Shoshana Zuboff ha scritto un libro importante di filosofia politica e critica dell’economia politica digitale: The Age of Surveillance Capitalism. The fight for a human future at the new frontier of power (Profile Books. pp. 691; L’epoca del capitalismo di sorveglianza: la lotta per un futuro umano sulla nuova frontiera del potere).
È un libro necessario che racconta la storia terribile e urgente di cui siamo protagonisti e offre strumenti contro il nuovo potere.
Considerato il fatto che non è stato ancora tradotto in italiano, propongo una guida al libro e una lettura critica delle cinque tesi principali.
0. Che cos’è il capitalismo della sorveglianza
1. Un nuovo ordine economico che configura l’esperienza umana come una materia prima gratuita per pratiche commerciali nascoste di estrazione, predizione e vendita;
2. una logica economica parassita nella quale la produzione delle merci e dei servizi è subordinata a una nuova architettura globale della trasformazione comportamentale degli individui e delle masse;
3. una minaccia significativa alla natura umana nel XXI secolo così come il capitalismo industriale è stato per il mondo naturale nel XIX e XX secolo;
4. una violenta mutazione del capitalismo caratterizzata da una concentrazione della ricchezza, conoscenza e potere senza precedenti nella storia umana; (…);
5. l’origine di un nuovo potere strumentale che afferma il dominio sulla società e presenta una sfida impegnativa alla democrazia di mercato (corsivo mio); (…)”. (p.1).
1. Il capitalismo della sorveglianza è un nuovo ordine economico che configura l’esperienza umana come una materia prima gratuita per pratiche commerciali nascoste di estrazione, predizione e vendita.
Il capitalismo di sorveglianza trasforma l’esperienza in “materiale grezzo gratuito”. Tale materiale è estratto da un corpo, descritto come una “carcassa”, è raffinato, reso intelligente e trasformato in dati comportamentali.
È un processo di produzione che ha lo scopo di produrre un surplus comportamentale proprietario. Il surplus è ottenuto attraverso processi di manifattura avanzata conosciuti come intelligenza algoritmica ed è potenziato attraverso la realizzazione di prodotti predittivi finalizzati all’anticipazione di ciò che vogliamo o desideriamo. I prodotti non sono scambiati sul mercato tradizionale dei futures comportamentali. Di solito questi futures sono titoli finanziari, contratti standard, e quindi negoziabili, scambiati in borsa sulla base di scadenze e prezzi prefissati.
Il nuovo mercato assomiglia a un over the counter, espressione usata per indicare una negoziazione che si svolge al di fuori dei circuiti borsistici ufficiali, anche se poi incide su di essi. Zuboff racconta la contrattazione dei futures comportamentali tra le piattaforme digitali e la vendita dei dati all’industria assicurativa, della biomedicina, della pubblicità, della telefonia e del marketing, della sorveglianza statale per l’ordine pubblico, per le politiche pubbliche del controllo sociale, per ogni forma di produzione a cominciare dalla manifattura industriale tradizionale. Gli immensi profitti realizzati da Google, Amazon, Apple, Facebook e tutte le altre aziende della Silicon Valley, i giganti cinesi Badu o Tencent, sono il prodotto di una delle economie più redditizie al mondo: le scommesse delle imprese e degli Stati sul comportamento futuro dei cittadini, dei consumatori e dei lavoratori e l’uso dei loro dati per aumentare i profitti sul mercato dei futures comportamentali. Il fatto che non esista una contrattazione tradizionale, innanzitutto tra i produttori diretti dei comportamenti e le aziende che estraggono e raffinano i dati, rende questa operazione arbitraria e speculativa.
