domenica 12 gennaio 2020

Libro. Perché il populismo digitale minaccia la democrazia.

Più che un’ideologia, il populismo è uno stile comunicativo che, grazie alla spinta delle nuove tecnologie della comunicazione, prende alla lettera, snaturandolo, il principio della sovranità del popolo. In “Come Internet sta uccidendo la democrazia” (Chiarelettere), Mauro Barberis ci offre una ricca e provocatoria riflessione sul rapporto fra tecnologie e sistemi umani che è anche una appassionata difesa della cultura liberale come bastione di democrazia.




micromega Gabriele Giacomini


Mundus vult decipi, ergo decipiatur

Il populismo è il vero Ufo – oggetto volante non identificato – della politica di oggi. 
Tanto che un politologo, Jean Leca, sostiene con ironia che “quel che ci piace è popolare; se non ci piace è populista”. 
Insomma, il populismo non parla soltanto di chi aderisce al suo discorso ma anche di chi lo giudica. 
Spesso usato per criticare gli avversari, “populista” è un epiteto con un significato ambiguo, relativo, sfuggente, caratterizzato dalla soggettività dell’osservatore.
Mauro Barberis, però, docente di Filosofia del diritto all’Università di Trieste, uscendo dalle interpretazioni accademiche, pur mantenendone il rigore, ha il coraggio di tentare l’impresa: dimostrare scientificamente – attingendo da diverse discipline, in una sorta di “manovra a tenaglia” multidisciplinare – che il populismo esiste davvero, non è un’ideologia ma uno stile comunicativo sicché il suo successo odierno si deve anche – soprattutto, secondo Barberis – alle nuove tecnologie della comunicazione.

Da qui il titolo del suo ultimo libro: “Come Internet sta uccidendo la democrazia” (Chiarelettere 2020).

Titolo forte, da libro giallo. O meglio, da cronaca nera, compreso il corpo del reato: la democrazia liberale. I populisti, infatti, come mostra Barberis, hanno una principale caratteristica: “se ne fregano” di quanto, in democrazia, va oltre il mero consenso elettorale. Ma, come hanno insegnato chiaramente i padri del liberalismo politico (Locke, Montesquieu, Constant, Tocqueville, Mill ecc.) se contasse solo il voto e se non ci fosse nient’altro, vivremmo nella dittatura della maggioranza. Il governo potrebbe fare quello che vuole, senza freni.

Ed è proprio questa la china su cui rischia di scivolare la democrazia sotto la spinta della politica populista. Sintetizzando e semplificando una ricca e interessante analisi, il populismo è uno stile che prende alla lettera, snaturandolo, il principio della sovranità del popolo, dunque si appella direttamente alla maggioranza contro le minoranze (élite, kasta, professoroni, Ong, richiedenti asilo, parassiti, zecche). Il popolo populista, depurato delle minoranze, diventa così il “blocco di marmo” dei “60 milioni di italiani” di cui dichiararsi padri, del “bene dei cittadini” a cui fanno riferimento i capi del Movimento 5 stelle (“né di destra né di sinistra”: il popolo non va mai diviso, tanto meno dalle ideologie!), come se il bene dei cittadini fosse uno soltanto, e non i molti fra i quali si deve mediare. Qualcuno ha qualcosa da ridire su un provvedimento? “Che si candidi”, risponde il populista, forte dell’assioma (o determinato dal retro-pensiero?) secondo il quale contano solo le elezioni. Soprattutto quando egli non è all’opposizione.

Secondo Barberis, però, la spinta inedita e propulsiva per realizzare lo stile politico populista corrente è Internet: lo riscontra – non senza ricorrere ad una chirurgica ironia – analizzando fenomeni recenti come Brexit, l’elezione di Trump, il governo giallonero in Italia. Sicuramente le ICT hanno avuto un ruolo importante, che Barberis evidenzia correttamente – ed implacabilmente. Internet, oltre a incentivare tendenzialmente reazioni “calde” e “di pancia” rispetto a riflessioni “fredde” e “di testa”, produce una (falsa) dis-intermediazione: tramite i social si ha l’illusione di avere un contatto diretto con il proprio “idolo”. Il leader può – appunto – appellarsi direttamente al popolo, addirittura ad ognuno di noi! E viceversa.

