L'uso dei braccialetti elettronici viene propagandato come utile a tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, ma in realtà ne aumenta lo sfruttamento e il controllo.
La tecnologia di produzione è quindi determinata due volte dalle relazioni sociali di produzione: in primo luogo, è progettata e messa in opera secondo l’ideologia e il potere sociale di coloro che prendono queste decisioni; e in secondo luogo, il suo effettivo utilizzo nella produzione è determinato dalle vicissitudini delle lotte tra le classi nei luoghi di produzione. (David Noble,1986)
Mentre la scorsa estate si verificavano gli
ennesimi infortuni mortali nei campi e in edilizia, uno dei principali
giornali riportava «Bracciale elettronico in cantiere: Così proteggiamo gli operai»
riprendendo le dichiarazioni dell’Assessore regionale allo Sviluppo
Economico Alessandro Mattinzoli.
Le dichiarazioni facevano seguito alla
delibera della Regione Lombardia (Dgr n. 2048 del 31.07.2019)
dedicata alla sicurezza sul lavoro.
La delibera prevede l’avvio di un
progetto sperimentale in due cantieri nel bresciano, dove verranno
impiegati dei braccialetti elettronici fino a giugno 2020.
L’obiettivo è
«monitorare la salute e la sicurezza dei lavoratori con strumenti e
metodi digitali». Elaborato dalla Camera di Commercio di Brescia e in
particolare dall’Ente Sistema Edilizia Brescia (Eseb), in collaborazione
con l’Università degli studi di Brescia e l’Università di Verona, per
un costo di 100mila euro, quello che la Tesco (settore logistico) aveva sperimentato in Inghilterra nel 2009, sembra diventare realtà anche in edilizia.
Ad aprile 2018 la Fca di Melfi introdusse degli esoscheletri per «sollevare con facilità fino a 15 kg e monitorare lo sforzo degli operai addetti a operazioni di movimentazione pezzi ripetute nel tempo» ma ad oggi, si guarda bene dal mettere in discussione l’intera metodologia di valutazione Ergo-Uas adottata nei suoi stabilimenti. Francesco Tuccino, nella sua ricerca-azione Un viaggio “dentro” l’automobile. Ergonomia e organizzazione del lavoro nel settore automotive in Europa, ha affermato che «le modalità di utilizzo delle metodologie ergonomiche per il calcolo del coefficiente di riposo da parte delle imprese provoca prevalentemente un aumento della produttività invece di un aumento della tutela della salute dei lavoratori. Questo dato viene supportato anche dal fatto che le metodologie utilizzate dalle imprese non sono conformi ai parametri previsti dalle norme internazionali per la valutazione dei rischi muscolo-scheletrici».
A marzo 2019, il Garante per la protezione dei dati personali ha bocciato l’uso del braccialetto elettronico da parte degli operatori ecologici dipendenti da una società che si occupa della raccolta dei rifiuti per conto della municipalizzata di un comune. Così, mentre beviamo un caffè in autogrill o ordiniamo del cibo o un libro su qualche piattaforma digitale, qualcuno, dall’altro lato, in nome della sicurezza sul lavoro, viene monitorato e controllato, spesso senza averne piena consapevolezza. Si tratta realmente di tutela della salute?
In effetti, le nuove tecnologie hanno superato, grazie al Jobs Act (D.Lgs. n. 151/2015) la distinzione concettuale, contenuta nell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, tra strumento deputato al controllo e strumento di lavoro: gli strumenti sopra citati, chiamati elegantemente «wearable tecnology», costituiscono nell’attuale sistema di organizzazione del lavoro normali strumenti utilizzati per svolgere la prestazione lavorativa, ma consentono al contempo un controllo continuo e capillare sull’attività del lavoratore, come del resto ha affermato la Corte europea dei diritti umani con sentenza n. 61496/08 del 12 gennaio 2016.
Questo aspetto è stato più volte affrontato in svariate sedi e scritti, ed è evidente come il modello di controllo e produttività esasperata sono diventati, una dottrina, un pensiero filosofico, un modello applicato che sta investendo da decenni i centri di produzione del sapere, come le scuole e le università, nonché gli enti tecnico-scientifici (nail) chiamati a elaborare linee guida e buone prassi. E questo di cui stiamo parlando, è uno degli esempi più lampanti. Infatti, i tecnici che stanno portando avanti il progetto, parlano di «tecnologie che permetteranno di raccogliere parametri fisiologici dei lavoratori come il ritmo cardiaco, la frequenza cardiaca, la frequenza respiratoria, la pressione arteriosa, l’ossigeno e il glucosio nel sangue, la temperatura corporea, il livello di stress, la qualità del sonno, le calorie bruciate, le scale salite/scese e altri ancora. E al tempo stesso saranno rilevati anche parametri ambientali come la qualità dell’aria, la pressione barometrica, le perdite di gas, l’umidità, la temperatura, l’illuminazione». Il terzo livello sarà «il rilevamento di prossimità e la geolocalizzazione, tramite dispositivi di protezione individuale o altri dispositivi controllabili da remoto». Già in Emilia Romagna, questi sistemi vengono utilizzati in alcuni capannoni automatizzati della filiera agricola per controllare stato e produttività dei capi (animali) in maniera costante, ma dove molti addetti e addette lavorano in solitaria in luoghi impervi e isolati telefonicamente, spesso in condizioni di grave insicurezza.
