Gli economisti mainstream tendono sempre di più a un'analisi riduttiva della povertà. Serve invece una visione strutturale del problema in grado di immaginare politiche pubbliche per un diverso sviluppo produttivo e sociale.
Gli economisti cosiddetti ortodossi o mainstream – quelli che, più o meno consapevolmente, adottano l’approccio attualmente dominante
– basano sempre più le loro analisi di fenomeni come lo sviluppo e la
povertà sull’utilizzo di metodologie sperimentali, e più in generale
quantitative, considerate in quanto tali propriamente scientifiche.
Alla
base di questo approccio, i cui principali esponenti sono stati
recentemente consacrati dall’attribuzione del premio Nobel per l’Economia,
vi è l’assunzione che le persone – soggetto principale dell’analisi
economica, da cui si rimuovono invece aggregati come classi, sindacati, e
via dicendo – siano razionali (nell’accezione che danno gli economisti
di razionalità, ovviamente) e perfettamente informate – abbiano cioè una
chiara o sufficiente percezione delle alternative a disposizione e
delle conseguenze delle loro scelte prima di compierle.
La conseguenza
di tali ipotesi è che si possa prescindere da dinamiche contestuali –
per esempio istituzionali – oltre che ovviamente di quelle di natura
etica.
Usando questo approccio, si rafforza l’idea per cui la politica
economica e dunque lo Stato possano (e debbano) essere lasciati fuori
dalle determinanti istituzionali e sociali, prima che economiche.
L’evidente risultato è una mancanza di sviluppo strutturale,
strettamente connesso all’emersione di capacità produttive in diversi
settori dell’economia. In quest’intervista affrontiamo il tema dello
sviluppo strutturale e della povertà, e di come trovare risposte alla
povertà non necessariamente porti allo sviluppo. Lo facciamo con il
professor Antonio Andreoni, economista della Soas University of London
ed autore di importanti ricerche su questi temi.
A partire dagli anni Ottanta il problema della povertà è stato affrontato in una chiave puramente microeconomica e con un focus sull’individuo, più che sul cambiamento strutturale e sullo sviluppo produttivo. L’applicazione dei Rct (Randomised Control Trials, metodo micro-econometrico finalizzato all’analisi dell’impatto di un certo intervento – anche detto trattamento – sul comportamento di un individuo) ha semplicemente offerto una metodologia di analisi coerente con una certa visione della povertà. Questa visione tende a concentrarsi su singole problematiche o comportamenti (l’installazione di reti antizanzare, o il miglioramento della frequenza scolastica), non considerando quei fattori e caratteristiche di contesto che danno forma al comportamento degli individui. Si guarda a questi micro problemi, per esempio, a livello di singolo villaggio o di area, dove la metodologia sperimentale può essere adottata applicando un trattamento a un gruppo e comparandone il risultato con un altro gruppo non trattato. Nel condurre queste analisi si perdono di vista le condizioni strutturali in cui questi comportamenti emergono, e ancor più non si considerano le condizioni del sistema produttivo e distributive, sia all’interno di una nazione che tra nazioni. Un esempio è quello del micro credito: qualche anno fa era popolare l’idea che per combattere la povertà, la strategia più efficace fosse quella, «micro», di prestare piccole somme a piccoli contadini o commercianti. Mentre tali strumenti possono avere un’applicazione in alcuni contesti, ma di certo non sono strumenti efficaci a trainare il cambiamento economico strutturale, l’investimento produttivo nelle tecnologie e infrastrutture. Queste dinamiche dello sviluppo erano considerate centrali nell’economia classica – come viene comunemente definito l’approccio economico dominante tra la pubblicazione della Ricchezza delle nazioni di Adam Smith e la fine dell’Ottocento, inclusi i lavori di David Ricardo e Karl Marx; purtroppo, con la perdita di questi capisaldi teorici e una visione a-strutturale della povertà, metodologie come i Rct sono diventate di successo e hanno dato l’impressione di poter testare empiricamente l’efficacia o meno di interventi per la riduzione della povertà. Ciò è problematico sia da un punto di vista metodologico che politico-economico, perché questo tipo di «esperimenti» non consentono naturalmente di controllare (come si usa nel gergo econometrico) elementi di contesto fondamentali, tra cui aspetti di economia politica come l’organizzazione e il funzionamento dei mercati e dei servizi pubblici in diversi paesi. Per questi economisti, l’economia politica è ridotta a semplice contrapposizione tra un ragionamento economico razionale e la politica (politics), vista come pura interferenza su dinamiche che il mercato dovrebbe esser lasciato libero di risolvere, o che possono essere risolte dallo Stato solo in quei casi che gli economisti definiscono «fallimenti di mercato». Stiamo comunque parlando sempre del paradigma di riferimento tradizionale, in cui l’idea di micro povertà si sposa bene con quella di dinamica di mercato, che dovrebbe risolvere i problemi dello sviluppo. Come abbiamo sottolineato in un recente articolo con Ha-Joon Chang, c’è una sorta di alleanza sacra tra due visioni: quella della povertà e quella del libero mercato che dovrebbe offrire le risposte, e che esclude il ruolo dello Stato sia dal problema della povertà che da quello della ridistribuzione a livello strutturale, tralasciando completamente le condizioni che portano allo sviluppo.
