Le brusche accelerazioni belliche e le repentine ritirate
diplomatiche o commerciali, segnano le relazioni internazionali di
questi primi vent’anni del XXI Secolo.
Come noto la storia non si ripete mai uguale a se stessa, ma i processi ai quali stiamo assistendo sembrano veramente aver riportato il mondo indietro di un secolo.
E lo scorcio storico che meglio si attaglia a quello che stiamo vivendo è la fine della Belle Epoque con la Prima Guerra Mondiale del 1914.
La Belle Epoque segna quella fase di passaggio tra l’Ottocento e il Novecento in cui la prima globalizzazione capitalista del mondo poteva dirsi compiuta attraverso l’espansione coloniale e la competizione tra tutte le potenze europee (inclusi il piccolo Belgio in Congo, l’Italia nel Corno d’Africa e in Libia, la Germania in Togo, Tanganica e Namibia).
E’ quella che Eric Hobsbawn definisce come l’età degli imperialismi e che Lenin, analizza in modo ancora più profondo nel suo libro 1916 che lo inquadra come “fase suprema del capitalismo”.
Altre analisi interessanti furono quelle di Hilferding e Rosa Luxemburg.
E’ significativo segnalare come tutte le principali potenze imperialiste dell’epoca (esattamente quelle che oggi sono nel G8, includendo la Russia ed escludendo il Canada), si ritrovarono unite nella repressione della Rivolta dei Boxer in Cina nel 1900.
Tutti, ma proprio tutti, inviarono i loro contingenti militari e poi si spartirono le concessioni di porti, ferrovie e commerci in Cina in una classica guerra asimmetrica come quelle che abbiamo visto in Serbia, Afghanistan, Iraq.
Eppure negli anni immediatamente successivi le stesse potenze che avevano agito insieme contro la Cina, che spesso avevano intrecci di affari, commerci e investimenti strettissimi, entrarono in competizione e cominciarono a combattersi tra loro nella periferia coloniale in Africa, Asia e Medio Oriente.
Ai primi del Novecento inizia così una fase di stop and go, di minacce e ritirate, di negoziati e fatti compiuti, di alleanze variabili e accordi commerciali e guerre commerciali, di scontri militari e tregue.
Ma i soldi giravano in Europa e negli Usa, arrivavano dalle risorse rubate e dagli investimenti nelle colonie, le disuguaglianze sociali erano fortissime ma il movimento operaio cominciava a strappare conquiste importanti.
Nessuna potenza pensava o voleva scatenare una guerra frontale con i propri competitori.
Le società, le industrie e le banche erano spesso di proprietà multinazionale, i regnanti erano spesso imparentati tra loro nei quattro imperi europei (tedesco, austroungarico, russo e britannico), si guardava semmai a come spartirsi le spoglie dell’altro impero, quello Ottomano, in cui si manifestavano segnali di crisi. L’idea della “suprema civiltà europea” contro il “dispotismo asiatico” (spesso oggi ri-utilizzata contro Russia e Cina) non nasce in questi anni, è un retaggio dei vecchi imperialismi europei che ci viene riproposto sia attraverso l’american way of life che attraverso lo stile di vita europeo della Von der Leyen.
Eppure in una fase di stallo, in cui nessuno voleva la guerra e ci si limitava a schermaglie, incursioni, mobilitazioni di forze militari nei teatri di crisi o sulle frontiere, alla fine tutte le principali potenze si ritrovarono a far scannare i loro popoli nelle trincee in Europa o nelle colonie.
Sul piano ideologico funzionò la trappola della cooptazione delle rispettive popolazioni a sostegno ognuno del proprio imperialismo, trascinandovi anche i partiti socialdemocratici del movimento operaio.
Fecero eccezione una piccola pattuglia di comunisti internazionalisti che vi si opposero all’insegna della “guerra alla guerra” e dell’opposizione dei popoli verso i propri governi, monarchie, regimi.
Nella fase storica che precedette e portò alla Prima Guerra Mondiale, era accaduto che gli ampissimi margini di profitto accumulati con la globalizzazione capitalista e l’espansione coloniale si erano ridotti bruscamente, costringendo le varie potenze a contendersi una torta più piccola rispetto a quella prima disponibile.
Oggi possiamo dire che siamo in una situazione molto simile. La torta da dividersi si è ridotta a causa delle contraddizioni interne del capitalismo che dalla crisi della prima metà degli anni ’70 ha cercato di recuperare margini non più disponibili.
L’abnorme dimensione finanziaria non corrisponde più alla ricchezza reale esistente e le stesse monete vengono utilizzate come arma della competizione e della guerra.
Nei primissimi anni del XXI Secolo la seconda globalizzazione (dovuta alla dissoluzione dell’Urss e alla piena disponibilità di nuovi mercati all’Est, all’industrializzazione dell’Asia e dell’America Centrale, alla amplissima disponibilità di risorse e all’unificazione del mercato mondiale), è finita ed è diventata nuovamente competizione globale.
In questa competizione ci sono imperi che declinano (come accaduto nella prima metà del Novecento) e potenze globali che emergono sfidandone l’egemonia. L’incubo dei neoconservatori statunitensi sul processo di declino Usa, espresso già nei primi anni Novanta e poi nel 2001 con il bellicoso Project of New American Century, si è così avverato.
Insomma la fine della Belle Epoque è una fase della storia che ci dice molto sul presente, sull’attuale fase di stallo degli imperialismi e sulla perniciosità di quelle forze che lavorano per cooptare lavoratori e popoli a sostegno del proprio imperialismo.
Avviene negli Usa ma anche nell’Unione Europea.
L’epifenomeno più evidente è Trump con i suoi continui stop and go nei rapporti con il resto del mondo.
E’ solo l’inquietante eccentricità di un presidente o un segnale della fase in cui stiamo vivendo?
Nei mesi scorsi abbiamo definito questa fase come una situazione di “stallo tra gli imperialismi”.
In questa definizione ci sono due concetti importanti: lo stallo e l’imperialismo declinato al plurale e non solo affibbiato agli Stati Uniti.
E’ una lettura decisamente controcorrente rispetto a quelle un po’ consolatorie che cercano il “campo dei nostri” in un contesto a geometrie politiche fortemente variabili ed a quelle che vorrebbero l’Europa emergere come potenza nella competizione globale assegnandole un ruolo “progressivo” che ha perduto ormai da più di venti anni.
La guerra non è più escludibile dagli scenari possibili.
Così come allora riteniamo che l’unico campo individuabile a livello internazionale sia quello che divide chi ha interesse alla guerra e chi non ha interesse alla guerra, che l’indicazione da perseguire sia quella della “guerra alla guerra”, dell’opposizione di ogni popolo e dei lavoratori al proprio imperialismo, di una politica internazionale per il nostro paese fondata sulla neutralità attiva e il non allineamento (e quindi fuori dalla Nato e dalla Ue).
Su questo e non su altro vale la pena di impegnare le forze.
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