Gli
accadimenti in atto nel sistema politico italiano stanno dimostrando
come si siano profondamente modificate le regole dell’esercizio del
potere in via istituzionale in un quadro generale di profondo
cambiamento che si sta verificando nel rapporto tra governo e parlamento
e negli stessi comportamenti soggettivi degli esponenti politici nella
comunicazione e nell’esercizio del potere.
Ci
troviamo nuovamente in una fase di formazione di una sorta di
“Costituzione materiale” dai termini contrapposti a quelli della
“Costituzione formale”.
Permane
una transizione i cui contorni appaiono assai incerti salvo verificare
un nuovo accelerarsi di meccanismi di personalizzazione della politica
esercitati in forme sempre più evidenti di vero e proprio disprezzo per
quello che si riteneva, a partire dalla Costituzione Repubblicana, una
sorta di “consolidato” nella forma e nella sostanza istituzionale.
Un
“consolidato”, tra l’altro, confermato in almeno due occasioni (2006 e
2016) da un voto popolare che ha ribadito il concetto di centralità del
parlamento, indicando proprio nelle Camere il luogo dove le élite
dovrebbero formarsi ed esercitare la loro funzione di direzione della
politica del Paese.
Sotto
quest’aspetto tutto sembra tornare in discussione e sorge di nuovo una
domanda di grande attualità: come si determinano i meccanismi di accesso
all’effettiva gestione del potere politico in tempi di società
complessa, dove appaiono evidenti i limiti dei “corpi intermedi” e delle
stesse formazioni di governo?
Come
può essere possibile non confondere potere e governo, tanto più che il
governo appare ormai esprimersi attraverso la formula a “bassa
intensità” dell’obbligo alla governabilità quale fine esaustivo
dell’agire politico e l’obbligo alla governabilità è esercitato
attraverso il prevalere della funzione del singolo rispetto
all’esercizio di un ruolo collettivo, in una evidente voluta confusione
di ruoli?
Per
rispondere efficacemente è necessario ricostruire subito il quadro
generale dentro cui ci troviamo: da una parte è cresciuto grandemente il
fenomeno della “personalizzazione” della politica ormai giunto a
sfiorare livelli preoccupanti in un rapporto tra il “capo” e le “masse”
veicolato soltanto dal mezzo televisivo o dal web, attraverso cui si
realizza un inquietante e per certi versi paradossale “dialogo” diretto
tra il “politico” e la folla; contestualmente, e ci verrebbe da
aggiungere quasi naturalmente, sono cambiati profondamente i partiti
politici, ormai svuotati dalla partecipazione di iscritti e militanti
ridotti al rango di “fruitori di eventi”.
Partiti
politici trasformatisi in alcuni casi in “partiti personali elettorali”
e in altri in una forma particolare del “partito acchiappatutti”: un
modello questo che nella realtà del caso italiano appare molto più
informe nella sua struttura e molto più caotico nella sua organizzazione
di quanto non fosse stato immaginato nel momento della sua
teorizzazione, quale punto possibile di superamento del “partito di
massa”.
Sarà
bene intenderci subito su di un’affermazione essenziale: la democrazia
non è possibile senza partiti politici, perché il “pluralismo si esprime
anche in organizzazioni stabili, durature, diffuse, che si chiamano –
appunto – partiti” (Kelsen 1929, trad.it.
1966). I partiti svolgono funzioni non assolvibili da nessun’altra
organizzazione e non soltanto dal punto di vista della promozione
elettorale, ma anche nei compiti oggi largamente disattesi se non del
tutto ignorati della partecipazione alla vita pubblica, della
formulazione di programmi, ai compiti di acculturazione di massa e di
vera e propria integrazione sociale.
Il
punto da rimettere in discussione fino in fondo, allora, è quello
riguardante il “come” si formano i gruppi dirigenti, come avviene la
selezione del personale politico, come si costruiscono quelle élite
chiamate al compito di dirigere la vita pubblica.
E’ il caso allora di riprendere la discussione per un possibile aggiornamento della “teoria delle élite”.
La
prima nozione in materia ci proviene da Vilfredo Pareto , allorquando
individua nell’eterogeneità sociale il costruirsi di una dicotomia
”stabile” tra una classe superiore e una classe inferiore e indica
l’unica possibilità per ritrovare i migliori nelle posizioni di vertice
nel continuo ricambio delle élite e al passaggio di individui da una
classe all’altra (Sola, 2000).
Tocca
però ad Antonio Gramsci costruire sul piano teorico la nozione di
élite, partendo dall’insoddisfazione per la definizione coniata da
Gaetano Mosca di “classe politica”.
Al
pensatore sardo (“Quaderni del carcere” volume III, edizione Einaudi
1975) la definizione “classe politica” appare “elastica e ondeggiante”,
dal momento che “talvolta essa sembra sinonimo di classe media, altre
volte è impiegata per indicare l’insieme delle classi possidenti, altre
volte ancora fa riferimento alla “parte colta” della società o, più
restrittivamente, al “personale politico” inteso come ceto parlamentare
dello Stato.
