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Uno dei problemi più sentiti in Italia da decenni ormai è la presenza
di una elevata e persistente disoccupazione. Questo fenomeno è una
semplice disgrazia che ci tocca sopportare mentre attendiamo la sua
scomparsa, o può essere vista anche come uno degli strumenti
fondamentali in mano ai capitalisti per disciplinare la forza lavoro?
Nelle nostre riflessioni abbiamo fatto spesso riferimento
al concetto di ‘esercito industriale di riserva’; tralasciando in
questa sede una trattazione dettagliata dell’argomento nella sua genesi e
nel suo contesto storico,
cercheremo di analizzare cosa concretamente significa questo concetto
nelle sue immediate implicazioni politiche ed economiche. Infine,
vedremo come esso sia legato alle politiche economiche di spesa in
deficit di uno Stato.
L’espressione ‘esercito industriale di riserva’ è stata introdotta da Marx (nel primo libro del Capitale)
per fotografare quella massa di disoccupati, rassegnati e
scoraggiati rintracciabili in un’economia capitalistica. Marx ricorre ad
un lessico militare per mettere immediatamente in luce la funzione che
quella massa di disoccupati svolge all’interno di una vera e propria
battaglia: la lotta di classe. Tale massa ha infatti la funzione di
alimentare la concorrenza tra gli operai per i pochi posti di lavoro
disponibili, e assicura quindi quella moderazione salariale che permette
ai capitalisti di aumentare i loro profitti. Ciò accade perché la
determinazione del salario non dipende, al contrario di quel che spesso si afferma in sedi istituzionali,
da quanto un lavoratore sia in grado di produrre, bensì da una
contrattazione tra capitalisti e lavoratori in cui questi ultimi si
trovano normalmente in una posizione di svantaggio e subalternità.
Tuttavia, una situazione di bassa disoccupazione tende a modificare i
rapporti di forza tra le classi a favore dei lavoratori, con questi
ultimi che riescono a strappare un salario maggiore. Ovviamente non
bisogna dimenticare come la lotta di classe si estrinsechi anche
attraverso aspetti che non si legano strettamente al livello della
disoccupazione, ma è legata anche a fattori quali il tasso di
sindacalizzazione, l’orientamento politico dei governi in carica, le
condizioni della contrattazione, e così via.
Fatta questa breve premessa, viene da chiedersi quanto la lettura di
Marx che vi abbiamo appena proposto possa considerarsi attuale ed
empiricamente verificata. Nel grafico che segue prendiamo in esame dei
dati OCSE, serie storica per l’Italia (dal 1960 al 2016): sull’asse
orizzontale abbiamo il tasso di disoccupazione; sull’asse verticale
abbiamo invece la crescita del salario reale, ovvero quell’ammontare di
beni e servizi che un lavoratore riesce ad acquistare con la sua busta
paga. La lettura del grafico è semplice: più ci si sposta sulla destra e
più il tasso di disoccupazione cresce, più ci si attende che diminuisca
il potere contrattuale dei lavoratori, i quali otterranno una minore
crescita dei loro salari reali; più ci si sposta verso l’alto, più si
allarga il paniere di beni acquistabili dal lavoratore, più il
lavoratore vede aumentare il suo tenore di vita.
Prendiamo dal grafico qualche esempio interessante. I maggiori
aumenti del salario reale si sono avuti nel 1962, 1962, 1963, 1967,
1968, 1970, con tassi di crescita ben oltre il 10% annuo, quando il
tasso di disoccupazione era sotto il 4%. Nel 2012, 2013, 2014, 2015
invece, con un tasso di disoccupazione ben oltre il 10%, i tassi di
crescita del salario reale sono stati prossimi allo zero se non
negativi. In altri termini, esiste a livello empirico una relazione inversa
tra crescita dei salari e tasso di disoccupazione, a conferma di quanto
raccontato da Marx tramite la narrazione dell’‘esercito di riserva’.
