L’ideologia,
o il senso comune, degli ultimi decenni recita infatti “privato è
meglio, il pubblico è solo sprechi e inefficienza”. Poi uno guarda le
Autostrade privatizzate, che cadono fisicamente a pezzi (dal Ponte
Morandi in poi, almeno, se ne dà notizia in attesa della prossima
strage), e qualche dubbio comincia a venire anche ai più tonti.
Tra
i padroni, i più severi di tutti sono da sempre i dirigenti di
Confindustria (il “sindacato” degli imprenditori). I quali, per una
sorta di proprietà transitiva, essendo i rappresentanti di più alto
livello delle imprese, diventano automaticamente i veri “maghi
dell’economia”, quelli che sanno come si fa e quindi hanno solo da
insegnare a tutti. Ricordate le prime campagne elettorali di Berlusconi?
Tutto il suo argomentare si reggeva sul fatto che “ho creato aziende,
dunque…”.
Va
da sé che il Presidente di Confindustria, sebbene carica elettiva
temporanea, debba essere considerato il Migliore della categoria, o
almeno uno dei più bravi (anche Gianni Agnelli fu tra loro…).
Errore.
Nelle
pagine interne dei giornali, magari in “taglio basso” (a fondo pagina),
fa capolino timidamente una notizia: il Presidente di Confindustria,
Vincenzo Boccia, titolare della omonima Arti Grafiche Boccia, ha
depositato in tribunale una
domanda ex articolo 182 della legge fallimentare, «affinché possa
essere concesso dal tribunale competente il divieto per i creditori di
iniziare o proseguire azioni cautelari o esecutive e di acquisire titoli
di prelazione non concordati».
Negli Stati Uniti si chiama Chapter 11, e significa “protezione dai creditori”. In pratica, non potendo pagare i fornitori e rimborsare i creditori, chiede tutela legale perché questi non possano rivalersi sugli assset aziendali, decretandone così la fine.
Nel
2017 l’azienda aveva accusato perdite per 3 milioni di euro, e girava
voce che i suoi dipendenti vedessero lo stipendio sempre più di rado.
La richiesta al Tribunale è accompagnata da un nuovo piano industriale: «un
piano di rilancio che prevede nuovi investimenti pari a 10 milioni di
euro nei prossimi 18 mesi, che si aggiungono ai 40 milioni già investiti
negli ultimi 15 anni, oltre a un aumento di capitale già realizzato
pari a 1,3 milioni con annessa ristrutturazione del debito».
La
parolina magica è proprio alla fine (“ristrutturazione del debito”),
che quando viene evocata per i conti pubblici equivale a dichiarazione
di bancarotta (il debito “ristrutturato” è quello che, in parte o in
toto, non viene restituito ai creditori).
Le
difficoltà aziendali sono comprensibili (la crisi globale non è mai
stata superata da 12 anni a questa parte, e il mondo della
stampa-grafica-editoria l’ha subita più seriamente di altri settori), e
nessuno pretende di insegnare come si fa l’imprenditore.
Però,
per simmetria, ci si aspetterebbe che il quasi fallimento come
imprenditore inducesse “l’amministratore delegato” in crisi a un profilo
più basso, modesto, defilato, sul fronte pubblico.
E
invece no. Boccia, come presidente di Confindustria, continua a
pontificare come se non ne avesse mai sbagliata una, da imprenditore.
Viene
nostalgia dei tempi in cui far parte della borghesia era una cosa
seria, esisteva la “legge sui falliti” per cui uno che faceva bancarotta
non poteva più fare l’imprenditore, ma solo il lavoratore dipendente
(se trovava qualcuno disposto ad assumerlo…). Una forma di “selezione
dentro la classe dirigente” mirante a “migliorare la qualità”, a
“premiare il merito” e bastonare il demerito.
Ma manco la borghesia è più quella di una volta…
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