Secondo i promotori, il
disegno di legge darebbe piena attuazione all’articolo 36 della
Costituzione, che stabilisce che ciascun lavoratore ha diritto a una
«retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in
ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza
libera e dignitosa».
Il disegno di legge è suscettibile di
essere modificato anche radicalmente attraverso gli emendamenti che già
sono stati o saranno proposti dai parlamentari. Nonostante ciò, è
interessante analizzare la discussione nata attorno alla proposta
Catalfo, i vantaggi che potrebbero derivare dall’introduzione di un
simile istituto nel nostro Paese e le eventuali insidie per i lavoratori
che questo disegno di legge nasconde.
Ma cosa prevede questa proposta? In estrema sintesi, in base al dettato del disegno di legge (articolo 2), affinché si possa parlare di retribuzione complessiva proporzionata e sufficiente, il trattamento economico complessivo,
proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato, non deve
essere inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale in
vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le
prestazioni, il cui ambito di applicazione sia maggiormente connesso e
obiettivamente vicino in senso qualitativo all’attività svolta dai
lavoratori anche in maniera prevalente e comunque non inferiore a 9 euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali.
Questa definizione, così come i rimanenti
articoli del disegno di legge, presenta dei punti discutibili. Da un
lato, la proposta depositata al Senato sembra offrire preziose sponde
che potrebbero rivelarsi utili per conquistare maggiori tutele per i
lavoratori, in particolare con riferimento ai cosiddetti ‘lavoratori
poveri’, ossia quelli caratterizzati dai salari più bassi. Tuttavia, la
vaghezza di alcuni punti del disegno di legge, unitamente al fatto che
in esito al dibattito in corso al Senato la proposta attuale potrebbe
essere sostanzialmente modificata, ci porta a guardare con attenzione
anche alle possibili insidie del provvedimento: non ci si può fidare
ciecamente di un partito, il Movimento 5 Stelle, che ha sistematicamente
voltato le spalle ai lavoratori sulle questioni fondamentali, dalla Legge Finanziaria, che doveva abolire la povertà e invece ha inflitto ulteriori dosi di austerità all’economia italiana, alle più piccole ma significative battaglie intorno al Decreto Dignità, che ha tradito i riders, esclusi da un provvedimento sorto a partire dalle loro rivendicazioni, e che sembra disegnato in modo tale da poter essere aggirato, come dimostra il recente contratto collettivo nazionale dei lavoratori del cemento.
Il salario minimo orario: un concetto che spaventa il capitale
È interessante, però, in primo luogo,
concentrarci sulle reazioni scandalizzate che questo disegno di legge ha
suscitato e continua a suscitare tra economisti, giuslavoristi,
politici e imprenditori. Naturalmente, i soggetti elencati sostengono
tutti di essere preoccupati per le conseguenze negative che la legge sul
salario minimo potrebbe avere sul sistema produttivo italiano e per le
ricadute che esso comporterebbe sull’occupazione. La realtà, però, è ben
diversa.
A preoccuparsi per quel che potrebbe
succedere se fosse approvata la legge sul salario minimo è, in primo
luogo, un economista del lavoro dell’OCSE (Organizzazione per la
cooperazione e lo sviluppo economico), Andrea Garnero. Durante un’audizione alla Camera,
Garnero ha sottolineato che uno dei principali “problemi” del disegno
di legge Catalfo risiede nel fatto che il salario minimo orario lordo
complessivo fissato a 9 euro sarebbe troppo alto, addirittura «il più elevato tra i Paesi Ocse» e più alto «anche della maggioranza dei contratti collettivi esistenti».
Non poteva mancare, tra le voci critiche, l’economista ed ex presidente dell’INPS, Tito Boeri. Anche per lui, e non poteva essere altrimenti,
bisogna stare attenti a non imporre un livello troppo alto del salario
minimo. La ragione è presto spiegata: secondo Boeri, «l’elasticità della
domanda di lavoro al salario fissato dalla contrattazione è molto
elevata: […] con un 10% di aumento del salario, l’occupazione si riduce
del 10 per cento. E chi perde il lavoro in questi casi sono i giovani,
le donne e i lavoratori precari, le fasce meno protette. Bene quindi che
la politica smetta di sparare numeri a caso». In pratica Boeri ci dice
che un aumento del salario dei lavoratori più poveri costringerebbe le
imprese a licenziarne una parte: i lavoratori poveri, insomma, devono
restare tali perché altrimenti diventano troppo costosi per le aziende.
Alle critiche al salario minimo orario si associa anche il centrosinistra. A distinguersi è Cesare Damiano,
ex Ministro del lavoro ed ex deputato del PD. Anche per lui,
naturalmente, il problema principale sta nel fatto che il salario minimo
a 9 euro è decisamente troppo elevato.