Questo mercato non è a somma zero perché rappresenta un profitto tendenzialmente infinito il cui unico limite è la tecnologia attuale. Si spiega così l’inesauribile corsa al superamento di questi limiti attraverso enormi investimenti sull’innovazione. Ciò che conta è la creazione di un effetto hype attraverso l’annuncio di un nuovo prodotto o l’aggiornamento di quelli esistenti. Tale effetto “pubblicitario” è necessario per creare un orizzonte di attesa tra gli investitori, oltre che tra i consumatori. Senza questa attesa fibrillante non esiste nè l’innovazione, né il collocamento dei futures comportamentali. Tanto più è profilabile oggi un comportamento umano, tanto più redditizio sarà per i suoi speculatori domani. Per questa ragione l’orientamento del comportamento è il sacro graal della bioeconomia tecnologica e finanziaria. Conoscere ciò che un individuo vuole, pensa o agisce è fondamentale per accumulare nuovi fondi di investimento e finanziare la trasformazione dei comportamenti in dati commerciabili. Tale attività previsionale è tendenzialmente infinita perché sono infinite le azioni e le relazioni da cui è possibile estrarre un surplus. Sulla base di quello già estratto, è sempre possibile creare uno nuovo. I prodotti predittivi creati indicano l’esistenza di sviluppi ulteriori perché gli esseri umani non finiscono mai di pensare, agire e creare relazioni.
L’economia dei surplus comportamentali non mira solo a soddisfare una domanda preesistente, ma a creare una nuova domanda e a farla riconoscere come naturale a chi ignora l’esistenza stessa della propria domanda. Questa è la principale innovazione realizzata da Google – il vero oggetto di indagine di Zuboff: “Google ha scoperto il modo per tradurre le interazioni non di mercato con i suoi utenti in un materiale grezzo eccedente finalizzato alle transazioni di mercato con i suoi veri clienti: i pubblicitari” (p. 93). È questo avanzamento tecnologico che ha permesso a questa azienda, come a tutte le altre digitali, di convertire i loro investimenti in rendita. Questo ha cambiato il rapporto con gli investitori che hanno realizzato la possibilità di rendere monetizzabili i loro capitali di ventura. È stata l’invenzione del XXI secolo: il motore di ricerca di Google è un mezzo di produzione che allena i suoi utenti ad alimentare le capacità predittive dell’intelligenza artificiale. Google va considerata sia come un’interfaccia tra i pubblicitari e gli investitori finanziari, sia come un’interfaccia tra gli utenti che lavorano e i suoi algoritmi che li rendono produttivi per l’economia finanziaria in cui, senza saperlo, sono inseriti. Google non vende dati personali, ma previsioni su ciò che sentiamo, pensiamo, facciamo, scrive Zuboff. La vendita si basa sull’idea che l’essere umano sia prevedibile, quantificabile, regolabile. Ciò avviene attraverso la definizione delle variabili di un comportamento che permette di ridurre i rischi di chi scommette sulla loro ripetizione. Questa operazione è fondamentale per chi deve vendere una polizza assicurativa, un farmaco, un’automobile, un corso universitario oppure un partito, un sito o un giornale. Un attore economico interessato a scambiare qualsiasi cosa non potrà mai più fare a meno di una simile tecnologia per commerciare un prodotto e scommettere sulla fortuna della propria impresa. E così faranno i singoli individui per programmare la loro esistenza.
Il ciclo economico del surplus comportamentale è così composto: gli utenti delle piattaforme digitali sono trasformati in mezzi di produzione che fabbricano le previsioni sui loro comportamenti. Questi prodotti sono venduti ai clienti sui nuovi mercati dei futures comportamentali. .Questi futures corrispondono a una commodity, il dato, che si aggiunge a quelli tradizionali del grano, oro, metalli, caffè. È su questa merce che gli investitori che finanziano la produzione di servizi predittivi e ottengono in cambio rendimenti che crescono proporzionalmente con il successo di tali servizi. Questa attività finanziaria non corrisponde a una valuta o un indice borsistico, ma condiziona il valore in borsa delle aziende che li creano. I capitalisti della sorveglianza possiedono aziende finanziarie, oltre che tecnologiche. Il ciclo produttivo rende evidente l’intreccio tra la produttività dell’industria finanziaria e la finanziarizzazione dell’industria tecnologica. La base comune di questa industria è il comportamento degli utenti delle piattaforme digitali e le loro relazioni con la produzione e la riproduzione della società. La tecnologia è politica perché offre strumenti per potenziare il controllo, migliorare la previsione e indirizzare la decisione sulla vita delle persone.