Questo specifico progetto riguarda per ora i lavoratori del settore edile, ma potrebbe estendersi ad altri settori molto presto. Il fatto che le imprese si appoggino alle università è assodato, infatti è da qui che continuano a essere pensati e adottati poi dai governi, le leggi e i modelli che investono il mondo del lavoro del sistema di produzione e riproduzione capitalistico. È uno scontro materiale e di idee a bassa intensità, ma ha effetti sempre più impattanti.
Occorre avere la lucidità che ebbe l’operaio Giancarlo Bonezzi, nel passaggio dalle macchine tradizionali a quella a Cnc (Computer Numerical Control o Macchine a Controllo Numerico) nel racconto dei suoi compagni ne Il Sapere Operaio (Aa.Vv., editrice socialmente, Bologna 2013), senza aver letto probabilmente David Noble, sul rapporto tra ideologia dominante, tecnologia di produzione e forza lavoro. Se l’automazione venne considerata, una seconda rivoluzione industriale, in cui già si intravedeva la digitalizzazione, oggi, le vediamo integrate anche in settori in cui l’immaginario prevede che vengano impiegate solo attrezzature e utensili tradizionali. Non esiste settore produttivo, nodo del sistema a rete d’imprese, sub-fornitore, fuori da questo processo. Non ne sono esenti i lavoratori della conoscenza o i lavoratori indipendenti, che ogni giorno, vedono sfocare la linea di separazione tra tempo di vita e tempo di lavoro. Bastano una connessione a internet e un portatile per ridefinire continuamente il luogo di lavoro (vedi domestication), andando anche oltre al telelavoro, per cui sono previste delle condizioni contrattuali.
Se la tecnologia di produzione è determinata due volte nelle vicissitudini della lotta tra le classi, sia nella progettazione che nel suo utilizzo, un ruolo chiave viene sicuramente svolto dai centri di produzione del sapere, dagli operatori della salute e dal rapporto che si instaura tra questi e i lavoratori.
Infatti, il cambio di paradigma che investe la formazione degli stessi operatori e studiosi del campo della medicina e della sociologia del lavoro, consiste nel concentrarsi e agire sul singolo individuo, al fine di ottimizzare il processo produttivo, piuttosto che sulle condizioni dei luoghi di lavoro e sull’organizzazione. Questo tende ad allontanarsi di gran lunga da quelle che furono le varie esperienze dell’inchiesta operaia, della con-ricerca operaista e dei Gruppi di Prevenzione e Igiene Ambientale (Gpia) della Montedison di Castellanza (Va). Oggi, è l’elemento soggettivo ad assumere una centralità e non quello oggettivo della realtà dei luoghi di lavoro, che a loro volta sono influenzati dalle scelte delle politiche economiche. In questo evolversi del lavoro sussunto al profitto, nel conflitto di classe, l’applicazione delle tecnologie digitali e non, dimostra come esse non siano un mezzo neutro, e investono tutti i settori lavorativi, come nel caso specifico. Un altro esempio è l’Arcerol-Mittal di Taranto, dove più che occuparsi degli infortuni e inalazioni di polveri tossiche dentro e fuori la fabbrica, l’azienda aveva pensato di dotare le tute da lavoro (dispositivi di protezione individuali) di microchip, per tracciarne il ciclo di vita. Protezione dei lavoratori o ottimizzazione dei costi?
Questo approccio in cui si inserisce il continuo evolversi dell’innovazione investe qualsiasi luogo di lavoro che va dalle fabbriche robotizzate della Fca Group o nei lavori dei riders, alle campagne e alle fabbriche abusive del tessile dove permangono condizioni di schiavitù. Questo lo dimostra il fatto che, la maggior parte delle aziende non investe le stesse risorse economiche e di sapere per garantire condizioni di salute e sicurezza dignitose, magari progettando linee produttive e metodologie realmente ergonomiche, come avviene invece per l’innovazione e la ricerca delle tecnologie avanzate. Introdotte come dispositivi di protezione e sicurezza, nascondono controllo disciplinare e della produttività, dietro l’immagine e la qualità del prodotto. Infatti, la diffusione dei dispositivi informatici previsti dalla Lean Production nel settore automobilistico europeo, per l’archiviazione e la rintracciabilità degli errori effettuati dai singoli lavoratori, generano un certo grado di creazione di stress, dovuto al terrore del commettere errori con conseguenze sul piano disciplinare-sanzionatorio.
Nei passaggi, mai lineari, in cui avviene un radicale cambiamento delle modalità di produzione, e si manifestano dinamiche di centralizzazione e di concentrazione dei capitali, le grandi aziende scelgono di esternalizzare anche i costi relativi alla salute e sicurezza, parcellizzando il lavoro e scaricando tutto sulle aziende dell’infinita catena degli appalti. Tale effetto a cascata, è consentito anche dagli impianti normativi presenti in molti paesi del mondo. Ma anziché analizzare e agire su questi aspetti, i vari attori coinvolti e i corpi intermedi preferiscono restare dentro i margini di questo pensiero.