Un altro tema caro agli economisti mainstream è la possibilità di misurare la povertà. In questo campo si scontrano due visioni: una visione della povertà come essenzialmente inserita in dinamiche politiche e storiche, come ad esempio nella lezione del britannico Tony Atkinson, contrapposta a una economia preoccupata di essere quanto più «scientifica», asettica e pratica possibile – nella definizione celebre della neo-Nobel Esther Duflo l’economista è un idraulico. Quali sono le principali critiche degli «eterodossi» a questa seconda visione?
La critica che economisti come Tony Atkinson e James K. Galbraith, tra altri, muovono a queste metodologie è, in primo luogo, che quella che noi definiamo povertà, e le sue diverse dimensioni, emergono da processi storici, e in particolare dall’evoluzione delle istituzioni – nel doppio significato di organizzazioni e di «regole del gioco». Allo stesso tempo, la critica eterodossa sottolinea come ignorare queste istituzioni possa portarci, specialmente in paesi in via di sviluppo, a guardare a dimensioni della povertà che sono meno rilevanti rispetto a quelle più propriamente strutturali. Per esempio, si può pensare alla povertà in un’ottica tutta individuale, come accesso a una serie di beni e servizi fondamentali, e ignorare del tutto l’esistenza di condizioni di povertà collettiva e le disuguaglianze tra soggetti, che sfuggono inevitabilmente a metodologie che cercano di riprodurre l’asetticità di un esperimento «scientifico», e che per farlo finiscono assai poco scientificamente a semplificare la complessità ineludibile di questioni di natura sociale. Una visione strutturale della povertà chiama in causa un modo diverso di immaginare lo sviluppo della società e il suo affrancamento produttivo: il problema delle istituzioni e dello sviluppo diventa quindi connesso alla creazione e ridistribuzione del valore, sia a livello istituzionale sia a livello collettivo, e di come ci si possa dotare di istituzioni in grado di redistribuire in modo equo il valore che viene creato dalla società.
Forse non a caso, uno dei risultati di questa misurazione «dettagliata» della povertà è quello di legittimare il sistema economico globale vigente: le stime popolarizzate da pensatori alla moda come Steven Pinker mostrano infatti come la povertà globale sia in diminuzione. Tuttavia, se si esclude la Cina, nel resto del mondo la povertà è ancora in aumento. Forse dobbiamo lasciar stare la parola povertà – che nei tuoi lavori non appare quasi mai?
Prima di tutto, bisogna sicuramente capire cosa sta accadendo alla povertà, sia tra i diversi paesi che dentro ciascun paese. In questo caso è indubbiamente utile osservare i dati sul reddito, che rimane una dimensione materiale importante per misurare il benessere delle persone. Tuttavia è evidente, quasi paradossale, che se osserviamo gli obiettivi dei Millennium Development Goal lanciati dalle Nazioni Unite, l’obiettivo principale – appunto, la riduzione della povertà – non sarebbe mai stato ottenuto, come dici bene, se la Cina non avesse attuato politiche assolutamente non ortodosse rispetto all’approccio tradizionale alla povertà di cui abbiamo parlato sinora. Inoltre siamo di fronte a un paradosso: la povertà si sta riducendo se la guardiamo in modo aggregato, ma c’è un’eterogeneità all’interno di questo fenomeno tra le classi sociali nei diversi paesi. Guardare alle condizioni strutturali e contestuali della società e del suo sistema produttivo significa osservare quello che sta emergendo in alcuni paesi, e cioè che la loro capacità industriale si riflette sulle classi sociali che tradizionalmente beneficiano del mutamento delle capacità produttive. Da questo punto di vista vediamo la povertà può essere approcciata in modo radicalmente differente. Ad esempio, lo storico economico inglese Tawney (di cui parlava Daniel Zamora parlando dell’evoluzione del concetto di disuguaglianza) a inizio novecento forniva una prospettiva interessantissima nel suo saggio La povertà come problema industriale: quando pensiamo ai paesi in via di sviluppo, dobbiamo capire che la causa principale di assenza di sviluppo è la mancanza di una trasformazione produttiva che crei le condizioni materiali necessarie a sviluppare sistemi di governance più efficienti e istituzioni più redistributive. Questo è il tratto più distintivo della povertà. Nel mio lavoro la povertà è centrale, ma lo è nella sua natura strutturale dei sistemi economici, cercando di guardare alla povertà attraverso processi di creazione di valore, non solo come trasformazioni materiali ma anche sociali.
Considerando una delle zone geografiche più povere al mondo, l’Africa, di cui ti sei occupato negli ultimi anni, perché parlare di povertà non basta?