Presto, o tardi, come in Cina con il sistema dei crediti sociali, gli Stati perfezioneranno l’analisi predittiva dei big data al mercato del lavoro in un sistema di governance basata sui numeri per gestire la condizione di occupabilità attraverso la politica delle risorse umane (case management); digitalizzare la politica attiva del lavoro che opera nell’incontro (matching) tra domanda e offerta in un sistema di intermediazione labor exchange; creare profilazioni e rating reputazionali dei lavoratori e dei centri per l’impiego; creare il lavoro digitale dei beneficiari che operano tramite applicazione; valutare gli individui in base alla capacità di autoregolazione in un processo di selezione e produzione; aumentare il tasso di partecipazione al mercato del lavoro; incide sulla domanda aggregata. Questo è il progetto del cosiddetto “reddito di cittadinanza” dei Cinque Stelle in Italia, in realtà un sussidio pubblico vincolato al lavoro e alla mobilità obbligatori mediati da una piattaforma digitale. Chi desidera comprendere questo sistema può leggere il libro di Shoshana Zuboff. Questi sistemi non sono il risultato di un’imposizione. Al contrario, sono i prodotti di un sottile gioco tra necessità e desiderio.
2. Il capitalismo di sorveglianza è una logica economica parassita nella quale la produzione delle merci e dei servizi è subordinata a una nuova architettura globale della trasformazione comportamentale degli individui e delle masse.
“Le invenzioni di Ford hanno rivoluzionato la produzione. Quelle di Google hanno rivoluzionato l’estrazione” (p.87). Questa estrazione avviene in maniera unilaterale, dissimulata e falsificata. Non si tratta più di estrarre i dati da un materiale informatico (il data mining), ma di estendere l’attività di estrazione all’intera esperienza umana (reality mining, p. 422) attraverso il ricorso a soluzioni sociometriche come l’analitica della popolazione (people analytics, p. 424). Da un principio di organizzazione del mercato passiamo così a una scienza del governo che rende produttiva l’esistenza di una popolazione e, teoricamente, di ogni individuo. In questa prospettiva, l’imperativo estrattivo è funzionale a una politica più ampia di quella delle imprese della Silicon Valley.
Diversamente da altre epoche del capitalismo, quello della sorveglianza è fondato su un ciclo di accumulazione continuo che non avviene una sola volta per tutte. L’accumulazione dipende dallo sviluppo in tempo reale della vita stessa degli esseri umani intermediata dalle piattaforme digitali. Questa descrizione coincide con quella del filosofo e geografo David Harvey secondo il quale ci troviamo in un sistema di accumulazione attraverso l’esproprio. L’esproprio consiste nel sottrarre una serie di beni a costo vicino allo zero. Il capitalista vince quando riesce a guidare tale processo in territorio nuovi e indifesi. È quello che ha fatto il capitalismo di sorveglianza. Il suo scopo è trasformare l’esperienza umana in surplus comportamentale sul quale il soggetto non ha alcun controllo. Tale surplus è considerato una merce fittizia, la quarta dopo la terra, il lavoro e la moneta secondo la tassonomia di Karl Polanyi (p.100).
L’espropriazione avviene attraverso la colonizzazione degli spazi di vita non commerciabili e la loro trasformazione in una vita capitalistica. Con una differenza: questo processo è continuo, include ogni azione, indipendentemente dai limiti spazio-temporali in cui è inserita. È il soggetto ad adattarsi, abituarsi e performare l’identità necessaria per rendere automatico il suo comportamento. Volontariamente si mette al servizio di un’economia algoritmica che mira a condizionare la sua forma di vita. Per questo il capitalismo di sorveglianza va inteso come un’economia parassita. Attraverso la progressiva colonizzazione del soggetto da parte del potere strumentale digitale si costruisce la mentalità e il comportamento produttivo secondo i criteri stabiliti. Non è soltanto uno sfruttamento praticato da un potere esterno, ma è l’adesione inconscia, e via via sempre più strategica, da parte del soggetto rispetto a ciò che lo sfrutta e nel quale intravede tuttavia l’unico orizzonte possibile. Se prima era estranea allo sfruttamento, ora lo considera la propria natura. Le piattaforme digitali sono uno straordinario strumento di trasformazione dell’individuo in capitale umano senza tra l’altro renderlo del tutto cosciente del valore acquisito da tale capitale sul mercato dei futures comportamentali. Come un parassita, questa economia occupa il corpo e lo trasforma.
