In un recente documento del ministero dell'Istruzione si traccia il profilo dell'insegnante ideale. Ma ha senso stabilire uno standard per una professione che è (o dovrebbe essere) per definizione estremamente creativa e libera?
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Lo scorso 16 aprile il MIUR ha pubblicato un lungo dossier contenente l’esito del lavoro svolto da alcune commissioni per lo Sviluppo professionale e qualità della formazione in servizio.
Apparentemente l’intenzione si basa su un procedimento logico: definire
il profilo dell’insegnante cui vogliamo aspirare, per poi programmare
in coerenza con tale traguardo un’adeguata formazione professionale. Un
po’ ingegneristico come approccio, ma in fondo si tratta di un documento
interessante, poiché presenta elementi e idee orientate a un effettivo
miglioramento della condizione professionale degli insegnanti, pur
includendo delle criticità da non sottovalutare. Leggendone le prime
pagine, ci si accorge con una certa sorpresa che gli estensori del
documento non rinviino con la sufficiente precisione alle condizioni
effettive di lavoro dei docenti, né alla loro condizione contrattuale. A
pagina 4 infatti, troviamo che il lavoro a scuola “non è più”
rappresentato dall’orario frontale di lezione. Questo è ovvio, salvo il
fatto che non è mai stato così, né da un punto di vista normativo, né
fattuale. Fanno parte infatti del carico di lavoro del docente le
attività funzionali all’insegnamento, come le molte ore trascorse in
riunioni, preparazione e correzione di elaborati e verifiche;
programmazioni e predisposizioni delle unità d’apprendimento,
pianificazione degli interventi individualizzati, nonché la sempre più
intensa attività online, e molti altri oneri, spesso burocratici, non
facilmente quantificabili. In questo senso, strutturare un monte ore
preciso, come indicato dal documento, sarebbe possibile solo se le
scuole fossero in grado di garantire degli spazi di lavoro ai docenti,
che invece sono materialmente costretti a svolgere gran parte di queste
attività nelle proprie abitazioni e con le proprie strumentazioni.
I documenti in questione provano dunque a definire il profilo di
competenze del docente-modello, un po’ come si fece nelle Indicazioni
Nazionali del 2012 per il profilo dello studente in uscita. Tralascerei
l’analisi delle varie peculiarità, talvolta declinate in modo cavilloso,
del lavoro di insegnamento ben svolto, così come viene rappresentato in
questo dossier. Forse è il caso di domandarci quanto sia opportuno
stabilire uno standard in base al quale profilare i vari
docenti. Si tratta di uno strumento di controllo che non rende agevole
la creazione di modalità didattiche nuove e non prevedibili, che fissa
dei confini forse inutili, se non dannosi. Il MIUR ha in mente un
modello professionale che è privo di aperture. L’insegnamento è invece
una professione estremamente creativa. Il “modello” di insegnante che
meglio riesce a trasmettere non solo passione, ma anche cultura – come
spesso emerge anche dalle candidature al World Teacher Prize –
si fonda sull’imprevedibile creatività con cui il docente riesce a
dribblare alcune difficoltà e sperimentare o ideare nuove metodologie,
contro tutti gli standard consolidati. Sarebbe bene, dunque, immaginare
una struttura più aperta e meno vincolante.
A pagina 15, quando si definiscono le conoscenze culturali attese
dai docenti, si fa riferimento a uno stile di lavoro che un docente
italiano non sempre può sostenere. Si scrive: “[il docente] cura il
reperimento di fonti, risorse e documenti, per fornire un insegnamento
aggiornato e aperto agli sviluppi della ricerca scientifica e
culturale”, e poco oltre: “ha consuetudine con le più importanti fonti
culturali dei domini del sapere di propria competenza (repertori,
riviste scientifiche, risorse digitali)”. Cosa significa tutto ciò? Vuol
dire che gli insegnanti non devono limitarsi a una formazione
didattico-pedagogica, ma ci si attende da loro una discreta capacità di
seguire gli aggiornamenti scientifici inerenti la propria disciplina di
insegnamento. Il che non vuol dire semplicemente la consultazione
periodica di siti internet specializzati, ma attenzione costante ai
nuovi studi nel campo della scienza, della filosofia, della letteratura e
quant’altro. Su questo il Ministero dovrebbe fare uno sforzo ulteriore.
