Succede nella grandi e estese urbanizzazioni, ma anche nei piccoli borghi, dove i centri storici si desertificano per l’espulsione forzata dei residenti costretti a lasciare la città in mano ai predoni immobiliari, agli speculatori che svuotano le abitazioni per farne gli uffici delle grandi banche, gli hotel dove ospitare la clientela della fabbriche del turismo, le sedi delle multinazionali e i residence per le loro cerchie di globe trotter de luxe.
Ha certamente contribuito anche quella piccola startup di san Francisco, cresciuta a dismisura che si chiama Airbnb e che negli anni ha catalizzato centinaia di migliaia di piccoli proprietari e affittuari, che inizialmente hanno costituito la base di massa della piattaforma, ma che oggi soffrono della pressione e della concorrenza che li sta divorando, i detentori di una rete di abitazioni, spesso agenzie multinazionali o grandi proprietà che riescono a garantirsi un reddito costante senza soffrire delle incertezze del mercato immobiliare.
Circola in questi giorni una classifica di Infodata che registra la presenza di Airbnb nelle città europee e che colloca al primo posto dei centri occupati militarmente dalla piattaforma, Porto con 454,78 appartamenti ogni 10mila abitanti, seguita da Lisbona e Copenhagen, mentre Venezia e Firenze sono “solo” quinte e seste.
Ma la statistica riguarda gli alloggi “registrati”, non prendendo in considerazione quelli sommersi e clandestini, che non pagano oneri fiscali e si sottraggono a ogni genere di controllo, e nemmeno tiene conto del rapporto tra residenti e “passanti” la cui permanenza è variabile.
Così l’algida aritmetica non rende l’idea del danno economico, sociale, culturale e morale del contributo che questa forma di sfruttamento delle città ha dato alla gentrificazione, una parolaccia derivata all’inglese per definire il processo di trasformazione di un quartiere popolare in zona abitativa di pregio, con conseguente cambiamento della composizione sociale e dei prezzi delle abitazioni. Sinonimo questo, adottato in campo urbanistico, di “valorizzazione” termine impiegato dal liberismo selvaggio per specificare, tanto per fare un esempio, lo sfruttamento di foreste per fornirci di parquet o per allevare in forma intensiva la materia prima degli hamburger.
E infatti si tratta di un prodotto tossico come certi fondi e certi titoli, promosso dai governi nazionali e locali e finanziato dal debito per il suo un duplice effetto: quello di congelare sia pure temporaneamente il malessere delle nuove classi disagiate strangolate dai mutui e dalle spese condominiali e dal fisco contribuendo a integrare i bassi redditi di piccoli proprietari e inquilini, offrendo un reddito perlopiù sommerso e parassitario a figli e nipoti che si integrano nelle magnifiche sorti e progressive della gig economy diventando affittacamere digitali e globali, e quello di limitare l’offerta delle case in affitto normale facendo lievitare i valori degli immobili e dei canoni di locazione, espellendo l’indesiderato ceto medio-basso.
È un fenomeno che viviamo ogni giorno, a Testaccio, a Trastevere, al Pigneto e alla Garbatella investite dalla movida degli apericena coi tavolini sul marciapiedi a godersi la memoria estinta del ponentino, sui Navigli, in quei quartieri che perdono il carattere abitativo per diventare folclore e attrattiva turistica e dove in ogni stabile campeggia almeno una insegna di casa-vacanze, B&B, affittacamere, punte visibili dell’iceberg di passaparola del mercato sommerso di stanze coi letti accatastati, poche pulizia, bagni in comune e scontrini per il caffè al bar di sotto. Ma si verifica anche tra i masi di montagna delle Alpi, nella campagna un tempo felix intorno alla Reggia di Caserta, nei borghi abbandonati e solitari del Molise dove l’unica popolazione che intravvedi passando è di anziani davanti al bar con la serranda tirata giù a metà, o in quelli della Lucania dove qualche basilisco cerca di tirare a campare entrando nel brand di manager dell’accoglienza con l’offerta della casetta di nonna o del rudere pittoresco tra gli ulivi.
Così il veleno che ha intossicato le aspettative degli indigeni e quelle di chi arriva contagia tutto, si perdono i caratteri identitari delle popolazioni, delle attività, delle relazioni e delle memorie per convertire le città in parchi a tema, con i “residenti” che magari dopo aver dato le chiavi e le istruzioni per l’uso vanno a dormire in periferia, ridotti a figuranti, comparse e inservienti. Mentre ai turisti si spaccia una imitazione della vita di una comunità che non c’è più, falsificata, taroccata e banalizzata, desiderabile sfondo per selfie.
Non a caso sono rare le sacche di resistenza al processo, le associazioni e le organizzazioni, i movimenti sociali che combattono la pacchiana ristrutturazione e valorizzazione, i cambi di destinazione d’uso, le svendite del patrimonio immobiliare pubblico accompagnato dal trasferimento dei servizi essenziali fuori dalla “cerchia delle mura”, l’aumento ingiustificato dei prezzi dei generi di consumo accompagnato dall’espulsione delle attività sostituite dai supermercati e dai centri commerciali o dalle catene di distribuzione di merci uguali in tutto il mondo.
Sono pochi ancora e non hanno la visibilità e l’appoggio di fermenti cari all’establishment. E non c’è da stupirsene, pensando a Venezia dove disposizioni urbanistiche che hanno promosso cambio d’uso di tutti gli immobili classificati come abitazioni anche se sfitti o disabitati (escludendo solo i piani terra), leggi regionali e delibere comunali che hanno liberalizzato e incentivato la trasformazione ricettiva degli appartamenti e delle singole stanze, hanno investito la città e le sue isole, travolte dal dilagare di nuovi alberghi, pensioni e residenze turistiche. O a Firenze, storicamente afflitta da sottoccupazione dove l’unica “opportunità” viene monocoltura della “fabbrica del turismo”, che vampirizza il patrimonio artistico e culturale che estrae, che consuma, ma che non sa né tutelare né riprodurre.
Prevengo i fan del cosmopolitismo al posto dell’internazionalismo che obietteranno che è un formidabile progresso offerto dalla globalizzazione la possibilità di muoversi, viaggiare, conoscere e immedesimarsi sia pure temporaneamente in vite e posti nuovi low coast, che questo non deve essere un lusso per pochi, perché è frutto di lotte e conquiste di diritti.
In verità si tratta di una ulteriore disuguaglianza, aggiuntiva alle tante della nostra contemporaneità e che contrappone da una parte il turista acculturato che spende e ha il diritto di pretendere, dall’altra quello frettoloso, disinformato che non possiede le prerogative per godere dei doni della cultura, della natura e della creatività e dunque non li merita, giustamente costretto alla deportazione in pullman, nave, messo in fila in un corteo di pellegrini a sfiorare pietre secolari e dare uno sguardo di sfuggita a opere immortali, finendo per mangiare panini sottovuoto seduto sui gradini del Ponte di Rialto o in Piazza dei Miracoli e a dormire pagando in nero un letto di fortuna.
Ed è quella che offre di consumi di massa per drogare la massa, elargendo qualche sogno e qualche gita al posto dei diritti e della legittima soddisfazione di aspettative e talenti, sostituendo col selfie e il souvenir uguale a Pisa come a Dubai, la memoria della dignità, e con la foto di gruppo alle immagini di lotta delle piazze dove un tempo ci si trovava tutti insieme, tutti nello stesso tempo e nello stesso luogo per far vedere e sentire come è bella la libertà.
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