella dialettica tra la Commissione e il Parlamento (con quest’ultimo più determinato e pressante), si discute se l’obiettivo della neutralità climatica (emissioni zero di gas serra) da conseguire al 2050 non possa essere raggiunto prima, stabilendo step intermedi sfidanti, e inscrivendo nella nuova direttiva europea sul clima l’obiettivo vincolante dell’abbattimento delle emissioni di gas serra del 55% (e non del 50% o 55% come detto nella Comunicazione Ce) rispetto ai livelli del 1990.
Ciò comporta la definizione, appunto, di una strategia industriale europea che, secondo quanto scritto nella Comunicazione Ce, abbia come obiettivo la decarbonizzazione e la modernizzazione dei settori produttivi energivori dell’acciaio, della chimica e del cemento e le linee di intervento verso la giusta transizione per settori produttivi resource intensive come quelli del tessile, delle costruzioni, dell’elettronica e della plastica, nonché il sostegno all’innovazione sul prodotto nella direzione dell’economia circolare.
E’ chiaro che anche su scala europea nulla può essere dato per scontato e quelle che sono enunciazioni condivisibili dovranno essere messe alla prova dei fatti nella capacità dell’Europa politica di definire obiettivi chiari e vincolanti e nel saperli rispettare e conseguire, di fronte alla resistenza di chi nel mondo produttivo e politico, soprattutto nell’Est europeo, sottovaluta o nega la necessità di cambiamenti epocali.
Siccome le gambe delle politiche pubbliche sono le risorse economiche che si mettono sul piatto, interessante è leggere come si compone la cifra di 1.000 miliardi di euro in 10 anni a sostegno dell’European Green Deal: 503 miliardi di euro dal budget europeo, 25 miliardi di proventi dalle aste ETS, 100 miliardi per il nuovo Fondo per la Giusta transizione, 114 miliardi di euro dal cofinanziamento degli Stati membri, 279 miliardi di finanziamenti pubblico/privati per il perseguimento degli obiettivi climatico-ambientali.
Per quanto riguarda l’Europa bisognerà capire quanto il ri-orientamento del budget europeo e delle strategie di intervento della Banca europea degli investimenti (BEI) si trasformerà in una reimpostazione di fondo delle politiche su temi cruciali quali, ad esempio, la politica agricola comunitaria (PAC) e le TEN-T, le reti di trasporto transeuropee, e se davvero si avrà quel volano di investimenti pubblico-privati che costituiscono il 28% dell’ammontare complessivo delle risorse mobilitate.
Quel che però emerge dalla Comunicazione Ce è che l’Europa sembra proprio che voglia far sul serio, come dimostrano le cifre appena citate, i numerosi strumenti legislativi e non, previsti a breve o annunciati, e dal fatto che, oltre all’impegno concreto della presidente della Commissione Ursula von der Leyen, è stata data una delega al coordinamento delle azioni per l’European Green Deal e per il clima ad uno dei due vicepresidenti esecutivi della Commissione, l’olandese Frans Timmermans, mente si registra un protagonismo su questi temi anche dell’altro vicepresidente esecutivo agli Affari Economici della CE, il lettone Valdis Dombrovskis.
Al netto dei finanziamenti a questo titolo nella Legge di Bilancio e al contributo richiesto dalla Ce per l’EGD, anche il nostro presidente del Consiglio Giuseppe Conte ci sta mettendo la faccia dichiarando che lo sviluppo sostenibile deve portare ad un ripensamento dei modelli produttivi e delle politiche pubbliche per un’Italia più verde.
A questo fine il governo ha provveduto con il cosiddetto “Decreto Clima” alla trasformazione del Cipe in Cipess – Comitato interministeriale per la programmazione economica e sostenibile, per rafforzare il coordinamento per il ri-orientamento delle politiche nazionali verso lo sviluppo sostenibile.
E’ stato anche costituto presso il ministero dell’Ambiente un tavolo interministeriale allo scopo di monitorare e adeguare ai risultati le azioni del Programma strategico nazionale per il contrasto ai cambiamenti climatici.
Ma l’impianto politico-istituzionale rimane debole, gli obiettivi poco definiti e le azioni da mettere in campo troppo vaghe.
Sì, c’è un forte bisogno che nel Programma per la Fase 2 del Governo Conte 2 si veda la differenza.
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