L’“architettura globale” di questo sistema è ispirata a un’“economia di scopo”: l’estensione colossale dell’attività di estrazione del valore dal virtuale al reale hanno una duplice funzione: da un lato, addestrano l’Io, l’umore, le emozioni e la personalità alla nuova disciplina performativa; dall’altro lato, cambiano il mondo in cui vive il performer in un ambiente tecnologico e interconnesso capace di favorire la raccolta e la produzione di nuovi dati (p.201). Obiettivo del potere strumentale è intervenire in maniera diretta, e senza mediazioni, sulle azioni delle persone al fine di valutarle, premiarle o punirle affinché seguano autonomamente gli obiettivi che permettono alla macchina di aumentare il suo valore. Secondo obiettivo: rendere certa l’esecuzione e la programmazione dei comportamenti.
L’imperativo estrattivo è accompagnato da quello predittivo (p.203). Tutto dev’essere prevedibile e calcolabile, l’incertezza e il rischio vanno costantemente ridotti alla computazione – “l’utopia della certezza”, p. 398. Il soggetto va trasformato in uno strumento umano. Lo può diventare solo se si convince liberamente che l’automazione dei comportamenti coincide con la libertà assoluta. In questa forma paradossale della libertà – libero è colui che è strumento in mano ad un altro – emerge la principale caratteristica della libertà neoliberista definita da Michel Foucault come libertà liberogena: produce libertà e la distrugge in nome della sicurezza. Una contraddizione in termini: un essere umano è libero quando la sua libertà è funzionale alla creazione del controllo sulla sua vita.
3. Il capitalismo della sorveglianza è una minaccia significativa alla natura umana nel XXI secolo così come il capitalismo industriale è stato per il mondo naturale nel XIX e XX secolo.
Questa critica all’economia comportamentale del capitalismo di sorveglianza si ferma alla constatazione per cui il soggetto produttore di dati è un capitale umano e non una forza lavoro. Zuboff dà per scontato che la natura umana coincida con un’essenza, e che questa essenza dev’essere restituita alla sua autenticità, mettendo fine allo sfruttamento di cui la natura umana è vittima. Questa “essenza” è un’idea astratta unica per tutto il genere umano che si riproduce in ogni individuo ed resta identica a se stessa. Zuboff sembra così presupporre che senza il capitalismo della sorveglianza, o comunque con un capitalismo diverso, la natura umana possa essere restituita a un ordine più simile all’essenza dell’essere umano. Così non può essere perché tutto il capitalismo, e non solo la forma specifica di quello di sorveglianza, ha trasformato questa natura nella propria forma ideale e nega l’idea di un’essenza presupposta alle sue manifestazioni storiche. Dietro la natura alienata non esiste un’essenza umana incontaminata, ma i rapporti sociali e di produzione.
Evocare l’esistenza di una natura umana significa accreditare la tesi dei teorici neoliberali secondo i quali il capitale umano esprime la personalità del soggetto. In questo modo la natura umana coincide con ciò che la sfrutta: il capitale (umano). Per evitare questi esiti paradossali è necessario descrivere diversamente ciò che il capitalismo della sorveglianza sfrutta e ciò che permette di superare tale sfruttamento.
