venerdì 8 giugno 2018

Scuola. Caro professor Galli Della Loggia, con la scuola le sue predelle non hanno nulla a che fare.

Qualche riflessione non richiesta sulla presente e viva: le proposte del prof Galli della Loggia sono perlopiù di stampo gentiliano. Nessun timore, non è il solo, Gentile è vivo e lotta insieme a noi, potentemente quanto inconsapevolmente, per mancati approfondimenti e riflessioni interrotte, per puntini che non si sono uniti.
 

Opera in parte dentro le scuole, in parte dentro il Miur, in parte nei dipartimenti universitari, e in parte disseminato nel Paese. È vivo e lotta insieme a noi tanto quanto la ricerca educativa, che però è andata da tempo da un'altra parte.
La predella. Se predella ha da essere, oltre che le motivazioni pedagogiche andrebbero curate le indicazioni logistiche, per la normativa sulla sicurezza il montaggio esige uno spazio in aula considerevole, la pedana inclinata, l'assenza di spigoli e di gradini, dunque, bene che vada circa 20 mq solo per sé.
Dovremmo dunque ingrandire le aule oppure comporre classi con un numero di studenti molto inferiore, 10/15. Per carità, ci metterei la firma subito, ma non per star sulla predella, per avere maggiore tempo e attenzione a studente. La domanda è: chi la usa più la cattedra? Forse ai licei? È utile? È efficace? Per quale tempo e per quale obiettivo? Per quale didattica? Parliamone. Nessuna preclusione.
Non sono contraria per motivi ideologici all'elenco di Galli della Loggia, ma per motivi scientifici e per banali motivi di pratici. Molte di quelle indicazioni sono semplicemente superate, si è verificato, sia nella ricerca educativa sia nella pratica didattica, che non funzionano: il rispetto delle regole insieme al valore e all'amore per lo studio vanno trasmessi lavorando sulle motivazioni intrinseche e non su quelle estrinseche.