Infatti, è «sfruttando» i casi di infortuni mortali causati da malori per colpi di calore in edilizia e in agricoltura di quest’estate, che le imprese con le loro associazioni di categoria e i loro rappresentanti politici provano ad avanzare verso questa direzione. D’altro canto, a seguito di questi tragici eventi, i sindacati continuano a non proporre nulla in termini di applicazione di alcuni strumenti normativi già esistenti o ancora meno di conflitto (escluso scioperi e picchetti dei sindacati di base) per cambiare l’organizzazione del lavoro. Orari, pause, ritmi, rivendicare interventi tecnici e metodologici anche nei capannoni industriali, ottenere quello che una volta si chiamava «controllo operaio». E allora, anche loro si uniscono concertanti con università e centri di ricerca delle imprese per agire sull’individuo, sul comportamento del lavoratore da micro analizzare, processando la sua stanchezza, la sua distrazione, i suoi movimenti, i suoi parametri fisiologici da monitorare costantemente e poi forse valutare le condizioni strutturali, microclimatiche, organizzative. Nel capitolo «Storia dell’operaismo» su Ceti medi senza futuro? Sergio Bologna ricorda come Raniero Panzieri «aveva aperto nuovi orizzonti teorici con la rilettura del I Libro del Capitale e quindi aveva focalizzato il suo ragionamento sul rapporto tra classe operaia e innovazione tecnologica, traendone conclusioni di forte critica alla cultura sindacale della Cgil per la sua subalterna accettazione dello sviluppo capitalistico».
La vera causa di questa strage continua, nasce da condizioni oggettive di lavoro in costante arretramento, che vanno dal salario ai contratti, e passano per l’organizzazione e la tutela reale della salute e della sicurezza. L’unica intensificazione, per ora, la vediamo nell’aumento delle pene a causa dei Decreti Sicurezza nei confronti di chi rivendica ed esercita i diritti (vedi multe a carico dei lavoratori impegnati nella vertenza della Superlativa di Prato) e «nel trend fino a oggi rispettato di maggiore numero di ore lavorate l’anno rispetto alle media dei 15 paesi di più antica appartenenza all’Unione Europea» (Quanto lavorano gli italiani, Mario Tronti). Intanto, sulle fonti di Confindustria Milano, La Repubblica il 14 maggio 2019 parlava di «Industria 4.0, con gli incentivi si sono mossi 10 miliardi di investimenti». Questo ricorda una dichiarazione apparsa sul Corriere della sera nel 2004, sull’accordo sindacale sul costo del lavoro 1993, di Innocenzo Cipolletta, allora direttore generale di Confindustria: «Non ho difficoltà a dire che il vantaggio maggiore di quegli accordi fu per le imprese. Il blocco dei salari, unito alla svalutazione della lira che si ebbe successivamente, consentì alle aziende un recupero di competitività gigantesco».
In questo scenario, in cui a patologie e traumi fisici si aggiungono fattori psicosociali non affatto trascurabili, da cui non sono esenti ricercatori e dottorandi (invito alla lettura di «Dottorato e salute mentale: un articolo di El País»), dove ancora oggi esistono «reparti confino» per chi è definito a «ridotte capacità lavorative», e si vede un aumento dei consumi di psicofarmaci, droghe e antidolorifici da parte dei lavoratori, la lotta contro la nocività e il rifiuto della «monetizzazione della salute» prendono il loro posto per ribaltare il paradigma. Non possiamo rinunciare ad andare dentro le contraddizioni dei mutamenti continui, riflettere e scovare ciò che ancora non è ben visibile o tenuto nascosto, provare a impiegare l’avanzamento tecnologico a vantaggio di chi lavora (un esempio, potrebbe essere l’uso della robotica al posto dell’esposizione umana di fronte a scenari estremamente pericolosi, come il robot Colossus nell’incendio di Notre Dame).
La prevenzione si progetta e attua sulle condizioni e i processi, sulla salute dei luoghi e delle persone, basati sul reale rapporto di produzione, non sul controllo aziendale che ha come unico scopo l’ottimizzazione della vita in termini di profitto. E per farlo, non bastano soluzioni preconfezionate o annunci e richieste su un aumento formale dei controlli. Bisogna rivendicare e ottenere normative e contratti dove al centro ci sia realmente l’agibilità per i lavoratori e le lavoratrici di migliorare radicalmente il proprio vissuto. Innovazione è una parola ingannevole, se non accompagnata dalla messa in discussione e il superamento delle attuali condizioni di lavoro.
*Renato Turturro è un tecnico della prevenzione (militante). Si occupa di salute e sicurezza sul lavoro. Collabora con l’Osservatorio sulla repressione e si interessa dei temi del mondo del lavoro. Questo articolo è una versione ampliata e approfondita di un articolo uscito su Osservatorio sulla repressione.
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