La risposta la troviamo nella filosofia della forza lavoro. Per Karl Marx la forza lavoro è un doppio: da un lato, è la capacità di lavoro venduta sul mercato in cambio di un salario; dall’altro lato, è la facoltà di produrre i valori d’uso incarnati nella “personalità vivente” e nella “corporeità” di ogni donna e uomo. Questa contraddizione in atto rende straordinariamente mutevole la vita dell’essere umano, soggetta a nuovi conflitti sconosciuti nelle epoche precedenti, a cominciare da quello tra capitale e lavoro che inizia sin dalla definizione della sua forma di vita. Quando allora sentiamo dire che il capitale umano oggi consiste nel produrre i dati e che questi dati sono il nuovo petrolio estratto dalle persone proviamo a rispondere che a questa convinzione sfugge l’idea che forza lavoro, in quanto facoltà, può produrre anche i dati, ma non è riducibile alla mera capacità di produrre una sola merce.
Dire natura umana=produzione di dati significa individuare esclusivamente il soggetto nel lavoro necessario a produrre i dati espropriati dal capitale. Questa reificazione è coerente con la rappresentazione capitalistica del lavoro: da un lato, sembra la fonte della ricchezza – e non lo è, lo è il capitale; dall’altro lato, sembra la liberazione dallo sfruttamento, mentre invece ne è l’incarnazione. Nel capitalismo il lavoro è sempre una merce, altrimenti non è lavoro. Lo statuto ontologico dei dati prodotti e commercializzati dalle piattaforme digitali è invece l’espressione della duplice condizione della forza lavoro: da un lato, sono l’espressione di una facoltà irriducibile al ciclo produttivo, da cui questo stesso ciclo dipende; dall’altro lato, sono il prodotto di una capacità di lavoro – tra l’altro mai riconosciuta come tale – modellata intorno ai principi di produttività stabilita dal capitalismo della sorveglianza.
La funzione della forza lavoro è evidente: Facebook non esiste se nessuno di noi che “scrolla” il suo telefonino; Uber non esiste se nessuno guida una macchina o la chiama attraverso la app; Google non esiste se nessuno accetta di farsi profilare attraverso il motore di ricerca. I dati non sono l’origine della ricchezza, ma sono il prodotto della forza lavoro e dei rapporti sociali e di produzione in cui è inserita e da cui è estratto un valore. Il riferimento non è il dato in sé, ma la forza lavoro che produce il dato in un rapporto sociale di produzione. L’attività di estrazione non va considerata in maniera unilaterale, come avviene nell’estrazione del petrolio dove una trivella scava e una pompa estrae l’“oro nero”. Questo è un modo per ridurre l’attività della forza lavoro a un unico comportamento produttivo.
Il capitalismo della sorveglianza vuole predeterminare, guidare e controllare a distanza sia le capacità che gli atti necessari alla produzione del valore che permette di accrescere i suoi profitti. Ciò non significa che controlli la forza lavoro e le sue potenzialità. Al contrario, il dispositivo è sempre in difetto e la sua straordinaria forza di innovazione è dovuta all’obbligo di approntare meccanismi predittivi che determinino il modo in cui la forza lavoro si configurerà domani. Ma visto che nessuno può predeterminare il futuro, nemmeno un mercato cibernetico automatizzato, resta il fatto che la forza lavoro non è mai determinabile in partenza, né può essere codificata una volta per sempre in un “capitale umano” e nemmeno in una “natura umana”. La forza lavoro è la potenzialità dell’essere altrimenti ed emerge nella sua facoltà di collocarsi nel futuro. La forza lavoro è la facoltà che si infutura a partire dall’ora e dall’adesso in ogni atto materiale e intellettuale, nella produzione e nella riproduzione delle merci e delle relazioni, degli usi e delle loro contraddizioni.
4. Il capitalismo della sorveglianza è una violenta mutazione del capitalismo caratterizzata da una concentrazione della ricchezza, conoscenza e potere senza precedenti nella storia umana.