Non per imposizione, ma per convinta adesione, sennò che valore democratico avrebbero la scuola e la cultura? Gentile lavorava per imposizione, come per imposizione era organizzata la società fascista. Viveva, parafrasando Gramsci, di una concezione oleografico-ideologica di Scuola, funzionale a una concezione dello Stato paternalistica ed autoritaria.
Voglio dire, va benissimo, se quella concezione si condivide. Alla predella fanno il paio il balilla e l'alzabandiera. Va malissimo se non la si condivide. Bisogna averle chiare queste cose prima di dirle: capire quale effetto si ottiene, anche in termini di ricaduta sociale e culturale, a ogni azione educativa.
E allora motivazioni intrinseche. Si illudono di avere studenti modello quanti non lo comprendono? Modello di cosa? Rispetto delle regole, certo, bene: le regole possono essere espressione di cittadinanza democratica oppure di cittadinanza aristocratica o autoritaria. Legittime tutte, purché si sia consapevoli e le si vogliano. Motivazioni intrinseche, dunque.
Saranno medici, ingegneri o dispersi forse, se li abbiamo ammaestrati e non educati, se avranno patito di imposizione e non goduto per adesione (anche se oggi la vedo dura eh, imporre e non condurre adolescenti), saranno uomini e donne che non leggono, non vanno a teatro, non sentono il bisogno dell'arte, della letteratura, del pensiero elegante che ne consegue. Accendere fuochi. Come? Olio di gomito, mestiere, pedagogia, psicologia, didattica.
E poi, vabbè: struttura, perché è la struttura che crea il sentimento. Un sistema meglio organizzato che generi benessere anziché malessere ad ogni anello della catena. Le scuole soffrono di pessima organizzazione, non per cattiva volontà di chi vi lavora ma perché nessuno vuol ammettere che esigono una adeguata diversificazione di lavoro e funzioni.
Comunità complesse di più di mille e cinquecento persone non possono essere gestite con un'organizzazione del lavoro pre paleolitica.
Urgono figure intermedie tra i docenti e i dirigenti specializzate e non prestate a svolgere funzioni delicate non in mezzo, accanto, oltre, con, le funzioni didattiche. Un'organizzazione ancora una volta fintamente oleografica e, sostanzialmente, arretrata, inadeguata.
Lo spazio dell'autorevolezza educativa non è uno spazio fisico che va riguadagnato ex novo, specie nel mondo della condivisione e circolazione orizzontale della conoscenza e non più della trasmissione verticale.
La distanza tra chi insegna e chi impara oggi è un'altra distanza che non è data dalla quantità del sapere o dagli anni trascorsi sui libri, ma dalla qualità dei processi messi in atto per rielaborare moli di saperi. Le informazioni che investono i nostri studenti sono milioni, sono dati, non necessariamente passano tra i banchi o tra i libri di scuola, non necessariamente sono inutili o dannosi, come non lo è (o forse sì?) la home di un quotidiano nazionale.
La conoscenza è amplificata e deformata e l'attenzione è tutta da riporsi nella relazione, nei nodi, nel processo organizzativo e rielaborativo di quelle informazioni. Se non ci si riesce i nostri ragazzi diventano milioni di monadi che galleggiano su milioni di zattere della Medusa in tempesta. I dati li travolgono, le informazioni, le opinioni. Rispondono con mancanza di attenzione per eccesso di percezione.
Parliamo e interroghiamoci su come rispondere, come compensare, confrontiamoci sul processo dei dati e della conoscenza che viaggiano col digitale. Altro che cellulare fuori dalla scuola. E chi li guida, chi li forma, chi li sorregge? No, non è semplice e non è scontato, bisogna riflettere e bisogna agire, con didattiche diverse che tengano conto di questi cambi di paradigmi epistemologici su cui nulla possiamo fare se non osservare, studiare, approfondire e governare.
E studiare, fare ricerca e leggere. Mestiere. Mestiere. E allora sapremmo che gli effetti negativi sull'attenzione del digitale si compensano con l'azione manuale, vale anche per gli adulti: il disegno, la falegnameria, suonare uno strumento. Non è un caso che siano state potenziate nei sistemi d'istruzione più attenti. L'uomo pensa perché ha una mano, diceva Anassagora, le ricerche neurali confermano. La mano incide sulla memoria, la scrittura manuale, il corsivo, il ricamo. Mano e pensiero, algoritmo e ricamo. Predella o pedana per saltare.
Non demonizzare quel che non si conosce.
Se posso fare una notazione strettamente biografica, che non basta a spiegare i fenomeni ma i sentimenti sì: non dimenticherò mai lo sguardo di un mio alunno in periferia, che non aveva il libro di arte, che non portava manco i quaderni a scuola, che saltava dalle finestre in piena lezione, ma disegnava divinamente.
Non dimenticherò mai il suo sguardo quando gli piazzai sotto gli occhi col cellulare, non con fotocopie in bianco e nero, i colori della Cappella Sistina ingrandendo e zoommando sulla Sibilla Cumana. Un dialogo di anime sul bello vivo ancora oggi. Amare lo studio è un sentimento. Le humanities, come anche le stem, si avvalgono dei libri, degli occhi, del cuore, della testa, del sapore e...del digitale.
Senza perdere nulla e guadagnando tanto. Non è l'elogio, i rischi sono tanti. Ma è la vita, è il mondo, è la storia che ci insegnano tutti che ogni zeitgeist ha pensieri e strumenti di quel tempo con cui viaggiano i pensieri. Futurismo, zum zum, bam, bam. Papiri. Lapislazzuli. Sete. Algoritmi. Blockchain. Pensieri.
Un'emozione fortissima che mi torna viva e forte perché gli vidi un'espressione e un tremore che mi era capitato di vivere, lei la conoscerà, Sindrome di Stendhal. Avevo raggiunto il massimo obiettivo didattico che potevo pormi, io insegno arte. Sono riuscita a portarlo in gita a Roma. E altri anche in Spagna e a Parigi. E persino a vedere gli stucchi del Serpotta a nemmeno 500 metri da scuola. L'arte non ha nazionalità.
La didattica di un docente professionalmente consapevole e formato non può mettersi al livello della banalità del senso comune e degli stereotipi, come non può farlo nessuna disciplina o settore scientifico. Ha il dovere di semplificare per comunicare ma non può arrendersi al senso comune e alla totale ignoranza di temi, dati, argomentazioni fondate.
Didattica, pedagogia, innovazione, psicologia, antropologia, didattica attiva, coinvolgimento. Non sarebbe il caso che se ne interrogassero anche gli accademici, di didattica, di pedagogia, di digitale, di dati, di flussi, insieme all'arte e alle sudate carte, ogni qualvolta, e io li ringrazio, abbiano voglia e interesse di parlar di Scuola?
Ammetto che c'è poca divulgazione su temi che riguardano la ricerca educativa, efficace e rigorosa al tempo stesso, e forse per questo quel vuoto viene riempito d'altro e da altri. Tutti vogliono parlare di Scuola, ed è una cosa bellissima a cui si risponde non con la critica o lo scontro ma scrivendo di più, chi crede di saperne di più e meglio.
Quello che si ignora spaventa, ma chi studia e crede nel sapere e nella conoscenza, chi crede che la società aperta inizi da una mente aperta, dovrebbe essere immune da quella paura e semplicemente, studiare. Come fa sennò ad affrontare un discorso sul metodo che parli oggi e tra cinquecento anni ancora senza averne gli argomenti, senza nessun rigore scientifico o evidenza empirica?
Per tornare al filo e concludere, sono pienamente convinta che l'autorevolezza degli insegnanti possa venire solo da una professionalizzazione sempre più approfondita del mestiere e delle competenze del docente, altro che maestre in possesso di solo diploma. Non me ne abbiano.
Ecco il perché di una riforma appena approvata, che prevede tre anni tre di specializzazione teorico pratica nelle discipline specifiche della professione docente e su cui in pochi si son curati di informarsi. Potrebbe fare la differenza e innescare un cambiamento non indifferente.
Certo, il riconoscimento economico ha la sua importanza. Ma è la specificità professionale da formare con cura, con una selezione e un lessico comune e studi e anni, perché complesse sono le competenze. È l'unica via che permetterebbe un dialogo professionale e di livello sui temi educativi e non questa torre di babele banale o semplicistica, tra docenti e società, tra docenti e intellettuali, oltre che, ovviamente, perseguire il miglioramento sostanziale delle istituzioni scolastiche.

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