Non è infatti un caso che gli anni Sessanta e Settanta (in alto a
sinistra) abbiano visto i più alti incrementi annui del salario reale:
in quel periodo i lavoratori erano meno penalizzati dal conflitto
distributivo proprio in virtù della loro elevata forza contrattuale
derivante dalla modesta pressione a ribasso sui salari esercitata dai
disoccupati. In tempi più recenti (in basso a destra), invece,
registriamo alti livelli di disoccupazione che nella contrattazione
salariale favoriscono i capitalisti, e non permettono la crescita dei
salari reali: l’area in basso a destra del grafico è infatti composta
dalle osservazioni dei dati degli ultimi decenni. Questa evidenza ci
porta dunque a considerare la disoccupazione, fenomeno strutturale del
capitalismo, culturalmente normalizzato ormai da alcuni decenni, come
uno dei mali maggiori delle economie di mercato sia per il fenomeno in
quanto tale, l’assenza di lavoro per milioni di persone, sia per le sue
conseguenze distributive regressive a danno del reddito dei lavoratori.
Dobbiamo pertanto chiederci da cosa derivi il fenomeno della
disoccupazione.
Necessitiamo per questo passaggio di un ulteriore strumento
analitico, quello che gli economisti chiamano ‘domanda aggregata’,
introdotto da Keynes negli anni Trenta. In breve, il livello di
occupazione di un’economia dipende dal livello di produzione, che è
tanto più alto quanto è più alta la domanda aggregata. Quest’ultima è
rappresentabile come l’ammontare di beni e servizi domandati
dagli operatori dell’economia (per semplicità, consumi delle famiglie,
investimenti delle imprese, spesa della pubblica amministrazione, beni
domandati dall’estero) e che in quanto domandati vengono prodotti:
tanto più alto sarà questo ammontare di beni e servizi domandati, tanto
più saranno necessari lavoratori per produrli, tanto minore sarà la
disoccupazione. E’ ora evidente come la disoccupazione dipenda dal
livello della domanda aggregata: tanto più bassa è la domanda, tanto più
bassa sarà la produzione e tanto più alta la disoccupazione. Sappiamo
però che tanto maggiore è la disoccupazione, tanto più bassi saranno gli
aumenti salariali ottenuti dai lavoratori. Mettendo insieme questi due
anelli del ragionamento possiamo vedere come la dinamica salariale sia
quindi connessa all’andamento della domanda aggregata, in quanto
quest’ultima determina il livello di produzione e quindi di occupazione e
disoccupazione.
Cosa possiamo ricavare da questa analisi? Possiamo in conclusione
affermare che le misure di politica economica volte al contenimento
della domanda aggregata sono, alla fine della fiera, politiche di
moderazione salariale. Un Governo che intenda intraprendere un’agenda economica ‘di crescita’
tenderà, tramite un forte ricorso alla spesa ed agli investimenti
pubblici in deficit, a sostenere domanda aggregata ed occupazione.
Viceversa, un Governo che intraprende politiche di austerità
(ad esempio, tramite tagli alla spesa) sta di fatto contenendo la
domanda aggregata, e di conseguenza contribuendo ad aumentare la
disoccupazione, con ricadute negative per la crescita dei salari reali.
Possiamo quindi dire che, da un lato, una maggiore disoccupazione
rappresenta un’arma formidabile in mano alle imprese per tenere basse –
con il ricatto del licenziamento – le rivendicazioni dei lavoratori:
minore è l’occupazione, minori saranno i salari ottenuti dai lavoratori
nella lotta di classe. Dall’altro, la spesa statale in deficit
rappresenta un’arma altrettanto formidabile di contrasto a questo
ricatto, potendo essa incidere fortemente sui livelli di disoccupazione.
Pertanto, solo una convinta emancipazione dai dettami di politica
economica imposti tramite trattato di Maastricht, Fiscal Compact
e pareggio di bilancio in Costituzione circa il contenimento della
spesa pubblica permetterebbe, una volta ripristinate le misure di
politica espansiva, quel riassorbimento della disoccupazione che
favorirebbe anche la crescita dei salari.
* Coniare Rivolta è un collettivo di economisti – https://coniarerivolta.wordpress.com/
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sabato 16 giugno 2018
La piena occupazione spaventa il profitto: perché lottare contro i vincoli europei
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