Il capitalismo della sorveglianza si è sviluppato dopo l’11 settembre 2001. Per tutto il decennio successivo è stato istituto uno “stato di eccezione” finalizzato alla prevenzione e al contrasto del terrorismo islamico fuori e soprattutto dentro gli Stati Uniti. Zuboff racconta il modo in cui Apple e Google, in particolare, sono “fioriti” grazie all’eccezionalismo giuridico dei sistemi di sorveglianza (p.115).
A partire dal 2003, Google ha sviluppato il suo motore di ricerca grazie ad un contratto speciale con la Nsa pari a oltre 2 miliardi di dollari. Le agenzie di contro-spionaggio e di guerra contro il terrorismo non hanno mai accettato i limiti costituzionali a cui sono soggette e hanno accresciuto l’interdipendenza con le aziende della Silicon Valley, ottenendo in cambio gli strumenti tecnici per raggiungere i loro obiettivi. Va ricordato che l’eccezionalismo tecnologico e giuridico del capitale digitale è caro sia alla destra repubblicana che alla sinistra democratica. Zuboff si sofferma a lungo sull’amicizia tra i fondatori di Google e Obama.
È di dominio pubblico la collaborazione prestata da Google alla prima campagna presidenziale di Obama nel 2007. Grazie a Google, Obama realizzò una straordinaria macchina di acquisizione di dati e orientamento dei comportamenti degli elettori. Con mezzi ancora superiori, e con una maggiore spregiudicatezza, ha agito lo stesso Trump nel 2015, come ha rivelato il caso Cambridge Analytica-Facebook nel 2018. Il ruolo dei politici, dello Stato e dell’industria militare nello sviluppo della rivoluzione informatica già a partire dagli anni Cinquanta è stato occultato, mentre è cresciuta la leggenda di un’industria fatta da imprenditori eroici che coltivavano dogmi profondamente anti-statalisti.
Questa immagine non è vera. La Silicon Valley si è sviluppata grazie allo Stato. Lo Stato è sempre pronto ad ottenere benefici di ogni tipo. Dal libro emerge il profilo di capitalisti cinici e opportunisti: da un lato, attaccano lo Stato; dall’altro lato, sono pronti a ricevere fondi ingenti che aumentano i loro profitti. Questa impostazione spinge a considerare lo Stato come una tirannia e l’impresa come il baluardo della difesa della libertà. Qualsiasi tentativo di regolare il capitalismo della sorveglianza diventa così un sopruso che colpisce la libertà di tutti. Si ritengono fondamentali per il benessere delle persone perché vendono le merci di cui pensano abbiano bisogno e considerano ogni intervento condotto in nome dell’interesse pubblico una violenza ai danni dell’umanità.
La violenza di cui parla Zuboff deriva dall’uso strumentale della democrazia, da cui non è affatto esente la politica connivente con questa impostazione. Al contrario, come ha mostrato Edward Snowden nel 2013, esiste una continuità tra le agenzie statali e le aziende tecnologiche (p.385). Lo è stato prima per la cosiddetta “guerra al terrorismo”, lo è oggi per quella contro i migranti. E lo è anche per il controllo sociale. L’oggetto del nuovo potere è il governo del futuro, considerato come un materiale da assemblare da parte dello Stato (un “Dio comportamentale”, p.394), oppure altrove dal sistema pubblico-privato del capitalismo di sorveglianza. Ciò che accomuna la Cina agli Stati Uniti è l’idea di un potere strumentale.
Zuboff redige una tavola comparativa (pp.396-7) dove distingue le sue caratteristiche da quelle del potere totalitario del XX secolo. Mentre il primo mira al possesso totale dell’esistenza, il secondo impone la certezza totale e sviluppa la proprietà dei mezzi per la trasformazione comportamentale dell’esistenza, per la computazione e il controllo dei suoi dati in un’ottica di subordinazione politica. Il potere strumentale non vuole dominare, ma controllare a distanza e in maniera molecolare il libero sviluppo dell’esistenza. La violenza di un simile potere è considerevole perché tende a presentarsi come democratico, mentre nasconde un apparato di controllo coercitivo. Tuttavia la nozione di potere strumentale va precisata. Zuboff tende a considerarlo l’unico soggetto attivo nell’economia digitale, mentre rischia di ridurre il suo soggetto una “natura umana” considerata come una “foresta vergine” (p.99), altre volte come “oggetto” (p.212). Ne deriva l’impressione che tale potere sia assoluto, mentre all’opposto è condizionato dall’attivazione della forza lavoro dei suoi soggetti. La stessa Zuboff fonda il suo libro sulla storicità del potere e sulla trasformazione dei cicli capitalistici. L’idea della produzione di futures comportamentali è contraria all’immagine di un soggetto passivo, o semplicemente vittima di una macchinazione da cui risulta estraneo.