Il contesto africano è estremamente diversificato: ci sono molti paesi ancora molto legati all’esperienza coloniale, che vedono permanere nei loro sistemi istituzionali e produttivi tratti che richiamano quel passato ancora molto presente. In questi casi, la capacità di trasformazione produttiva è stata bloccata, anche perché sono prevalsi orientamenti ideologici secondo cui, anziché utilizzare lo Stato per contribuire a creare le condizioni per lo sviluppo, bastava tenerlo fuori dai processi di trasformazione dell’economia e lasciare il mercato operare, aspettando che tutto si risolvesse e vedere il benessere arrivare. Una sorta di Washington Consensus delle politiche di sviluppo, che ha sempre confuso la realtà di un’economia sviluppata e le sue cause reali, necessarie a ottenere lo sviluppo. Per esempio, nell’ambito della governance e dei problemi di corruzione, ci si scorda come tutti i paesi, nella fase iniziale di industrializzazione e trasformazione dell’economia, abbiano avuto elementi più o meno diffusi di corruzione, dovuti alla mancanza di un sistema affidabile e delle lotte per la distribuzione del potere tra i diversi attori sociali. Non sono state nella maggior parte dei casi buone istituzioni a creare le condizioni per uno sviluppo reale: al contrario, ciò che ha creato sviluppo è stata l’emersione di capacità produttiva, che poi ha redistribuito il potere tra diversi attori, spingendo verso sistemi di governo e istituzioni più affidabili. La mancata comprensione di questo processo storico-istituzionale è un tratto distintivo dell’Africa di oggi, dove la persistenza di problemi di corruzione nasce anche dal tentativo costante, da parte delle agenzie internazionali, di introdurre le stesse terapie pensate per le economie avanzate, che non risolvono affatto i problemi di quelle in via di sviluppo. Tornando al discorso metodologico, le proposte che emergono con analisi condotte con esperimenti micro come i Rct non tengono conto che pur risolvendo questi micro problemi, senza che ci sia coordinamento per un cambiamento strutturale, non si va al cuore della questione che è istituzionale, politica ed economica. Nel 2016, assieme all’economista Mushtaq Khan, guru mondiale sui temi legati alla governance e alla corruzione, abbiamo vinto un finanziamento di sei milioni di sterline dal governo inglese per un importante progetto su corruzione e sviluppo. È stato un successo importante, perché lo abbiamo ottenuto proponendo un metodo totalmente diverso da quelli adottati sinora, che mette al centro non tanto la corruzione e trasparenza in quanto tali – che rischiano di svuotarsi del loro significato in contesti come quelli di cui parliamo – quanto il processo di sviluppo di settori chiave dell’economia in tre diversi paesi (Nigeria, Tanzania, Bangladesh). È stata quindi premiata una visione per cui si accetta che lo sviluppo di settori produttivi dell’economia ha storicamente portato al miglioramento di indicatori chiave, tra cui la maggiore affidabilità nello stato di diritto, minore corruzione, regole più chiare e sicure perché fatte valere e tutelate da classi (capitaliste) che hanno iniziato ad avere l’interesse e il potere per farle rispettare, come ho raccontato anche qui.
Quale pensi che sia la ragione per cui, se si parla di sviluppo, si parla di povertà e non di cambiamento strutturale e politiche industriali?
A livello di ricerca e pensiero economico ci troviamo ancora in una fase di stordimento, di lento risveglio dal sonno del Washington consensus: la realtà contraddice tutto quello in cui gli economisti hanno creduto – per esempio le trade war scatenate da Trump, e i cui effetti gli economisti mainstream non sembrano in grado di prevedere, ci fanno ripiombare in una fase mercantilista, per la quale gli «esperti» non sono preparati. A ciò si somma il fatto che anche all’interno dei paesi più sviluppati come il nostro, si allargano sacche di povertà rilevanti, emergenti, mentre permangono problemi di redistribuzione a livello geografico – la Questione Meridionale, ma non solo – che sottolineano un dualismo strutturale – come si era soliti definire una situazione come quella italiana – e cioè la coesistenza, all’interno di un’economia, di entità geografiche (ma anche settori economici) con caratteristiche radicalmente diverse, con conseguenze sulla distribuzione del reddito e sulla stessa efficacia delle politiche pubbliche. Paradossalmente, la realtà richiederebbe di applicare un simile approccio di politica industriale, ma c’è un rifiuto a guardare a queste terapie, perché richiedono delle lenti di ingrandimento su elementi di politica economica aliene all’approccio dominante, come il ruolo dello stato nell’interazione con sviluppo e redistribuzione. Lo stato è oggi visto come un problema e non una soluzione, e assistiamo dunque nuovamente all’annullamento ideologico delle forme che il suo intervento può avere – lo si è visto ad esempio nelle critiche feroci alle proposte del Labour Party. Questo forte scetticismo ideologico verso lo stato, impedisce alle istituzioni, in questo delicato momento storico, di tornare a governare il mercato verso una traiettoria di sviluppo – ed è invece quello di cui abbiamo disperato bisogno, nei paesi in via di sviluppo così come da noi.
*Antonio Andreoni è Senior Lecturer di economia alla SOAS di Londra e Visiting Professor all’università di Johannesburg.
Guendalina Anzolin è una ricercatrice e sta svolgendo un dottorato in economia tra l’Università di Urbino e la SOAS di Londra.
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