Ma è una truffa: attorno al leader ci sono spin doctor, staff di comunicazione, addirittura algoritmi automatici che manipolano gli elettori, e che creano una cortina fumogena, una vera e propria “filter bubble” attorno al cittadino. Il digitale facilita “l’investitura elettoral-popolare” del leader, ma in realtà è un nascondimento di ben altri filtri; più misteriosi ed opachi di quelli del passato, ma non per questo inesistenti, anzi proprio per questo rilevantissimi: la Bestia, oppure gli algoritmi delle piattaforme di partecipazione diretta, Cambridge Analytica. Il rapporto diretto politico-popolo è solo un’illusione populista.

Sulla interpretazione di Barberis circa l’intrinseco “populismo della rete” – testa d’ariete editoriale e provocazione deliberata e consapevole del libro – ci sarà da discutere, e anche per questo “Come internet sta uccidendo la democrazia” è prezioso. Ormai non ci sono dubbi che Internet abiliti l’emersione di nuovi poteri, chiamati “neointermediari” da chi scrive, sia in ambito economico (Google, Amazon, Facebook eccetera) sia in ambito politico. In ambito politico sembrano fiorire “partiti piattaforma” à la Gerbaudo (dai vaghi riferimenti ideali rousseauiani – e Rousseau non è certo un campione di liberalismo) e soprattutto “partiti personali 2.0”, che esasperano le caratteristiche del partito personale à la Calise, leaderistico, in una sorta di climax ascendente che nasce dalla televisione e giunge al web 2.0, utilizzando le potenzialità di profilazione, di personalizzazione e quindi di comunicazione potenziata delle tecnologie ICT, dei big data, dell’intelligenza artificiale. Tutti questi sono aspetti rilevantissimi, che rischiano di aumentare in quantità e qualità le frecce all’arco di coloro che preferiscono attuare forme di comunicazione strategica e manipolatoria. La sfera pubblica idealizzata da Habermas, se mai è esistita, rischia davvero di soccombere definitivamente.

Tuttavia, come lo stesso Barberis considera e sottolinea, fenomeni come il populismo necessitano di spiegazioni multi-causali, evitando il ricorso al modello esplicativo dell’“ago ipodermico”, ovvero della spiegazione stimolo-risposta. È vero che il digitale non è uno strumento neutro (positivo o negativo, a seconda dei fini che ci si prefigge), bensì è uno strumento che retro-agisce sull’uomo (il tecnologo O’Longo parla di Simbionte, di unione uomo-macchina in cui non si distinguono più chiaramente i confini fra uno e l’altra): la tecnologia cambia “antropologicamente” l’uomo, ed è possibile (anzi, quasi certo) che questi cambiamenti richiedano aggiornamenti anche del sistema politico-istituzionale. In questo senso “Come Internet sta uccidendo la democrazia” affronta un tema, ovvero il rapporto fra tecnologie e sistemi umani, urgente e sostanziale, offrendo un contributo di riflessione importante sia per la comunità scientifica sia per l’opinione pubblica. Al tempo stesso, è altrettanto vero che, anche se siamo nell’epoca e nella civiltà della tecnica, la tecnologia è soltanto uno degli elementi sul tavolo, i quali si mescolano in un modo che è davvero difficile da districare.

A suggerire la “mescolanza” fondamentale è ancora Barberis (p. 121), citando Da Empoli. Secondo entrambi gli autori sono due gli ingredienti essenziali di cui il populismo, il risentimento, l’insicurezza si nutrono: da una parte, la rabbia delle classi popolari fondata su cause economiche e sociali reali, dall’altra parte, una poderosa macchina comunicativa.

Per affrontare questa relazione fra elementi riflettiamo sul passato che, pur non ripetendosi mai esattamente uguale, ha il pregio di essere più chiaro del presente. Si pensi alla radio e al cinematografo ai tempi dell’ascesa del nazionalsocialismo. Il nazionalsocialismo, senza quelle che allora erano le nuove tecnologie della comunicazione, probabilmente non sarebbe stato tale. Goebbels, giornalista e ministro della propaganda tedesco, non era certamente una figura secondaria nel regime nazista, così come il MinCulPop non era un ministero irrilevante nel regime fascista (dominato da un altro giornalista: Mussolini). Il che è molto significativo del ruolo giocato dalla radio o dal cinematografo. Tuttavia, la radio è stata utilizzata anche da Churchill, da Re Giorgio VI nel famoso discorso alla nazione. Oppure si pensi a Radio Londra, l’insieme dei programmi radiofonici trasmessi, a partire dal 27 settembre 1938, dalla BBC e indirizzati alle popolazioni europee continentali.