Per
ovviare a questi inconvenienti e per ancorare la teoria delle élite
alla metodologia marxiana e alla teoria delle classi, Gramsci, che pure
utilizza in diverse occasioni il termine élite, propone di distinguere
tra classe dirigente e classe dominante.
Il
criterio che egli adotta è direttamente riferito al lessico marxista,
ma tiene conto anche delle riflessioni di Pareto in tema di “forza” e di
“consenso”.
Premesso
quindi che la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi,
come “dominio” e come “direzione intellettuale e morale” Gramsci
propone di chiamare classe dirigente quel gruppo che s’impone attraverso
il consenso, ovvero esercita l’egemonia sugli altri gruppi sociali.
Viceversa è classe dominante quel gruppo che tende a liquidare o a sottomettere i propri avversari.
Una classe può essere dominante e non dirigente oppure dirigente e non dominante.
Oggi
emerge la tendenza a confondere questi elementi: il “Capo” si pone alla
testa ma non alla guida ed esercita il potere soltanto con l’obiettivo
proprio di rimanere “alla testa”., senza esercitare la “guida” se non
nelle forme indicate dalla mutevolezza di sensibilità propria della
“folla”.
Il
tema della costruzione delle élite dovrebbe quindi essere strettamente
connesso al tema dell’egemonia come conferma anche lo stesso teorico del
“governo” Robert Dahl (1958) allorquando indica che : l’élite deve
costituire un gruppo ben definito; le opinioni di questa élite debbono
essere in contrasto con quelle di ogni altro possibile gruppo analogo;
in tali casi, implicanti questioni politiche fondamentali le scelte
dell’élite prevalgono regolarmente.
E’
proprio l’ultima affermazione che ci riporta all’attualità perché è
proprio l’assenza di capacità nell’individuare le questioni politiche
fondamentali oppure di agire, in questo senso, soltanto attraverso
“specchietti per le allodole” oppure nella ricerca di “capri espiatori”,
che impedisce la formazione stessa delle élite (mancando il presupposto
indispensabile del “gruppo”) e di conseguenza la possibilità di far
prevalere una tesi sull’altra proprio per l’assenza di definizione
precisa dei termini di alternatività tra le tesi stesse.
Gli
assunti di paradigma sui quali può poggiare il rinnovamento di una
ricerca attorno alla costruzione di un’élite possono essere così
definiti: la politica è lotta per la preminenza e il potere va concepito
come “sostanza” e non come “relazione”; è necessario avere ben
presente la distinzione tra potere reale e potere apparente; la lotta
per il potere e l’attività politica in generale è fatto “minoritario”
nella società; la conquista, il mantenimento, la gestione del potere
corrispondono alla capacità di coordinazione dei gruppi politici; la
società è una realtà irrimediabilmente eterogenea, gerarchica, e
conflittuale; ci si deve soffermare sul ruolo che le idee, i miti e le
dottrine assumono nel processo di legittimazione dell’autorità.
In
definitiva, il tratto essenziale della struttura di ogni società
consiste nell’organizzazione dei rapporti che intercorrono tra
governanti e governati, tra minoranza organizzata e maggioranza
disorganizzata e nelle relazioni che si stabiliscono tra i diversi
gruppi che detengono ed esercitano il potere: con buona pace di chi
pensa come realistiche proposizioni quali quelle della “democrazia
diretta” e della “democrazia del pubblico”.
Sono
questi gli elementi che debbono essere sottoposti alla riflessione
politica nell’attualità del disfacimento del sistema cui stiamo
assistendo : una riflessione da portare avanti attraverso un lavoro di
studio che punti, proprio per citare nuovamente Gramsci, alla
riunificazione tra teoria e prassi con un’ipotesi complessiva di
trasformazione sociale collegata a un’élite ricostruita nell’interezza
della sua identità di gruppo.
Naturalmente
nell’elaborare questo intervento molte questioni sono state sottintese:
l’analisi delle diverse specie di élite presenti in una stessa società,
il tema delle relazioni tra le élite stesse e le masse,
l’approfondimento circa i meccanismi di legittimazione che debbono
essere attuati nell’acquisizione, nell’esercizio, nella detenzione e nel
rovesciamento del potere.
Si
tratta di punti essenziali da sottoporre, prima di tutto, a un non
facile lavoro di vera e propria “ricostruzione intellettuale”, quello al
quale pensiamo ci si debba dedicare con grande impegno in questa fase,
senza dimenticare però l’attualità drammatica dei fenomeni di vero e
proprio arretramento di massa in corso sul terreno delle condizioni di
vita, del venire meno nella disponibilità di diritti individuali e
collettivi, nel restringimento dei termini stessi di esercizio della
democrazia repubblicana.
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