Se la “Carta del docente” deve servire a sostenere le spese per i
propri percorsi formativi e gli strumenti informatici, oltre che i libri
per lo studio e l’aggiornamento, sarebbe ora che il MIUR cominciasse a
garantire un abbonamento gratuito per i docenti a una rivista
scientifica di settore e ad almeno un quotidiano, anche in formato
digitale. Non sarebbe una grossa spesa, e sarebbe un provvedimento molto
significativo.
È molto importante quello che viene indicato come necessità di
costruire team di auto-analisi e verifica reciproca su metodi ed
efficacia del lavoro. Infatti, poiché nelle scuole sono presenti
indubbie professionalità di elevato profilo, che sono poi spesso assai
più competenti in materia metodologica dei molti formatori che
provengono dall’esperienza universitaria e difficilmente riescono a
intercettare i bisogni dei docenti, sarebbe opportuna un’iniziativa
normativa che consentisse, in presenza di alcuni parametri procedurali,
di considerare validi a fini formativi anche alcuni percorsi di
auto-formazione ben progettati e gestiti in autonomia dai docenti delle
scuole e poi certificati dal dirigente scolastico.
Diverso il discorso per quanto concerne gli enti che erogano
servizi di formazione nelle scuole. Per migliorare la qualità delle
iniziative di aggiornamento è ormai improrogabile una procedura per
definire i criteri di selezione dei formatori. Il quadro in Italia è
desolante. Sarebbe importante se il MIUR istituisse il titolo di
“abilitazione all’attività di formatore”, per poi costituire una
commissione esperta e assegnare con criteri chiari e rigorosi tale
abilitazione. Inaccettabile che molti formatori nella scuola siano del
tutto a digiuno di tecniche della comunicazione, teorie
dell’apprendimento (anche degli adulti) o di esperienza sul campo. Gli
enti che erogano formazione, dovrebbero avere titolo a svolgere questa
funzione solo se in grado di ricorrere esclusivamente a personale
abilitato. La presenza di formatori impreparati, o incapaci di adattarsi
alla circostanza che trovano di fronte a loro (spesso si rivolgono a
docenti delle scuole superiori con le medesime slide che utilizzano
nella scuola primaria), rende in molti contesti professionali
inaccettabile e poco stimolante la partecipazione ai corsi.
Ad ogni modo, un punto qualificante è la ripresa del concetto di
portfolio professionale del docente. Un passaggio interessante sul piano
culturale, ma delicato su quello sindacale. Gli estensori di questo
dossier insistono molto sull’importanza della documentazione continua,
da parte dei docenti, relativamente a tutte le attività svolte, in modo
da programmare, monitorare e concordare ogni iniziativa
professionalizzante. Indubbiamente una simile cura descrittiva possiede
un valore metacognitivo importante per la professione docente, almeno
quanto lo ha per gli studenti. In generale, le attività di progettazione
e bilancio, soprattutto se inserite in un processo di condivisione,
rappresentano un’occasione di riflessione che può aggiungere valore al
lavoro didattico. Questo, però, soltanto se sono soggettivamente vissute
con spirito consapevole, altrimenti possono essere interpretate ed
eseguite come l’ennesimo carico burocratico. Si tratta indubbiamente di
un dispendio di tempo ed energie, e come tale andrebbe incentivato.
Estremamente insidiosa è infatti l’affermazione in base alla quale
documentare e certificare i traguardi raggiunti dalla professionalità
docente significhi “investire sulle relazioni e sulle collaborazioni
disinteressate: chiamare in causa lo scopo morale ed etico della
professione”. Se questo significa obbligare i docenti a uno scrupolo
documentale, e cioè a dedicare molte ore di lavoro al bilancio delle
competenze, alla descrizione delle proprie esperienze didattiche, alla
programmazione e al monitoraggio dei propri percorsi formativi, senza
riconoscere a questo sforzo e a tale aumento dell’orario di lavoro (di
fatto si tratta di ciò) un effettivo aumento di salario, non si può che
restare perplessi, o meglio, contrariati. Ogni obbligo a spingersi verso
attività più complesse di quelle attuali, implicanti aumento di tempo
ed energie, mantenendo parità salariale, significa nei fatti una
riduzione di stipendio. Il discorso è sempre lo stesso: non si può
pretendere di fare le nozze coi fichi secchi.
(14 giugno 2018)
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