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Dell’orrendo
delitto che ha spento la vita di Soumayla Sacko, in cui è evidente che
la pelle della vittima sia stato elemento non certo marginale (checché
ne dicano fin qui le indagini), riportiamo il testo di Giuliano Ferrara
uscito tempestivamente su “Il Foglio” del 4 giugno, e una sintesi
dell’articolo uscito il giorno seguente sul Corriere della Sera
(che per ragioni di copyright non possiamo pubblicare) a firma di
Pierluigi Battista. Con l’amarezza che non siano state le grandi firme
progressiste della carta stampata e della televisione ad essere le prime
e in prima linea nel denunciare il retroterra e l’orizzonte (anche
governativo, ahimè) razzista del crimine.
micromega
Il martire Soumayla Sacko e noi -di Giuliano Ferrara, da il Foglio
E’ difficile scrivere di Soumayla Sacko. Martire perché nero, ucciso da un bianco. Martire perché sindacalista, difensore dei miserabili di San Ferdinando, dalle parti di Rosarno e Gioia Tauro. Martire speciale perché abbattuto come un cinghiale a San Calogero, e San Calogero in Agrigento è raffigurato nero, il santo eremita nero, statua bella e nerissima come quelle delle Madonne Nere di Tindari o Saragozza, questa una delle leggende agiografiche. Martire perché ladro di ferraglia punito con la morte. Martire perché la ferraglia era un rimasuglio di una cava di ladri che avevano inquinato la terra, sequestrata da anni, perché non era un ladro ma un maliano che voleva erigere una baracca che non bruciasse e non ardesse, come quella in cui era combusta una compagna di immigrazione e d’avventura dei miserabili di San Ferdinando. Martire tragicamente simbolico perché ucciso mentre un ragazzotto lombardo che fa il superpoliziotto disinvolto all’Interno predicava con brutalità ideologica contro la “pacchia” degli immigrati, che con lui al comando ora è finita. Martire perché le autorità se ne sono state zitte, il nuovo potere sa essere riservato quando vuole, quando deve. Martire come i capo-lega dei braccianti di una volta, nemici di mafie, padroni e loro protettori, come ha ricordato Emanuele Macaluso. Martire perché munito di regolare permesso di soggiorno e di lavoro, anche se non c’entra. Perché i suoi, e lui prima di morire, guadagnano tre euro l’ora a raccogliere prodotti nel caldo che nessun italiano, padrone in casa sua, raccoglierebbe mai, ormai. Perché aveva poco meno di trent’anni, e gli occhi lucenti di nero acceso e una bambina di cinque.
Prendila dove ti pare, questa storia sa di martirio. Dunque è difficile raccontare la cronaca di un assassinio a freddo e di una morte ancora calda. E’ la testimonianza di tempi spietati in Africa, nel mezzogiorno d’Italia, in Europa occidentale, nel mondo. Ci sono luoghi in cui la modernità e il capitalismo come rapporto sociale di produzione regolato dall’interesse organizzato di padroni dei mezzi di produzione e lavoratori, dalle leggi, dalla idea regolativa del benessere minimo per tutti, alloggio, igiene, contratto, diritti, riposo, sono una chimera, la pacchia che non c’è. E la maggioranza di noi, ciascuno nel suo tinello o nel suo salotto, in condizioni di conforto materiale diverse, con formazione e idee diverse, prende per sé la colpa e lascia ai Soumayla Sacko la punizione. E’ un fatto religioso: Nietzsche, che parlava male di Cristo, diceva appunto che si era preso la punizione e ci aveva lasciato la colpa, mentre avrebbe dovuto fare l’inverso, se davvero voleva redimerci. E’ difficile parlare di una vittima assoluta del male assoluto senza compiacimento, senza sottomettersi alla catena simbolica del bene facile, a buon prezzo, un’ora di pentimento o contrizione a tre euro. Quel giovane uomo nero meritava di vivere, di soffrire, di elevare la sua condizione, mostrare vitalità personale e talenti, allevare la discendenza, amare, essere amato, essere protetto, proteggere, crescere e poi morire come tutti vorrebbero, con consapevolezza (morire sì/non essere aggrediti dalla morte – scriveva Vincenzo Cardarelli, un poeta che aveva sempre freddo). Quel giovane uomo nero era tra coloro che pagano, e duramente lavorando, le pensioni degli italiani vecchi che hanno duramente lavorato (prima gli italiani), e di tanti altri vecchi italiani marpioni che non si arrampicherebbero per quattro piani allo scopo di salvare un bambino appeso come ha fatto il maliano sans-papiers Gassama a Parigi, lui che ora fa il pompiere ed è naturalizzato francese (prima i maliani). Difficile scrivere, bisognerebbe fare, attivarsi, esserci, se non si fosse nel novero dei marpioni che non si arrampicherebbero eccetera. Lui è stato punito, noi siamo inevitabilmente colpevoli, anche quando la colpa la attribuiamo, da posizioni populiste di destra e di sinistra, all’establishment, al sistema, alle élite.