Insomma, la radio o il cinematografo sono radicalmente diversi dai comizi di piazza o dal teatro: i secondi coinvolgono un pubblico limitato, i primi un pubblico potenzialmente immenso. Offrono, quindi, nuove opportunità per entrare in rapporto con quelle masse che, con il suffragio universale maschile, erano da non molto entrate nell’arena politica. La radio o il cinematografo, con la loro potenza comunicativa, in grado di coinvolgere un numero enorme di cittadini, non possono che “scassare” la democrazia rappresentativa dell’Ottocento, quella di Cavour, per intenderci. Non possono che entrare in conflitto con la prima forma di democrazia liberale, quella basata sul suffragio ristretto, su partiti, parlamenti e governi composti essenzialmente da notabili di origine aristocratica e borghese. Le tecnologie della comunicazione pesano, già con la loro presenza, non sono neutrali. Hanno una loro “forza gravitazionale”, a prescindere dall’uso che se ne fa[1]. Ciò nonostante, questo cambiamento del passato ha subito spin diversi – radicalmente diversi, in base al contesto sociale, culturale ed economico in cui si è situato.

Facendo un salto in avanti di circa un secolo, anche oggi le ICT stanno inevitabilmente sfidando la democrazia. Ma la Rete, come nota lo stesso Barberis, prima di essere stata rilevante nell’elezione di Trump, che è un populista, lo è stata per l’elezione di Obama, che non è un populista (quella di Obama, del 2008, secondo la letteratura specialistica è stata la prima campagna in cui il digitale ha avuto un ruolo rilevante). Perciò Barberis offre dei suggerimenti, nell’interessante sezione del libro dedicata ai “rimedi”, fra cui questo: impariamo a usare il digitale bene, utilizzando a fondo tutte le sue potenzialità, come sanno fare i populisti. Ma c’è anche un’altra questione da affrontare, insieme: il contesto culturale, sociale ed economico.

Probabilmente non è tanto il reddito a guidare risposte di rabbia e di risentimento (benzina del populismo, come evidenzia Barberis). Potrebbero essere altre le faglie lungo le quali le società contemporanee cedono alla tentazione del populismo, dell’uomo forte insofferente nei confronti di qualunque contro-potere, della sfiducia nei confronti delle élites e della paura nei confronti dei diversi: ad esempio, la faglia “bassa protezione / alta protezione”, oppure quella “bassa istruzione / alta istruzione”. Nelle società che hanno subito decenni di politica neoliberista, le nuove faglie non sono più semplicemente quelle fra ricchi e poveri, ma sono quelle fra coloro che sono tutelati da un sistema del lavoro eredità del sistema keynesiano, dell’intervento pubblico, dello stato sociale (i dipendenti pubblici, i redattori dei grandi giornali, i professori strutturati, i pensionati con il metodo retributivo) e coloro che non sono tutelati, ma subiscono i rischi tipici del sistema neoliberista (gli operai delle aziende che rischiano la delocalizzazione, i precari, le finte partite iva eccetera). Oppure quella fra coloro che, in un’economia della conoscenza, hanno un buon reddito ma una bassa istruzione, e quindi non possiedono il bagaglio culturale “individuale” (“la società non esiste, esistono solo gli individui”, diceva Thatcher, facendo una irrealistica affermazione ideologica) adatto ad affrontare le turbolenze e i cambiamenti (anche digitali!) della dura, “darwinista” società neoliberista, e coloro che magari hanno un reddito più basso ma sono altamente istruiti.

Non a caso, leggendo le analisi delle agenzie di sondaggio sulle elezioni del 2018, in Italia il cuore dell’elettorato dei partiti “tradizionali”, appartenenti alle famiglie europee popolari e socialiste, è nei dipendenti pubblici, nei pensionati, nella borghesia urbana affermata, mentre il cuore dell’elettorato di Lega e 5 Stelle sono gli operai, i precari, le persone benestanti che non hanno gli strumenti per affrontare “il mondo nuovo”. Non a caso “Brexit” e “Trump” si giocano fra le città pro-remain e democratiche (alta istruzione, borghesia cosmopolita, uffici dell’amministrazione pubblica, università) e periferia pro-leave e trumpiane (bassa istruzione, operai che rischiano la perdita del posto di lavoro e che non riuscirebbero a riqualificarsi, precari, pendolari, working poors, disoccupati eccetera).

