domenica 5 gennaio 2020

L’Iran piange il figlio della Rivoluzione Islamica

 
 
 
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L’orrendo foco della pira, cui è stata ridotta l’auto su cui viaggiava il generale iraniano Soleimani appena sbarcato all’aeroporto di Baghdad, è l’immagine impressa nella mente di milioni di iraniani. L’hanno vista e rivista sulla tivù di Stato e sono scesi in strada in decine di migliaia, a Tehran e in molte città, piangendo e urlando una rabbia infinita. Per la morte di quello che definiscono un figlio della Rivoluzione khomeinista, e un fratello che ha combattuto con loro. Loro sono i tanti volti che sfilano, sessantenni o poco più, i basij, gli ex combattenti della ‘generazione del fronte’ che ha creduto negli ideali di giustizia e parità sociale, nel riscatto dei mostazafin. Quanto di questi ideali sia rimasto nei decenni di consolidamento del regime dei chierici è da verificare, poiché il Paese ha attraversato periodi di guerra civile e consenso quasi totale, di conservazione e riforme. Con un filo rosso di contestazione laica mai sedato. Un elemento ha finora riunito le varie anime iraniane: il rifiuto dell’imperialismo incarnato dagli Stati Uniti. Quello che oggi, nel volto e nell’azione del presidente maramaldo, Donald Trump, colpisce alle spalle un sistema da sempre ritenuto nemico. Ma lo scontro ora tracimato in attacchi omicidi, ha avuto negli ultimi tempi altra arma affilata e velenosa: l’embargo. Doveva essere cancellato con l’accordo sul nucleare perorato dalla presidenza Obama e raccolto da quella Rohani, superando la contrapposizione creatasi con le amministrazioni Bush jr contro Ahmadinejad.

Eppure la promessa normalizzazione non è mai giunta. Negli ultimi quattro anni le strutture “occidentali” della finanza mondiale anziché regolamentare le transazioni di denaro da e verso l’Iran le hanno tenute bloccate, come durante il periodo dell’embargo e tutt’al più le hanno rallentate, con disagi non indifferenti. Un discorso generalizzato che vale per le grandi aziende statali, sia per le bonyad controllate da ayatollah e pasdaran, e poi a caduta su tutto: dalle attività medie e piccole di imprenditori, a quelle dei bazari. Insomma, uno strumento di pressione e soffocamento dell’economia, utile anche a riscaldare gli animi e creare malcontento popolare. Diffuso e trasversale, come ha potuto costatare chiunque si sia recato in quel Paese anche solo per turismo. Non solo i cambiavalute in nero di certe piazze finanche centrali, ma tassisti, operatori alberghieri, venditori d’ogni genere, loquaci giovani sui bus confermavano quest’orientamento e le difficoltà conseguenti. Poi sono giunte le penali trumpiane e la situazione è precipitata. Il moderato presidente Rohani, che grazie a quell’accordo s’era giocato la rielezione, è stato oggetto delle contestazioni dell’inverno 2017 e di quelle recenti del rincaro del carburante. Con le nuove sanzioni il bilancio iraniano perde due terzi delle risorse scaturite dal commercio degli idrocarburi e questo, in un’economia di “Stato redditiere” mai del tutto emancipata, crea un dissesto spaventoso innescando inflazione, carovita, disoccupazione.

Ma si registrano perdite anche in altri settori. Fonti come Financial Tribune ma anche Forbes registrano la cancellazione di contratti per varie merci: quasi 40 miliardi di dollari per aerei mercantili, mezzo miliardo per tappeti, 850 milioni per pistacchi e ancora caviale e vetture per trasporto merci. Insomma un disastro per affari e lavoro. Per la minore circolazione di capitale interno le casse statali – mentre proseguiva il sostegno solidale alla grande famiglia sciita mediorientale, un impegno diventato bellico in Siria e Yemen – hanno dovuto affrontare problemi di bilancio limitando o azzerando le spese sociali interne. Da qui le voci di dissenso alle campagne militari estere che giovani contestatori del regime hanno agitato nei mesi scorsi. Ora questo malcontento potrebbe passare in secondo piano, sebbene nulla sia scontato. Intanto la Baghdad sciita ha onorato la salma del comandante Soleimani con migliaia di cittadini in strada. Chi in quel Paese non ama l’ingerenza iraniana, guardava i funerali di soppiatto. Ma doveva osservare anche le truppe statunitensi in tenuta di guerra che presidiavano gli obiettivi sensibili, cui presto s’aggiungeranno altri 3.500 marines in partenza per quello che Washington ridisegna come un fronte. Domani la salma dell’ex capo delle Brigate Al Quds giunge a Mashhad. Funerali di Stato, da eroe e martire, presso il mausoleo dell’Imam Reza.   

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