Il martire Soumayla Sacko e noi -di Giuliano Ferrara, da il Foglio
E’ difficile scrivere di Soumayla Sacko. Martire perché nero, ucciso da un bianco. Martire perché sindacalista, difensore dei miserabili di San Ferdinando, dalle parti di Rosarno e Gioia Tauro. Martire speciale perché abbattuto come un cinghiale a San Calogero, e San Calogero in Agrigento è raffigurato nero, il santo eremita nero, statua bella e nerissima come quelle delle Madonne Nere di Tindari o Saragozza, questa una delle leggende agiografiche. Martire perché ladro di ferraglia punito con la morte. Martire perché la ferraglia era un rimasuglio di una cava di ladri che avevano inquinato la terra, sequestrata da anni, perché non era un ladro ma un maliano che voleva erigere una baracca che non bruciasse e non ardesse, come quella in cui era combusta una compagna di immigrazione e d’avventura dei miserabili di San Ferdinando. Martire tragicamente simbolico perché ucciso mentre un ragazzotto lombardo che fa il superpoliziotto disinvolto all’Interno predicava con brutalità ideologica contro la “pacchia” degli immigrati, che con lui al comando ora è finita. Martire perché le autorità se ne sono state zitte, il nuovo potere sa essere riservato quando vuole, quando deve. Martire come i capo-lega dei braccianti di una volta, nemici di mafie, padroni e loro protettori, come ha ricordato Emanuele Macaluso. Martire perché munito di regolare permesso di soggiorno e di lavoro, anche se non c’entra. Perché i suoi, e lui prima di morire, guadagnano tre euro l’ora a raccogliere prodotti nel caldo che nessun italiano, padrone in casa sua, raccoglierebbe mai, ormai. Perché aveva poco meno di trent’anni, e gli occhi lucenti di nero acceso e una bambina di cinque.