Le conseguenze, dal suo punto di vista, potrebbero essere disastrose.
Non solo potrebbe essere minato il ruolo della contrattazione
collettiva, ma, addirittura, si rischia di «indurre i lavoratori delle
categorie più alte a rivendicare aumenti salariali tali da ripristinare
le distanze parametrali originali». Una corsa al rialzo dei salari:
l’apocalisse, in pratica.
Manco a dirlo, a fare eco a Damiano ci pensa Confindustria. L’organizzazione padronale si dice fortemente preoccupata per il «vulnus all’autonomia
negoziale collettiva». Certo, ci sarebbe una leggerissima
preoccupazione anche per l’aumento dei costi che ne deriverebbe, ma
naturalmente questo è un problema residuale. Che interesse avrebbe
Confindustria a osteggiare un aumento dei salari?
Ma a schierarsi contro la legge sul salario minimo, nonostante le recenti aperture,
che avevano fatto pensare a una rapida approvazione del disegno di
legge, è addirittura l’alleato di governo dei Cinque Stelle, ovvero la
Lega. E lo fa per bocca del viceministro dell’Economia Massimo Garavaglia, che si dice preoccupato in quanto «l’unica cosa che non si può fare in questo momento è aumentare i costi alle aziende»
e invita, in sostanza, a rinunciare a una misura che, ancora sue
testuali parole, «è stata bocciata da tutto il mondo economico».
Da questa breve carrellata si trae,
dunque, l’impressione che la proposta Catalfo sia osteggiata da un
variopinto carosello di personaggi ragionevoli e rispettabili, per
ragioni prettamente umanitarie. Eppure, il sospetto che alcuni di questi
venerabili pensatori e statisti abbiano interessi diretti affinché i
salari restino quelli che sono potrebbe emergere.
È il caso, ad esempio, di Confindustria. È
chiaro che l’organizzazione dei padroni ha tutto l’interesse a
osteggiare un aumento dei salari reali, per evitare una riduzione dei
margini di profitto per i suoi iscritti. Allo stesso modo, non ci può
sorprende la posizione di Garavaglia, il quale rappresenta un partito,
la Lega, che ha come classe di riferimento l’imprenditoria
settentrionale, la quale, per le stesse ragioni di Confindustria, non
può non vedere come fumo negli occhi un aumento dei salari reali.
Altrettanto comprensibili diventano, dunque, le lagnanze dell’OCSE, che è
una delle tante organizzazioni internazionali che ha sempre
raccomandato l’adozione di quelle politiche neoliberiste che hanno
comportato la precarizzazione del lavoro, la progressiva riduzione delle
tutele e un deciso rallentamento nella crescita dei salari, a tutto
vantaggio dei profitti dei capitalisti. Come potremmo, inoltre, non
notare la coerenza del PD? Il partito al quale appartiene Cesare Damiano
non fa altro che continuare a svolgere il ruolo di solerte esecutore
materiale dei provvedimenti imposti dalle istituzioni finanziarie
internazionali e dall’Unione Europea.
Va, peraltro, sottolineato che non solo i
soggetti che abbiamo elencato lavorano alacremente per garantire che lo
sfruttamento dei lavoratori continui senza soluzione di continuità, ma
le argomentazioni che i figuri in questione utilizzano sono tutt’altro
che scientifiche. L’idea che un aumento dei salari possa portare a una
riduzione della quantità di lavoratori che le imprese sono disposte ad
assumere poggia sulla credenza che il numero di lavoratori che le
imprese assumono sia tanto minore quanto maggiore è il salario reale. In
altri termini, ogni aumento del salario reale comporterebbe una
riduzione del numero dei lavoratori impiegati dagli imprenditori, in
quanto questi ultimi, ad esempio, preferirebbero utilizzare tecniche di
produzione che utilizzano più macchine e meno lavoratori. Che il
comportamento delle imprese sia questo non è iscritto nelle tavole della
Legge. L’idea che vi sia un’elevata sostituibilità tra lavoratori e
macchine è ritenuta, da molti economisti, infondata teoricamente ed
empiricamente.
Non viviamo, però, nel mondo degli
unicorni. Ci sono certamente dei casi in cui un aumento dei salari reali
può provocare una riduzione nel numero di occupati. Uno di questi casi è
quello in cui gli imprenditori sono liberi di spostare i capitali
laddove i salari sono più bassi. È il caso in cui, in breve, le imprese
sono libere di delocalizzare:
nessuna sostituzione tra lavoratori costosi e macchine convenienti, ma
una semplice sostituzione tra lavoratori pagati degnamente e lavoratori
pagati indegnamente. In questo caso, è certamente vero che un aumento
dei salari può portare a una fuga di capitali. Esistono, però, diverse
alternative alla resa delle classi subalterne al ricatto occupazionale,
che impone ai lavoratori di accettare condizioni di lavoro sempre
peggiori se vogliono mantenere il proprio posto di lavoro.
