Ieri, 2 gennaio 2020, dall’alto dei suoi ottantatré anni, Silvio Berlusconi ha dichiarato a Repubblica che «un passaggio di testimone in Forza Italia non è all’ordine del giorno». La tragedia è che ha ragione. E non solo per Forza Italia.
infosannio.wordpress.com (Francesco Cundari – linkiesta.it)
In Italia, l’ultima volta che una tale questione è stata posta con
qualche durevole efficacia all’attenzione dei dirigenti di un partito
fu con l’ordine del giorno Grandi. E anche in quel caso, la
riunione del Gran Consiglio del fascismo che segnò la caduta di Benito
Mussolini, la definitiva uscita di scena del leader non fu
dettata da una decisione interna al suo partito – ancorché, diciamo
così, fortemente condizionata da circostanze esterne – ma dall’esito
della guerra, due anni dopo, e fu assai più cruenta.
Senza volerla fare troppo lunga, risalendo fino ai tempi di Giovanni
Giolitti, o addirittura di Camillo Benso di Cavour, si può dire che
questa sia da sempre la regola non scritta della politica italiana, che a volerla scrivere recita più o meno così: le partite non finiscono mai, se non per esaurimento fisico dei contendenti,
o altre cause di forza maggiore, quali arresto, esilio, grave problema
di salute, messa fuori legge del proprio partito o sconfitta in una
guerra mondiale. A riprova del fatto che in Italia le regole non scritte
sono le uniche regole che si rispettano sempre.
Quasi impossibile trovare da noi esempi di ex capi di governo impegnati soltanto in conferenze e iniziative benefiche,
come tutti gli ex presidenti americani, da Barack Obama indietro fino a
Jimmy Carter (per restare ai vivi), o come gli ex premier britannici
(da David Cameron a Tony Blair), spagnoli (da José Luis Rodríguez
Zapatero fino a Felipe González) e tedeschi (Gerhard Schröder, in
verità, si è trovato un impiego più remunerativo e meno encomiabile, ma
comunque è uscito dalla politica). Nell’Italia di oggi, l’unica eccezione, per il momento, è costituita da Enrico Letta.
Le altre a cui state pensando sarebbero già al secondo o terzo rientro,
dunque non possono essere conteggiate tra i ritirati, ma al massimo tra
i riservisti.
Quanto al passato, se parliamo di leader che siano effettivamente
usciti di scena (e anche su questo punto dovremmo aggiungere parecchie
precisazioni), le vere eccezioni alla regola, negli ultimi cento anni,
saranno state quattro o cinque: Achille Occhetto, Francesco De Martino, Mariano Rumor (più uno che mi sarò sicuramente dimenticato, al massimo due). La vicenda di Fausto Bertinotti,
invece, meriterebbe un capitolo a parte, avendo praticamente
disintegrato partito e coalizione da lui guidati alle elezioni del 2008,
e ciò nonostante avendo indicato egli stesso il proprio erede (Nichi
Vendola) al successivo congresso di Rifondazione comunista, perdendo
anche quello.
Altra questione, naturalmente, è il caso dei leader affondati con tutta la nave, come Antonio Di Pietro o Gianfranco Fini,
conferma estrema dell’impossibilità di ogni naturale avvicendamento. O
quello di chi si ritira solo per prendere meglio la rincorsa, cui
accennavo un momento fa: e qui andrebbe stilato l’infinito elenco dei
leader di centrosinistra che dopo avere solennemente abbandonato la
politica hanno fatto – o ri-fatto – il presidente del Consiglio, il
segretario di partito o il ministro (senza dimenticare, ovviamente, la
corsa per il Quirinale: unica carica per accedere alla quale, in Italia,
è obbligatorio ritirarsi dalla competizione). O ancora il caso di chi, pur di non mollare la leadership, si è fatto un altro partito:
dal già citato Nichi Vendola, uscito dal suo partito nel 2009, pochi
mesi dopo un’imprevista sconfitta congressuale, a Pier Luigi Bersani e
Massimo D’Alema, usciti dal loro nel 2017, tre mesi prima del congresso,
avendola prevista.