In questa economia il soggetto non è un “oggetto”, né tanto meno una “foresta vergine”. Ciò che differenzia il nuovo potere da quello precedente è il fardello del soggetto neoliberale: la volontaria oggettivazione dell’Io finalizzata alla brandizzazione della persona e alla sua messa in produzione. Una strategia diversa dal desiderio di identificazione e conformità al comando di cui è stato accreditato il soggetto del totalitarismo. L’esperienza storica del nuovo soggetto è connessa alle macchine digitali che lo sfruttano sul mercato, non solo e non tanto al comando politico dello Stato. La ragione della crisi risiedono nella libertà, non nel bisogno; nella volontà, non nell’obbligo; nella frustrazione, non nella coercizione. Queste osservazioni sono decisive per spiegare il liberalismo oggi. È all’interno di questa tradizione che si è creata la gigantesca concentrazione di potere e ricchezza criticata da Zuboff. Una concentrazione accettata e talvolta rivendicata dai soggetti che sono le sue vittime.
È il problema della politica contemporanea, nata con la rivoluzione neoliberale a partire dalla metà degli anni Settanta del XX secolo, che ha modificato radicalmente le coordinate culturali e politiche del liberalismo. Oggi l’uso formale di concetti come libertà, mercato, democrazia o stato di diritto costituzionale non corrisponde mai alla loro realtà materiale, come scriveva Karl Marx già a metà Ottocento. In sé la “democrazia” o la “libertà” sono concetti polivalenti che alludono a un regime democratico regolato da un equilibrio tra l’interesse pubblico e privato, tra lo Stato e il mercato. Tuttavia questo equilibrio non esiste perché il capitale non lo permette più. Capitale e democrazia sono politiche opposte che possono trovare una mediazione mai scontata. L’unica forma politica in cui la democrazia trova oggi uno spazio è la sua negazione: il mercato. Questo rovesciamento è in atto negli Stati Uniti, come in Russia o in Ungheria dove esistono capi di stato che teorizzano le presunte virtù delle “democrazie illiberali”. Qualsiasi cosa siano tali democrazie, incarnano l’utopia del mercato e della concorrenza, a cui aggiungono il razzismo di stato. L’anti-liberalismo estremizza le premesse neoliberali di una società organizzata sul mercato e il suo darwinismo sociale. Zuboff spiega l’internità ideologica del capitalismo della sorveglianza allo “spirito del tempo” neoliberale, ma sembra addebitare il nuovo autoritarismo solo a Google o Facebook, non al fatto che il neoliberalismo aspira a sostituire la democrazia con una nuova forma di autoritarismo. Il processo è velocizzato da queste aziende, ma non è stato causato solo da loro.
In questa prospettiva l’idea di un “colpo di stato dall’alto”, “un sovvertimento della sovranità del popolo” (p.1) compiuto dal capitalismo della sorveglianza è parziale. Presuppone il ripristino di una “sovranità del popolo” in una democrazia dove il capitalismo contemporaneo non si adegua mai alle leggi, ma cerca di modificarle in funzione della propria egemonia, ricorrendo a uno stato di emergenza continuo per mantenere la concentrazione di ricchezze verso l’alto e aumentare le diseguaglianze economiche, politiche e culturali. Il problema della democrazia resta sempre quello del superamento del capitalismo.