L’ipotesi “populismo : neoliberismo + crisi del 2007 = nazionalsocialismo : Patto di Versailles + crisi del 1929[2]” è sicuramente provocatoria. Ma quando ci stupiamo del fatto che il populismo dilaga anche nelle nazioni, come il Regno Unito e gli Stati Uniti che, oltre ad essere le patrie della democrazia liberale, sono le nazioni che hanno sconfitto i regimi autoritari nel secolo scorso, dobbiamo chiederci che cosa spinge i popoli a cedere al risentimento, come viene chiamato giustamente da Barberis. Nel caso del ‘900, le democrazie che hanno ceduto alla tentazione autoritaria sono state quella italiana, uscita vincitrice dalla Grande guerra ma in una condizione sociale ed economica paragonabile a quella di uno stato sconfitto, e quella tedesca, che è stata effettivamente sconfitta e a cui sono state imposte sanzioni oggettivamente insopportabili. In questo secolo, sembra che abbiano messo o stiano per mettere in discussione il proprio regime politico – la democrazia liberale – quelle popolazioni che hanno subito maggiormente le conseguenze culturali, economiche e sociali dell’esperimento neoliberista: le nazioni di Thatcher e di Reagan; alcuni stati dell’ex blocco sovietico che, a seguito del crollo dell’URSS, sono passati dal comunismo al liberismo più selvaggio; i paesi dell’Europa del sud (Italia, Spagna, Grecia) che hanno incontrato maggiori difficoltà a causa dell’ultima crisi e della sua gestione, basata sull’obiettivo di politica economica dell’equilibrio di bilancio piuttosto che su quello, passato e keynesiano, della piena e buona occupazione. A questi casi si aggiungono alcuni paesi dell’America Latina, la cui tradizione populista, però, fa parte della loro storia.

Giunti alla conclusione, tuttavia, ci accorgiamo di essere stati probabilmente superficiali nel sostenere che il centro di “Come Internet sta uccidendo la democrazia” abiti nell’associare Internet al populismo. Forse siamo stati ingannati dal titolo. Perché, in realtà, quello che rende la riflessione di Barberis rilevante, preziosa, decisiva, non è soltanto il metterci in guardia dagli effetti potenzialmente ed effettivamente pericolosi delle nuove tecnologie, ma anche il vigore con cui Barberis sottolinea e difende tutti i pregi del liberalismo politico. Ce ne siamo accorti dilungandoci sull’economia e pensando che, in effetti, la partita fra un sistema keynesiano (dei trenta anni gloriosi delle democrazie liberali nel ‘900) e un sistema “scuola di Chicago” neoliberista (dei decenni successivi, sfociati nella crisi e nelle storture populiste) è quasi tutta interna alla grande ed ampia cultura liberale. Cultura liberale che, dal punto di vista strettamente politico, come sottolinea Barberis, è l’unico “bastione” nella cittadella della democrazia dei moderni che può difenderci dal rischio populista.

La nostra democrazia, infatti, rivendica con autentica passione liberal Barberis, è ben di più della legittimazione popolare (necessaria ma non sufficiente): è un insieme di regole ed istituzioni che promuovono, ad esempio, i diritti umani, la libertà della stampa, la scienza, l’indipendenza della magistratura. Tutte cose che non vengono (o meglio che non dovrebbero essere) votate a maggioranza, magari con un clic distratto sullo smartphone, perché sono pre-condizioni irrinunciabili, valori superiori, anche alle questioni economiche. Dobbiamo ricordarcelo, perché il populismo esiste e opera, non solo digitalmente, fra noi.

Note

[1] Molto interessante, a questo proposito, il caso della tecnologia atomica. Ad esempio, può essere usata per produrre energia per scopi civili (utilizzo “buono”), oppure per annientare una nazione intera (utilizzo “cattivo”). Ma può anche non essere utilizzata: è sufficiente la sua esistenza per rendere di fatto “impossibili” guerre convenzionali fra potenze atomiche. L’ultima guerra convenzionale della storia, di fatto, si chiuse con Hiroshima e Nagasaki. Sono seguite guerre economiche, per procura, asimmetriche. Speriamo che il futuro non ci contraddica.

[2] A scanso di equivoci: con questa proporzione non stiamo sostenendo che il populismo è uguale al nazionalsocialismo. La proporzione è un’uguaglianza fra rapporti, non fra i suoi singoli elementi!

(10 gennaio 2019)

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