Con le suddette precisazioni, e un paio di altre eccezioni a cui so
che state pensando e su cui verrò tra un momento, si può dire che la
questione del «passaggio di testimone» evocata da Berlusconi all’alba
del 2020 – dopo avere seppellito tutti i suoi avversari interni ed
esterni – all’ordine del giorno non ci sia stata mai, per nessuno.
Per quanto riguarda il Partito comunista, dalla Liberazione
in poi, i segretari sono stati sostituiti esclusivamente per cause
naturali. Da vivi, soltanto in due: Luigi Longo, perché colpito
da ictus e di conseguenza affiancato come vicesegretario già nel 1969
da Enrico Berlinguer, successore designato dallo stesso Longo al
congresso del 1972, e Alessandro Natta, che si dimise nel 1988, poco
dopo un infarto, sollecitato anche dalle indelicate pressioni ricevute
mentre era ancora nel letto d’ospedale. E il già menzionato Occhetto,
naturalmente – che era peraltro il principale beneficiario, per non dire
l’ispiratore, delle pressioni di cui sopra – ma solo quando il Pci non
c’era già più: nel 1994, dopo la doppia sconfitta elettorale del Pds
alle politiche e alle successive europee.
Quanto al Partito socialista, Pietro Nenni ha continuato a
esercitare un ruolo rilevantissimo ben oltre la sua lunga stagione da
segretario, ed è stato decisivo nell’ascesa di Bettino Craxi,
nel 1976. Il quale a sua volta non si può dire che abbia ceduto il passo
in seguito a un normale avvicendamento interno. Anzi, si potrebbe dire
che il suo caso, come quello per altri aspetti diversissimo di Matteo Renzi, sia una dimostrazione a contrario della tesi:
quando qualcuno prova cioè a violare la regola aurea, dando l’assalto
ai gruppi dirigenti del proprio partito in nome del ricambio
generazionale prima del tempo (cioè prima della loro consunzione
fisica), il risultato è che se li ritrova tutti alleati contro,
i vecchi gruppi dirigenti del suo, ma pure quelli degli altri partiti, e
delle burocrazie, magistrature, case editrici, giornali, giù giù fino
agli amministratori di condominio. A ripensarci oggi, bene o male, Craxi
è rimasto in sella per un quindicennio, dal 1976 al 1992. Matteo
Renzi, che con la parola d’ordine della rottamazione sembrava deciso a
spezzare per sempre l’incantesimo, nemmeno quattro anni: dal 2014 al 2018.
Dunque ha ragione Berlusconi, che in questo sembra avere preso a
modello i vecchi leader democristiani, con le loro convergenze
parallele, le loro politiche dei due forni e la loro incredibile
capacità – affinata in decenni di democrazia bloccata, in cui l’unica
alternanza possibile era quella tra le correnti della Dc – di non
rompere mai fino in fondo nemmeno con l’avversario più accanito, in
un centrismo che è stato sempre anzitutto un centro di gravità
permanente, attorno al quale potevano cambiare le idee, ma mai la gente. Così Berlusconi è insieme il primo populista d’Italia e il primo argine al populismo di oggi,
garante dei suoi aspiranti successori presso quelle stesse cancellerie
europee che fino a ieri qualificava in termini irriferibili, venendone
ricambiato con risa di scherno in diretta tv; nemico numero uno di ogni
disciplina fiscale (come di ogni altro genere di disciplina, del resto),
ma anche padre nobile del governo Monti, nonché suo primo affossatore
nella scoppiettante campagna elettorale del 2013, che non rivinse per
poche migliaia di voti, nell’ennesima, imprevedibile e come sempre
imprevista delle sue mille resurrezioni.
Ecco perché in Forza Italia il passaggio di testimone non è
all’ordine del giorno, e in Italia nemmeno. Dunque, mettetevi comodi: nonostante le tante ragioni di preoccupazione e persino di allarme, alla fine dei conti, vi aspetta un 2020 noiosissimo.
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venerdì 3 gennaio 2020
L’irrottamabile Berlusconi dimostra qual è la regola aurea della politica italiana.
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