Una di queste alternative consiste nel
lottare contro le politiche di liberalizzazione dei movimenti di
capitale e contro le politiche neoliberiste che hanno reso i lavoratori
sempre più ricattabili, in quanto eternamente precari. Ancora,
l’alternativa è quella di perseguire la piena occupazione attraverso la
spesa pubblica finanziata in deficit. Per farlo, però, è necessario
liberarsi dell’austerità e dei vincoli iscritti in maniera indelebile
nei trattati che regolano il funzionamento dell’Unione Europea e della
zona euro.
Non è l’aumento del salario in sé,
quindi, a causare una riduzione dell’occupazione. Sono le regole
istituzionali, alle quali molti stati europei hanno felicemente aderito,
a creare le condizioni affinché i lavoratori debbano scegliere se
essere lavoratori poveri o semplicemente disoccupati. Se vogliamo davvero rimettere
al centro la dignità e il miglioramento delle condizioni di vita dei
lavoratori, dobbiamo liberarci di queste regole per perseguire la piena
occupazione e l’aumento dei salari.
Verso una legge sul salario minimo: le possibili insidie
L’idea di fissare un salario minimo,
dunque, è tutt’altro che sbagliata. Sono tante però le insidie che si
nascondono nel lungo percorso che ci separa dall’attuale formulazione
della proposta Catalfo, vaga su molti punti chiave, alla sua concreta
realizzazione.
In primo luogo, la legge non può
limitarsi a fissare il salario minimo a 9 euro lordi. Se l’obiettivo è
quello di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori non si può, ad
esempio, non prevedere un meccanismo di indicizzazione del
salario minimo all’andamento dei prezzi. In altri termini, bisogna
prevedere che se ogni anno i prezzi aumentano (ad esempio) del 2 per
cento, anche il salario minimo deve aumentare del 2 per cento, per
mantenere costante il potere d’acquisto che con il salario minimo orario
si sostiene di voler garantire. Attualmente, il disegno di legge M5S
all’esame del Senato prevede una forma di indicizzazione soltanto nel
caso previsto dall’articolo 4, nel quale si regolamentano i casi in cui
manchino i contratti collettivi applicabili previsti nella definizione
di salario minimo dell’articolo 2.
Altro argomento delicato è quello dei cosiddetti minimi tabellari.
Il minimo tabellare (detto anche “paga base”) rappresenta il compenso
minimo spettante al lavoratore dipendente in base al contratto
collettivo di categoria applicabile e all’inquadramento del lavoratore. I
minimi tabellari sono aggiornati periodicamente e vengono riconosciuti a
tutti i lavoratori ai quali viene applicato un certo contratto
collettivo nazionale. La paga base, come suggerisce la locuzione,
costituisce, però, soltanto una parte della retribuzione del lavoratore.
Vi sono altri elementi, detti accessori ed integrativi, come i
cosiddetti superminimi (una parte ulteriore della retribuzione, che può
essere stabilita dai contratti collettivi aziendali oppure erogato alla
singola persona, anche tramite i contratti individuali, in
considerazione di particolari meriti del lavoratore) e gli scatti di
anzianità (aumenti periodici della retribuzione stabiliti nel contratto
applicabile). Tra gli elementi accessori vi sono anche gli straordinari,
i bonus aziendali, le gratifiche ordinarie (come la tredicesima) e
straordinarie (come la quattordicesima), le indennità (quali quella di
rischio o di reperibilità), il compenso previsto per le ferie e le
festività non godute. La retribuzione lorda base e quella accessoria
formano la retribuzione lorda complessiva.
Da questa breve elencazione degli
elementi del salario, emerge dunque che una cosa è far riferimento a un
minimo tabellare pari a 9 euro lordi l’ora, un’altra cosa (ben diversa) è
parlare di una retribuzione complessiva lorda pari a 9 euro l’ora.
Dev’essere dunque ben chiaro che i 9 euro lordi orari devono essere
riferiti alla paga base. Se il salario minimo orario fosse riferito alla
retribuzione complessiva (come effettivamente è nella formulazione attuale),
in molti casi esso sarebbe quantomeno inefficace, perché sarebbe al di
sotto della retribuzione complessiva oraria lorda già percepita da molti
lavoratori.
