Com’è accaduto che lo spread Btp-Bund sia diventato la Linea Maginot dietro la quale la sinistra italiana è asserragliata, il baluardo a cui si aggrappa in questa tempesta istituzionale? È normale che lo slogan dei progressisti sia “attenti al giudizio dei mercati”? Rifiutare il piano B dell’uscita dall’euro significa sdraiarsi sull’austerity germanica? Proprio quella che abbiamo criticato per anni?
...Se la salvezza è un tecnocrate del Fondo monetario internazionale, la nostra storia la stiamo buttando via. Non stupisce che la classe operaia vecchia e nuova si senta più rappresentata da altri. | |
Repubblica.itFederico Rampini
Capisco che abbia suscitato tante
passioni l’Amaca di Michele Serra, in cui ha rifiutato
l’alternativa tra “governo dei mercati e governo del popolo”.
Molti di noi si sentono stritolati in questa opzione. Ci
sentiamo traditi da una sinistra che fa di tutto per dar ragione
a chi la descrive come establishment.
Chi commenta l’indice Mib come fosse un giudizio divino sembra
dimenticare che in altre circostanze la Borsa premia le aziende
che tagliano i costi licenziando o ingrassano i profitti
eludendo le imposte nei paradisi fiscali.
La Borsa ha i suoi
criteri. Non dovrebbero essere i nostri.
Sento il peso di una disfatta anche
personale. È da dieci anni che sulle colonne di questo giornale
critico — da sinistra — i governi eterodiretti dai mercati
finanziari e i danni dell’ordo-liberismo tedesco. Non è “farina
del mio sacco”, o non soltanto. Contro l’euro- ortodossia ho
dato voce su Repubblica alle accuse
ben più autorevoli di un presidente degli Stati Uniti, Barack
Obama; nonché di premi Nobel dell’Economia come Paul Krugman e
Joseph Stiglitz, Angus Deaton e Kenneth Arrow. Ricordo i vertici
G7 e G20 dove ho seguito Obama, raccontando la sua pressione su
Angela Merkel perché correggesse le rigidità dell’austerity.
A
cominciare dal summit di Pittsburgh sotto presidenza americana
nell’autunno del 2009, quando le economie occidentali erano nel
baratro della crisi più grave dalla Grande Depressione. Da quel
momento in poi Obama tentò di spiegare che la Germania stava
condannando l’intera Eurozona ai “ tempi supplementari” della
crisi.
Cercarono di usare la sponda
obamiana i vari Hollande, Letta, Renzi, Varoufakis. Timidamente.
I leader dell’Europa latina soffrivano di un deficit di
credibilità. Così non era per Obama, al timone di un’economia
che uscì dalla recessione a gran velocità.
Otto anni di critica obamiana — da
sinistra — alle regole di Maastricht non possono essere
cancellati e ribaltati solo perché a contestare il “pensiero
unico” oggi sono Trump, Salvini, Di Maio.
C’è un prima e un dopo la crisi del
2008 anche per il giudizio sull’euro. Alla prova di quella
recessione, i Paesi che ne uscirono più velocemente (Usa) o la
evitarono del tutto ( Cina) furono quelli che fecero tesoro
della lezione di Keynes- Roosevelt negli anni Trenta e
ignorarono parametri di Maastricht, austerity, ecc.,
azionando robuste leve di investimenti pubblici. È davvero nella
gestione dell’Eurozona fra il 2008 e il 2011 che si scava un
divario tra l’opinione pubblica italiana, francese, spagnola,
greca, e l’ordo-liberismo tedesco.
Non buttiamo via il lavoro dei
neokeynesiani europei — come Jean- Paul Fitoussi — che cercarono
di aprire un varco nella “religione” tedesca dei parametri:
distinguendo tra buoni e cattivi investimenti pubblici, tra
deficit che generano produttività futura ( i fondi per la
ricerca e la formazione) e la spesa improduttiva, parassitaria,
assistenziale.
Contro il Di Maio-Salvini-Savona
pensiero, va precisato che chi s’indebita all’estero cede
sovranità. In questo ci troviamo al momento in pessima
compagnia: Argentina e Turchia sono gli altri “anelli deboli”
presi di mira dai mercati.
In quanto all’uscita dall’euro, ricordo quel che mi dichiarò — in un’intervista per il Venerdì di Repubblica
— quel Joseph Stiglitz che molti sostenitori del M5S stimano e
rispettano. L’euro — mi disse Stiglitz — è nato su premesse
profondamente sbagliate, e ha fatto danni gravi, in particolare
all’Europa del Sud. Ma dato che l’Italia c’è dentro, uscirne
comporterebbe dei costi ancora peggiori. Non è un’analisi
esaltante: costringe a scegliere il minore tra due mali. È
realistica.
Sarebbe utile se questa diventasse la linea di un
futuro governo sovranista e populista — se nascerà. Che dica
chiaro all’Europa: vogliamo portare a Bruxelles posizioni molto
critiche, ma non usciremo dall’euro.
Un messaggio di questo
tenore calmerebbe la tempesta e salverebbe un po’ di risparmi
delle famiglie italiane.
Un’Italia più aggressiva con Merkel
— possibilmente rappresentata da persone competenti — è
auspicabile.
Contro il moralismo-razzismo di certi commentatori
tedeschi, ricordiamo che a loro le regole si applicano en souplesse,
sospendendole quando serve.
Fu vero nei casi di sforamento del
deficit/ debito; o per la Deutsche Bank e altri aiuti alle
aziende di credito tedesche.
Infine resta sempre inapplicata una
regola dei patti europei che considera gli eccessivi avanzi
commerciali altrettanto dannosi degli eccessivi deficit.
Ma vorrei che la sinistra smettesse
di usare le oscillazioni dei mercati finanziari come una clava
da sferrare con opportunismo contro Lega e M5S.
I mercati sono
una realtà concreta dove si muovono interessi (non quelli delle
classi lavoratrici) e ideologie (neoliberismo), su cui troppi
governanti di sinistra si sono appiattiti, pagando un prezzo
altissimo.
Se la salvezza è un tecnocrate del Fondo monetario
internazionale, la nostra storia la stiamo buttando via. Non
stupisce che la classe operaia vecchia e nuova si senta più
rappresentata da altri.
(31 maggio 2018)
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