5. Il capitalismo della sorveglianza è l’origine di un nuovo potere strumentale che afferma il dominio sulla società e presenta una sfida impegnativa alla democrazia di mercato (corsivo mio).
La difesa della democrazia di mercato contro il capitalismo di sorveglianza è una contraddizione. Da un lato, si argomentano le ragioni a difesa della democrazia costituzionale americana fondata sia sui diritti fondamentali della persona che sulla democrazia del mercato e, per questo, denuncia l’uso opportunistico del primo emendamento da parte degli ideologhi cyberlibertariani, dell’estrema destra e degli imprenditori della Silicon Valley. Dall’altro lato, si riconosce che la strumentalizzazione della “democrazia del mercato”, la ragione stessa del capitalismo della sorveglianza che nega la mediazione tra democrazia e mercato.
Il capitalismo della sorveglianza segna la fine della mediazione e afferma un’evidenza: il mercato non è mai democratico. Mark Zuckerberg o Eric Schmidt di Google si presentano come difensori della “democrazia”. E tuttavia, sostiene Zuboff, affermano un totalitarismo in nome del mercato. In questo paradosso, la democrazia di mercato non è il rimedio, ma è la causa del regime attuale. Il problema non è solo logico, ma politico. La straordinaria capacità di Zuboff di analizzare il nuovo capitalismo rischia di configurare un soggetto vittima di una macchinazione universale che rende impossibile un ribaltamento dei rapporti di forza. Non può che essere così, restando sul terreno di una “democrazia del mercato” da difendere contro il vampirismo dei capitalisti digitali.
Il dilemma sarebbe irrisolvibile se Zuboff non ricorresse a un’altra idea della libertà rispetto a quella liberale articolata in una libertà negativa (“libertà da”) e in una “libertà positiva” (“libertà di”). Nella conclusione del libro cita Hannah Arendt, nume tutelare della sua opera: la libertà è una facoltà (p.525), ovvero la sorgente segreta di tutte le attività umane. Per facoltà della libertà non si intende solo la capacità di compiere un’azione, o resistere contro un’azione altrui, ma attingere alla possibilità di nuovi inizi a cui tutti possono avere accesso perché tutti possiedono la facoltà di iniziare una nuova vita al di là dei limiti imposti dal potere. Non tutti sono capaci di farlo, perché il potere non lascia mai una simile possibilità. La libertà resta comunque una facoltà dell’essere umano. La coscienza di una simile possibilità dà fiducia e forza. Non è un principio morale, ma un modo di vivere. Un’etica, non un partito preso ideologico. È, appunto, una facoltà ed è imprevedibile. È indocile, per questo il potere della sorveglianza cerca di controllarla ricorrendo a un mostruoso apparato tecnologico che tende a sostituire la sua facoltà con l’imperativo della prevedibilità e dell’(auto)controllo. Ma ciò non elimina il senso politico di questa facoltà: il diritto al tempo futuro (The right to future tense: p.329 e ss.).
È una definizione bellissima: la libertà è collocarsi in un mondo in divenire che non è ancora così ma che può essere altrimenti. È su questa facoltà comune agli esseri umani che si basa il miracolo dell’inizio. È un miracolo storico, non teologico: una discontinuità reale, non uno stato dell’anima. La facoltà della libertà non è una speranza, ma una prassi che consiste nel ribaltare i limiti e usare il reale a disposizione per altri fini. Il suo grado zero consiste nel riconoscere il modo in cui non vogliamo più vivere. Il passo successivo è comprendere come è possibile sconfiggere il potere che occulta l’alternativa. Lo si può fare comprendendo la facoltà della libertà evidenziata da Shoshana Zuboff nella filosofia della forza lavoro. La forza lavoro è il centro della produzione del capitalismo di sorveglianza, ma è anche la facoltà della libertà, la capacità di produrre nuovi inizi e di rivendicare il diritto al tempo futuro.
*Filosofo e giornalista, scrive per Il Manifesto. Ha scritto, Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale (DeriveApprodi); Capitale disumano. La vita in alternanza scuola lavoro (Manifestolibri)
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