Si sta inoltre discutendo del perimetro di applicazione del
salario minimo orario, ed in particolare dell’ipotesi di escludere
dall’applicazione di quella soglia determinate categorie di lavoratori,
dai collaboratori domestici ai lavoratori agricoli, da giovani under 30
ai dipendenti degli artigiani. È evidente che maggiori sono le
categorie escluse dall’applicazione del salario minimo, minore sarà
l’effetto positivo che questa misura ha sulla condizione di vita dei
lavoratori poveri, una condizione che caratterizza in particolare
proprio il settore agricolo e i lavoratori più giovani.
In difesa di un argine contro lo sfruttamento
Gli ultimi quarant’anni hanno visto il
potere contrattuale dei lavoratori ridursi sempre di più. A demolirlo
pezzo per pezzo ci hanno pensato, negli anni ’80, i governi dei Paesi
occidentali che hanno applicato alla lettera quelle politiche
neoliberiste particolarmente gradite al capitale, come la
neutralizzazione dei sindacati, la precarizzazione del mercato del
lavoro, la riduzione della spesa pubblica, la demolizione del welfare:
tutti elementi che hanno reso i lavoratori sempre più ricattabili dagli
imprenditori e, dunque, sempre meno forti in sede di contrattazione
delle condizioni di lavoro. Ad accelerare il progressivo sgretolamento
delle politiche keynesiane a sostegno della piena occupazione e a
sancire l’istituzionalizzazione della visione economica neoliberista è
intervenuto, nel Vecchio Continente, il processo di integrazione europea. Libertà di movimento dei capitali, tagli alla spesa pubblica, cessione della politica monetariaa un’autorità ‘indipendente’, rinuncia allo strumento di politica economica rappresentato dalla fissazione del tasso di cambio e deregolamentazione
del mercato del lavoro sono entrate non solo nei trattati costitutivi
delle istituzioni europee, ma, in alcuni Paesi e sotto alcuni aspetti,
anche nelle stesse costituzioni dei Paesi membri.
Accade, però, che in un processo storico
apparentemente inesorabile ci siano dei momenti in cui, per le ragioni
più varie, si insinuino degli elementi che vanno in direzione contraria.
Il disegno di legge sul salario minimo, pur caratterizzato, l’abbiamo
visto, da molte possibili insidie, costituisce un esempio di quanto
appena detto. Le ragioni per le quali, in questo periodo storico, un
partito per molti aspetti complice delle politiche di austerità spinge
per un salario minimo sono svariate: una su tutte consiste nel tentativo
di alimentare lo scontro con gli alleati di governo per recuperare
terreno dopo le ultime batoste elettorali. Quali che siano le cause,
però, il nostro compito è quello di insinuarci nello scontro politico in
atto con l’obiettivo di far emergere quei punti della proposta Catalfo
che, se ulteriormente migliorati, potrebbero produrre un miglioramento
nelle condizioni di vita di milioni di lavoratori.
In questo senso, una volta che si siano
evidenziate tutte le insidie nascoste nel percorso verso una seria legge
sul salario minimo, dobbiamo chiaramente affermare che un salario minimo orario base (e non complessivo) pari
almeno a 9 euro lordi, applicabile a tutti coloro che attualmente
guadagnano di meno, è una misura che va difesa con le unghie e con i
denti, perché costituisce una crepa, anche se piccola, momentanea e per
certi aspetti probabilmente strumentale, nell’altrimenti monolitica
difesa a oltranza dell’austerità. Una crepa nella quale abbiamo il
dovere di scavare con tutte le nostre forze. Questo ragionamento avrebbe
dovuto unire tutte le forze sindacali, messe all’angolo da oltre
trent’anni di sconfitte e arretramenti, che potrebbero trovare
nell’introduzione di un salario minimo dignitoso nuova linfa per
difendere la condizioni di vita di milioni di lavoratori, a partire dai
più svantaggiati. Purtroppo, le principali forze sindacali si sono schierate in blocco contro il disegno di legge Catalfo,
cioè dalla stessa parte della Confidustria e di tutte le forze
politiche e istituzionali che sono espressione degli interessi del
profitto, contro il lavoro. Questa ostilità dei sindacati confederali, in primis della
CGIL, verso una legge che finalmente potrebbe porre un piccolo argine
allo sfruttamento nel nostro Paese è solo l’ultimo capitolo di una lunga storia di tradimenti delle organizzazioni dei lavoratori nei confronti del loro popolo, tradimenti che giustificano la crescente sfiducia dei lavoratori nei sindacati e, più in generale, nelle forze della sinistra.
In difesa di un salario minimo
dignitoso, contro il lavoro povero e lo sfruttamento, aderiamo alla
campagna lanciata dall’unico sindacato che si è schierato dalla parte
giusta della barricata, l’Unione Sindacale di Base (USB), a partire
dalla giornata di protesta nazionale “Chi ha paura del salario minimo” prevista per il 28 giugno.
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