Prendila dove ti pare, questa storia sa di martirio. Dunque è difficile raccontare la cronaca di un assassinio a freddo e di una morte ancora calda. E’ la testimonianza di tempi spietati in Africa, nel mezzogiorno d’Italia, in Europa occidentale, nel mondo. Ci sono luoghi in cui la modernità e il capitalismo come rapporto sociale di produzione regolato dall’interesse organizzato di padroni dei mezzi di produzione e lavoratori, dalle leggi, dalla idea regolativa del benessere minimo per tutti, alloggio, igiene, contratto, diritti, riposo, sono una chimera, la pacchia che non c’è. E la maggioranza di noi, ciascuno nel suo tinello o nel suo salotto, in condizioni di conforto materiale diverse, con formazione e idee diverse, prende per sé la colpa e lascia ai Soumayla Sacko la punizione. E’ un fatto religioso: Nietzsche, che parlava male di Cristo, diceva appunto che si era preso la punizione e ci aveva lasciato la colpa, mentre avrebbe dovuto fare l’inverso, se davvero voleva redimerci. E’ difficile parlare di una vittima assoluta del male assoluto senza compiacimento, senza sottomettersi alla catena simbolica del bene facile, a buon prezzo, un’ora di pentimento o contrizione a tre euro. Quel giovane uomo nero meritava di vivere, di soffrire, di elevare la sua condizione, mostrare vitalità personale e talenti, allevare la discendenza, amare, essere amato, essere protetto, proteggere, crescere e poi morire come tutti vorrebbero, con consapevolezza (morire sì/non essere aggrediti dalla morte – scriveva Vincenzo Cardarelli, un poeta che aveva sempre freddo). Quel giovane uomo nero era tra coloro che pagano, e duramente lavorando, le pensioni degli italiani vecchi che hanno duramente lavorato (prima gli italiani), e di tanti altri vecchi italiani marpioni che non si arrampicherebbero per quattro piani allo scopo di salvare un bambino appeso come ha fatto il maliano sans-papiers Gassama a Parigi, lui che ora fa il pompiere ed è naturalizzato francese (prima i maliani). Difficile scrivere, bisognerebbe fare, attivarsi, esserci, se non si fosse nel novero dei marpioni che non si arrampicherebbero eccetera. Lui è stato punito, noi siamo inevitabilmente colpevoli, anche quando la colpa la attribuiamo, da posizioni populiste di destra e di sinistra, all’establishment, al sistema, alle élite.
* * *
"Era un eroe". Inizia così l'editoriale di Pierluigi Battista,
uscito sul Corriere della Sera del 7 maggio. Un incipit lapidario, secco
ed inequivocabile per ricordare Soumaila Sacko, il giovane migrante del
Mali ammazzato sabato scorso a San Calogero, in Calabria. "Era davvero
un eroe che sferza la nostra coscienza. La coscienza di tutti, anche di
noi "buoni" e "civili", non solo dei razzisti, dei violenti, degli
intolleranti" spiega il giornalista. Sacko era un sindacalista dei nuovi
schiavi: si batteva per i diritti di quei braccianti, molti dei quali
rifugiati politici, che dopo esser scappati da guerre, fame e carestie
finiscono a raccogliere pomodori per due euro all’ora, quindici ore al
giorno, nel caldo bollente e sotto le tempeste. Uno schiavismo che
troppe volte in maniera ipocrita non si vuol vedere. Eppure i cittadini
sanno, come ricorda Battista, quale sia la situazione: "Noi sappiamo che
per una manciata di euro i nuovi schiavi si piegano al lavoro
stagionale della raccolta agricola, ma anche a massacrarsi di fatica
(regolare?) nella distribuzione dei pacchi che noi siamo contenti di
ricevere in casa con la fatica di un clic. Davvero non immaginiamo in
che condizioni vivono e lavorano i lavapiatti pagati in nero? Chi
pulisce i servizi igienici negli autogrill, nelle stazioni ferroviarie,
nei grandi outlet? Di che colore è la pelle, nella maggior parte dei
casi?".
Soumalia Sacko è stato lasciato solo anche da una politica afona e dal nuovo governo gialloverde incapace di pronunciare parole forti e di denuncia contro tale assassinio. Isolato dai "cattivi" – da chi foraggia guerre tra poveri - ma anche abbandonato dai "buoni", da quelli che Battista definisce liberali, tolleranti, moderni "che la sanno lunga ma sono incapaci di vedere che in Italia è rinato lo schiavismo".
Soumalia Sacko è stato lasciato solo anche da una politica afona e dal nuovo governo gialloverde incapace di pronunciare parole forti e di denuncia contro tale assassinio. Isolato dai "cattivi" – da chi foraggia guerre tra poveri - ma anche abbandonato dai "buoni", da quelli che Battista definisce liberali, tolleranti, moderni "che la sanno lunga ma sono incapaci di vedere che in Italia è rinato lo schiavismo".
(8 giugno 2018)
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